Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24360 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. I, 03/11/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 03/11/2020), n.24360

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10150/2019 proposto da:

S.M., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Di Rosa Clementina, giusta procura in calce alla

comparsa di costituzione di nuovo difensore;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, del 27/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2020 dal cons. Dott. BALSAMO MILENA.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Il Tribunale di Napoli, con decreto pubblicato il 28.02.2019, respingeva il ricorso proposto da S.M. cittadino del (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Caserta, a sua volta, aveva rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).

Il Tribunale di Napoli riteneva che le dichiarazioni rese dal richiedente non fossero attendibili e che la Commissione avesse correttamente valutato l’insussistenza delle condizioni per il riconoscimento delle situazioni soggettive invocate per ottenere la protezione internazionale.

Il richiedente aveva raccontato di appartenere al partito (OMISSIS) come la sua famiglia, circostanza che lo aveva esposto alle percosse degli avversari politici ((OMISSIS)); affermava, in particolare, di aver assistito all’omicidio di un suo amico ad opera dei militanti del partito governativo, il che lo aveva indotto ad allontanarsi dal villaggio lasciando moglie e figlio presso la casa dei suoceri situata in un vicino villaggio.

Produceva a dimostrazione del suo assunto un attestato di appartenenza al partito (OMISSIS), con l’apparente data del 14.03.2017, nonchè documenti relativi alla salute del padre, sostenendo altresì che una inondazione aveva danneggiato la loro terra e che non era in grado di fornire mezzi di sostentamento alla sua famiglia.

Il tribunale partenopeo respingeva la domanda di protezione evidenziando le contraddizioni e l’incoerenza del colloquio nonchè la carenza dei presupposti della protezione umanitaria.

S.M. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di due motivi di ricorso. Il ministero dell’interno è costituito al solo fine di partecipare all’udienza.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

2. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27 bis in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; per avere il decidente escluso il riconoscimento della protezione internazionale, violando il principio secondo il quale il convincimento del giudice non può fondarsi sulla sola credibilità soggettiva del richiedente, avendo il giudice l’onere di verificare d’ufficio la credibilità delle dichiarazioni sulla base delle informazioni esterne relative alla situazione del paese di provenienza; affermando, al contrario, la coerenza e la plausibilità delle dichiarazioni rese, mentre il collegio si sarebbe soffermato sulla contraddittorietà di alcuni elementi secondari (dettagli) della narrazione.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. A) e art. 14 nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ex art. 360 c.p.c., n. 3; per avere i giudici di primo grado escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, violando il dovere di cooperazione istruttoria, non avendo il decidente attivato il potere di acquisire informazioni attendibili sulla situazione del paese di provenienza. Nel caso all’esame, fonti internazionali descriverebbero, ad avviso del richiedente asilo, la compressione delle libertà fondamentali dei gay, della libertà di riunirsi, sparizioni forzate, la crisi umanitaria di 65.000 rohymga, prevalentemente musulmani del Myanmar, non riconosciuti come rifugiati dal (OMISSIS), l’uso della tortura e dei maltrattamenti per le persone in custodia, la presenza di una situazione generalizzata di violenza diffusa ed indiscriminata.

4. Con il terzo mezzo, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonchè dell’art. 3, comma 3, lett. a), e del D.Lgs. n. 251 del 2007; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la nullità del decreto per violazione dell’art. 132 c.p.c.ex art. 360 c.p.c., n. 4; per avere il giudice collegiale escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, in violazione degli obblighi di diritto internazionale e convenzionale (art. 2 Cedu) e degli obblighi di diritto UE (direttiva 2008/304/Ce). In altri termini, il decidente avrebbe dovuto esaminare la situazione di vulnerabilità (giovane età, impossibilità di reinserimento nel paese di origine, instabilità politica del (OMISSIS), violenza indiscriminata) del richiedente asilo anche attraverso il bilanciamento tra integrazione sociale acquisita in Italia (dove lavora alle dipendenze della ACR imprese s.r.l. di (OMISSIS) come addetto al confezionamento a far data dal 16.11.2018) e la situazione oggettiva del paese di origine, verificando la condizione di effettiva deprivazione dei diritti umani in caso di allontanamento.

Nell’illustrazione del suddetto motivo, il ricorrente lamenta l’apparenza o apodittica motivazione, non avendo il tribunale esposto le ragioni del rigetto in modo esaustivo.

5.La prima censura è infondata.

