Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24355 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. I, 03/11/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 03/11/2020), n.24355

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32307/2018 proposto da:

S.D., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Natale Luigi, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, del 03/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2020 dal cons. Dott. BALSAMO MILENA.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Il Tribunale di Napoli, con decreto pubblicato il 3.10.2018, respingeva il ricorso proposto da S.D., cittadino (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Caserta, a sua volta, aveva rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).

Il Tribunale di Napoli riteneva l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria. Il richiedente aveva raccontato di aver lasciato il (OMISSIS) il 12.07.2012 e di essersi recato in Libia dove aveva lavorato per due anni come contadino; di aver lasciato il suo paese di origine perchè aveva dovuto vendere le proprietà per curare il padre e che aveva chiesto in prestito soldi ad un trafficante per poter partire; di non poter ritornare finchè non avesse guadagnato abbastanza per estinguere il debito, denaro che non riuscirebbe a guadagnare in (OMISSIS).

Il tribunale partenopeo respingeva la domanda di protezione evidenziando l’assenza dei presupposti della richiesta protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria.

S.D. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di tre motivi.

Il ministero dell’interno ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

2. Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,7,8 e 11; nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il tribunale escluso il riconoscimento dello status di rifugiato, pur sussistendo il timore fondato dello straniero di subire persecuzioni per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale.

3. Con la seconda censura, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. A) e art. 14, lett. C), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 ex art. 360 c.p.c., n. 3; per avere i giudici di primo grado escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, violando il dovere di cooperazione istruttoria, non avendo il decidente attivato il potere di acquisire informazioni attendibili sulla situazione del paese di provenienza. Nel caso all’esame, fonti internazionali descriverebbero la compressione delle libertà fondamentali dei gay, della libertà di riunirsi, l’uso della tortura e maltrattamenti, la previsione della pena di morte, la presenza di una situazione generalizzata di violenza diffusa ed indiscriminata.

4. Con l’ultimo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. A) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; per avere il tribunale escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, in quanto non appartenente alle categorie di cui all’art. 19 T.U.I., commi 1 e 2 per cui è vietata l’espulsione. Argomenta che sussistono le condizioni di vulnerabilità (giovane età, impossibilità di reinserimento nel paese di origine, pericolo di essere sottoposto a trattamenti inumani, instabilità politica).

5. La prima censura è destituita di fondamento.

La protezione internazionale è disciplinata: – dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e) ed f), sull’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, che fissa i criteri comuni per’ l’attribuzione di diverse forme di tutela, assicurando un livello comune di prestazioni; – dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. d) ed e), che replica le medesime disposizioni per l’ipotesi di non appartenenza dello straniero ad un Paese membro UE. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e), definisce “rifugiato” il cittadino straniero che, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole, avvalersi della protezione di tale Paese, oppure – se apolide – che si trovi fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni suindicate e non può, o a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione di cui all’art. 1013. Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. d) ed e), replica le medesime disposizioni per l’ipotesi di non appartenenza dello straniero ad un Paese membro UE.

La qualifica di rifugiato politico, riconducibile alla categoria degli status e dei diritti soggettivi, ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951 (ratificata in Italia con L. 24 luglio 1954, n. 722), e ora della direttiva 2005/85/CE, attuata col cit. D.Lgs. n. 25 del 2008, si caratterizza per la circostanza che il richiedente non può, o non vuole fare ritorno nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per il fondato timore di una persecuzione personale e diretta (per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze o stili di vita). Ne consegue – come spiega Sez. 1, n. 30105/2018, – che la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza è rilevante, ai fini del riconoscimento dello status, solo se si correla alla specifica posizione del richiedente e, più specificamente, al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica. In sintesi, gli elementi essenziali per il riconoscimento dello status di rifugiato contenuti nella cd. clausola d’inclusione della correlata nozione (art. 1, lett. a, comma 2 Convenzione di Ginevra) sono: a) il timore fondato; b) la persecuzione; c) l’impossibilità e/o la non volontà di avvalersi della protezione dello stato di cittadinanza e/o di residenza; d) la presenza al di fuori del Paese di cittadinanza o di residenza abituale.

Nella fattispecie, difettano tutti i presupposti enunciati, atteso che il richiedente asilo si è limitato ad affermare di non poter fare rientro in (OMISSIS) perchè solo in Italia può guadagnare sufficientemente per estinguere un debito nel suo paese di origine e salvare così le proprietà di famiglia (sebbene avesse fornito alla Commissione una versione del tutto differente), trascurando del tutto di prospettare la situazione di pericolo personale rimasta sul piano delle mere affermazioni (Cass. 359/2013).

5. Parimenti infondata è la seconda censura.

Ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) la “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” è il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

La protezione sussidiaria, disciplinata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha come presupposto la presenza, nel Paese di origine, di una minaccia grave e individuale alla persona, derivante da violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato, il cui accertamento, condotto d’ufficio dal giudice in adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, “deve precedere, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità del richiedente”, (Cass. n. 8819/2020). L’obbligo di cooperazione si sostanzia nell’acquisizione di COI pertinenti e aggiornate al momento della decisione (ovvero ad epoca ad essa prossima), da richiedersi agli enti a ciò preposti (tale non potendosi ritenere, come già affermato da questa Corte, il sito ministeriale “Viaggiare sicuri”, il cui scopo e la cui funzione non coincidono, se non in parte, con quelli perseguiti in sede di giudizio di protezione internazionale). E ciò è a dirsi alla luce dell’obbligo, sancito dall’art. 10, comma 3, lett. b), Direttiva Procedure, “di mettere a disposizione del personale incaricato di esaminare le domande informazioni precise e aggiornate provenienti dall’EASO, dall’UNHCR e da Organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani circa la situazione generale nel paese d’origine dei richiedenti e, all’occorrenza, dei paesi in cui hanno transitato”. Spetterà, dunque (all’amministrazione, prima, e poi) al giudice fare riferimento anche di propria iniziativa a informazioni relative ai Paesi d’origine che risultino complete, affidabili e aggiornate.