Secondo un recente indirizzo di legittimità, inaugurato da Cass. 2954/2020 e seguito da Cass. n. 8810/2020 e da Cass. n. 11925 del 19/06/2020, cui il collegio presta convinta adesione, il dovere di cooperazione istruttoria, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in un rapporto di stretta connessione logica (anche se non in una relazione di stretta e indefettibile subordinazione) rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile. Il principio che le inattendibili dichiarazioni del richiedente non richiedono approfondimento istruttorio officioso rileva ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Difatti è in relazione alla massima protezione ed ai casi disciplinati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) di “condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte” o “tortura o altra forma di pena o trattamento inumano e degradante ai danni del richiedente”, che la valutazione di credibilità soggettiva (all’esito di una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda; Cass. n. 21142/2019) costituisce una premessa indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento; sicchè le dichiarazioni che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non richiedono alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. n. 5224 del 2013; n. 16925 del 2018) dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass. (ord.) 20.12.2018, n. 33096; Cass. 12.6.2019, n. 15794). Salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri probatori, incombendo al giudice l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, al fine di accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Cass. n. 871 del 2017; Cass. n. 19716/2018).

Quanto alla doglianza secondo la quale il giudice avrebbe affermato l’inattendibilità complessiva del richiedente asilo, rispetto ad alcuni secondari dettagli, violando il principio del beneficio del dubbio (Cass. 16028/2.919), si rammenta che il D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 3 dispone che: “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.

Tuttavia, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 enuncia alcuni parametri, meramente indicativi e non tassativi, che possono costituire una guida per la valutazione nel merito della veridicità delle dichiarazioni del richiedente, i quali, tuttavia, fondandosi sull'”id quod plerumque accidit”, non sono esaustivi, non precludendo la norma la possibilità di fare riferimento ad altri criteri generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare il giudice circa la veridicità delle dichiarazioni rese; non essendo, in particolare, il racconto del richiedente credibile per il solo fatto che sia circostanziato, ai sensi del comma 5, lett. a) medesima norma, ove i fatti narrati siano di per sè inverosimili secondo comuni canoni di ragionevolezza (cfr. Cass. n. 20580 del 31/07/2019).

Da ciò consegue che: a) la norma non potrà mai dirsi violata sol perchè il giudice del merito abbia ritenuto inattendibile un racconto o inveritiero un fatto; b) non sussiste un diritto dello straniero ad essere creduto sol perchè abbia presentato la domanda di asilo il prima possibile o abbia fornito un racconto circostanziato; c) il giudice è libero di credere o non credere a quanto riferito secondo il suo prudente apprezzamento che, in quanto tale, non è sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato(Cass. n. 6897/2019; 11925 del 19/06/2020), giacchè la valutazione di coerenza, plausibilità e generale attendibilità della narrazione riguarda tutti gli aspetti significativi della domanda (art. 3, comma 1) e si riferisce, come risulta dall’art. 3, comma 3, lett. b), c), d) e comma 4 D.Lgs. cit., a tutti i profili di danno grave considerati dalla legge come condizionanti il riconoscimento della protezione sussidiaria.

Il ricorrente non indica in qual modo il giudice a quo si sia discostato dai parametri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, avendo il Collegio adempiuto il dovuto esame delle dichiarazioni del richiedente, vagliandole alla luce delle informazioni attendibili ed aggiornate relative al paese di provenienza, ritenendole non credibili e comunque inidonee ad integrare i presupposti per la protezione richiesta, sicchè la doglianza relativa alla necessità di procedere ad ulteriore cooperazione istruttoria officiosa costituisce una mera contrapposizione alla valutazione che il giudice di merito ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

6. Ne deriva che il vaglio di credibilità, una volta rispettati i criteri di cui all’art. 3 cit., costituendo un apprezzamento di merito, è sindacabile in sede di legittimità nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti – oltre che per motivazione assolutamente mancante, apparente o perplessa – spettando dunque al ricorrente allegare in modo non generico il “fatto storico” non valutato, il “dato” testuale o extratestuale dal quale esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale e la sua “decisività” per la definizione della vertenza (13578 del 02/07/2020; Cass. n. 11925 del 2020; Cass. n.. 6897 del 2020). Violazione che il ricorrente non può limitarsi ad allegare mediante un generale contrasto del giudizio complessivo formulato dal giudice di merito, dovendosi escludere che abbia rilievo la mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. n. Cass. n. 3340/2019; 33858 del 2019; N. 3340 del 2019; N. 8819 del 2020; Cass. n. 11924/2020).

Nella fattispecie, il giudice di primo grado ha, tra l’altro, operato correttamente, considerando non certamente l’inattendibilità dei profili marginali della vicenda narrata, ma considerando complessivamente l’inverosimiglianza della narrazione, evidenziando come il ricorrente non avesse fatto menzione dell’assenza di protezione statale dalle riferite aggressioni da parte dei sostenitori del partito governativo e soprattutto l’incoerenza del racconto nella parte in cui il richiedente deduce che le persecuzioni avrebbero avuto origine dal fatto che “prendeva il thè” con militanti del partito (OMISSIS) e che moglie e figlio sarebbero andati a vivere nel vicino villaggio presso i suoceri, dove, tuttavia, il predetto rifiutava di andare perchè troppo prossimo al suo.

In altri termini, il ricorrente ha dedotto che “lasciava la sua famiglia (moglie e figlio) in un villaggio che riteneva accessibile ai nemici” (perchè troppo prossimo al suo dove si sarebbero verificati gli episodi di violenza) mentre egli organizzava la sua fuga. Il collegio ha altresì accertato che il documento attestante la sua appartenenza al partito (OMISSIS) – che risulta scritto in inglese “stentato” – menziona vagamente un attivismo politico e riporta genericamente la sottoposizione ad “inumane torture” da parte della famiglia, riportando solo il nome M. senza l’esatta indicazione del nominativo e dei dati anagrafici del richiedente. Sennonchè, lo stesso richiedente non ha mai narrato di maltrattamenti e torture, riferendo solo l’episodio in cui un amico sarebbe rimasto ucciso per mano dei militanti del partito (OMISSIS). A fronte di dette argomentazioni parte ricorrente si è limitato da un lato ad una generica affermazione di plausibilità della narrazione rapprèsentata, dall’altro a dedurre la marginalità delle contraddizioni evidenziate dal Tribunale, sottoponendo a questa corte la valutazione de facto del giudice di merito. A fronte di dichiarazioni non suffragate da prove, la verifica di “veridicità”, si è svolta attraverso il controllo di coerenza intrinseca (con riguardo al racconto) ed estrinseca (con riguardo alle informazioni generali e specifiche di cui si dispone), nonchè di plausibilità (con riguardo alla logicità e razionalità delle dichiarazioni), rappresentando anche un bilanciamento del potere-dovere del giudice di acquisire d’ufficio elementi probatori (segnatamente sulla situazione del paese di provenienza, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3) e, come detto, di ritenere finanche provati fatti sforniti di prova.

6. Parimenti infondata è la seconda censura.

Ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) la “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” è il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

La protezione sussidiaria, disciplinata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha come presupposto la presenza, nel Paese di origine, di una minaccia grave e individuale alla persona, derivante da violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato, il cui accertamento, condotto d’ufficio dal giudice in adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, “deve precedere, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità del richiedente”, (Cass. n. 8819/2020). L’obbligo di cooperazione si sostanzia nell’acquisizione di COI pertinenti e aggiornate al momento della decisione (ovvero ad epoca ad essa prossima), da richiedersi agli enti a ciò preposti (tale non potendosi ritenere, come già affermato da questa Corte, il sito ministeriale “Viaggiare sicuri”, il cui scopo e la cui funzione non coincidono, se non in parte, con quelli perseguiti in sede di giudizio di protezione internazionale). E ciò è a dirsi alla luce dell’obbligo, sancito dall’art. 10, comma 3, lett. b) Direttiva Procedure, “di mettere a disposizione del personale incaricato di esaminare le domande informazioni precise e aggiornate provenienti dall’EASO, dall’UNHCR e da Organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani circa la situazione generale nel paese d’origine dei richiedenti e, all’occorrenza, dei paesi in cui hanno transitato”. Spetterà, dunque (all’amministrazione, prima, e poi) al giudice fare riferimento anche di propria iniziativa a informazioni relative ai Paesi d’origine che risultino complete, affidabili e aggiornate.

Nel caso di specie, le fonti indicate dal giudice di merito, compiutamente indicate a pagina 9 del decreto impugnato dimostrano che le criticità della situazione socio-politica del paese sono correlate esclusivamente ai conflitti tra il partito di maggioranza e l’opposizione – vicende che nemmeno indirettamente hanno interessato il ricorrente – e, anzi, numerose sono state le iniziative di prevenzione e repressione di attacchi terroristici, soprattutto negli anni 2016-2017. Il collegio giudicante, dopo aver attivato il potere officioso di informarsi sulla situazione del paese di origine del ricorrente, ha, dunque, scongiurato l’eventualità di un rischio per il predetto, per aver accertato non solo l’assenza di una violenza generalizzata nel Paese ma altresì l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente.

Come affermato da questa Corte la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. Sez. 6-1, 17/04/2018, n. 9427; sez. I n. 2954/2020; n. 18306 e 9090 del 2019).

Con riferimento alla critica che attinge la valutazione operata dal primo collegio relativa alla situazione di pericolo in cui verserebbe il richiedente in caso di reimpatrio, vale osservare che lo stabilire quale sia il livello di violenza esistente nel paese di provenienza del richiedente (se basso, alto o “eccezionale”) è questione di fatto che deve essere “valutata dalle autorità nazionali competenti cui sia stata presentata una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro ai quali venga deferita una decisione di rigetto di una tale domanda”; questione non sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’omesso esame di fatti, profilo nel caso di specie non prospettato. Il risultato di tale indagine può essere censurato, quindi, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018; Cass. n. 11936/2020).

7.L’ultimo mezzo è inammissibile.

In primo luogo deve rilevarsi che la pronuncia delle S.U. 29459 del 2019 ha definitivamente affermato che alle domande (e, conseguentemente, ai giudizi) in corso alla data di entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018 si applica il sistema legislativo preesistente relativo alla tutela di carattere umanitario e non opera la sopravvenuta abrogazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

In secondo luogo, deve rilevarsi che la protezione umanitaria si fonda su requisiti non pienamente sovrapponibili con quelli posti a base delle protezioni tipizzate (rifugio politico e protezione sussidiaria) richiedendo un esame autonomo delle condizioni di vulnerabilità dedotte ed allegate, essendo tenuto il giudice del merito a svolgere anche su tale domanda, ove non genericamente proposta, il proprio dovere di cooperazione istruttoria. Ne consegue che il riscontrato difetto d’intrinseca credibilità sulla vicenda individuale e sulle deduzioni ed allegazioni relative al rifugio e alla protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), non estende i suoi effetti anche sulla domanda riguardante il permesso umanitario che è assoggettato ad oneri deduttivi e allegativi in parte diversi sui quali occorre fornire una risposta autonoma ed adeguata.

Nel caso in esame, si osserva che dalle informazioni Easo 2017 (alle quali si è riferito lo stesso Tribunale), le condizioni del paese di origine risultano stabilizzate e le vicende politiche non sembrano aver coinvolto il ricorrente, il quale non solo non ha allegato l’esistenza di peculiari condizioni di insicurezza del paese di origine, ma ha altresì prodotto un certificato medico relativo al padre che dimostrerebbe invece la presenza di assistenza sanitaria nel paese.

Inoltre, occorre evidenziare che il giudizio di bilanciamento evocato dalle citate sezioni unite di questa Corte, che ne sottolineano il rilievo centrale, ha ad oggetto la valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, non potendosi considerare o, isolatamente e astrattamente, il solo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza o di passaggio (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072; S.U. n. 29495/2019).

In altri termini, il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine inidoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Ne consegue che il raggiungimento di un livello d’integrazione sociale, personale od anche lavorativa nel paese di accoglienza costituisce un elemento di valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza di una delle variabili rilevanti della “vulnerabiltà”, ma non può esaurirne il contenuto. Non è sufficiente, quindi, l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili. Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa può ed anzi deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità (cfr. Cass. n. 420/2012, n. 359/2013, n. 15756/2013; n. 23604 del 2017; n. 4455/2018) 13573 del 02/07/2020; n. 110472020).

8. Alla luce delle considerazioni esposte, il motivo in esame non supera la soglia dell’ammissibilità, dal momento che da una parte manca l’allegazione di una situazione di vulnerabilità correlata al pericolo di compromissione dei diritti del richiedente; dall’altra non viene neanche dedotto che le allegazioni di fatti riferite nella censura – intervenuta integrazione sociale del ricorrente di cui si allega anche contratto di lavoro in essere dal 16.11.2018 – fossero state già prospettate dalla parte ricorrente nel giudizio di primo grado. Al riguardo, la mancanza del grado d’appello non rileva, perchè quanto specificato nel ricorso per cassazione ben poteva formare oggetto delle difese nel giudizio di primo grado, atteso che l’udienza si è tenuta successivamente all’inizio del rapporto lavorativo, in data 29.01.2019. Quanto all’attivazione del contraddittorio in tale giudizio deve rilevarsi che non è state formulato un motivo di censura specifico al riguardo (Cass. n. 7985/2020; 11267 del 2019; n. 10922 del 2019).

9. In assenza di costituzione del Ministero, non vi è luogo a provvedere sulle spese del processo.

Si dà atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) (S.U. n. 4315/2020), ove dovuto.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Si dà atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) (S.U. n. 4315/2020), ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

 

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