Nel caso di specie, le fonti indicate dal giudice di merito, compiutamente indicate a pagina 5 del decreto impugnato dimostrano che le criticità della situazione socio-politica del paese sono correlate esclusivamente ai conflitti tra il partito di maggioranza e l’opposizione ed alla compressione delle libertà fondamentali, in particolare degli oppositori, dei gay e nei giornalisti attivisti per le minoranze.

Come affermato da questa Corte la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. Sez.6-1, 17/04/2018, n. 9427; sez. I n. 2954/2020; n. 18306 e 9090 del 2019).

Nella specie, il collegio giudicante, dopo aver attivato il potere officioso di informarsi sulla situazione del paese di origine del ricorrente, ha scongiurato l’eventualità di un rischio per il predetto, per aver accertato non solo l’assenza di una violenza generalizzata nel Paese ma altresì l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente.

Pertanto, la censura relativa alla dedotta violazione del c.d. dovere di cooperazione istruttoria di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 risulta smentita dall’assolto onere di cooperazione dal decidente.

Con riferimento alla critica che attinge la valutazione operata dal primo collegio relativa alla situazione di pericolo in cui verserebbe il richiedente in caso di reimpatrio, vale osservare che lo stabilire quale sia il livello di violenza esistente nel paese di provenienza del richiedente (se basso, alto o “eccezionale”) è questione di fatto che deve essere “valutata dalle autorità nazionali competenti cui sia stata presentata una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro ai quali venga deferita una decisione di rigetto di una tale domanda”; questione non sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’omesso esame di fatti, profilo nel caso di specie non prospettato. Il risultato di tale indagine può essere censurato, quindi, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018; Cass. n. 11936/2020).

6.La terza censura è priva di pregio.

Va anzitutto rilevato che la pronuncia delle S.U. 29459 del 2019 ha definitivamente affermato che alle domande (e, conseguentemente, ai giudizi) in corso alla data di entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018 si applica il sistema legislativo preesistente relativo alla tutela di carattere umanitario e non opera la sopravvenuta abrogazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

In secondo luogo, deve rilevarsi che la protezione umanitaria si fonda su requisiti non pienamente sovrapponibili con quelli posti a base delle protezioni tipizzate (rifugio politico e protezione sussidiaria) richiedendo un esame autonomo delle condizioni di vulnerabilità dedotte ed allegate, essendo tenuto il giudice del merito a svolgere anche su tale domanda, ove non genericamente proposta, il proprio dovere di cooperazione istruttoria.

Quanto ai presupposti utili a ottenere la protezione umanitaria, le sezioni unite, con la sentenza n. 29461/2019 hanno definitivamente chiarito, (in consonanza con la citata pronuncia 4455/2018 di questa Corte, ed in aperta difformità da quanto erroneamente opinato dalla ordinanza di rimessione 11749/2019): 1) Che non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano. 2) Che gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicchè l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (ex multis, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096). 3) Che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione. 4) Che è necessario dar seguito a quell’orientamento di legittimità (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, e riaffermato, tra le altre, da Cass. 19 aprile.2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19) nonchè della prevalente giurisprudenza di merito, che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa, ex art. 8 CEDU, tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare, come già detto, la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale (Cass. Sez. U, nn. 29459, 29460, 29461 del 2019; conf. Cass. 4455/2018 e, da ultimo, Cass. 630/2020; n. 13573/2020).

Vale osservare come l’apprezzamento della valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere correlata ad una valutazione individuale, da spendersi caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia che va comparata con la situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. Là dove infatti si prescindesse dalla situazione particolare del richiedente, si prenderebbe in considerazione non già la peculiare situazione del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (Cass. 03/04/2019 n. 9304).

Al riguardo, il ricorrente in sostanza deduce che deve ritenersi “vulnerabile”, per i fini di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 e avrebbe per ciò solo diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, allegando il generico pericolo di essere sottoposto a trattamenti disumani senza indicarne le ragioni, ma genericamente prospettando una situazione di instabilità politica del paese. Tuttavia, come affermato dal giudicante, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072; 9304 e 13096 del 2019; S.U. n. 29495/2019, n. 7599/2020). Esclusa l’attendibilità del racconto e con essa la prova di una vicenda del richiedente meritevole di protezione, il Tribunale ha ritenuto che quanto residuava nelle richieste del ricorrente era da apprezzarsi in termini di valutazione della situazione generale del (OMISSIS) senza collegamento con la storia personale del primo (contrazione di un debito nel paese di origine) che restava, come tale, non meritevole di tutela.

Venuto meno uno dei due termini di comparazione secondo i quali deve trovare svolgimento il giudizio sulla riconoscibilità della protezione umanitaria, l’ulteriore situazione descritta dal ricorrente come da lui goduta in Italia non entra neppure nel giudizio di bilanciamento a cui è chiamato il giudice del merito (Cass. 07/08/2019 n. 21123).

Peraltro, la denuncia della erronea valutazione delle situazioni di vulnerabilità soggettiva integrative della protezione per motivi umanitari in ragione delle condizioni del paese di provenienza, è inammissibile in ragione del giudizio espresso dalla Corte di merito non censurabile in sede di legittimità sulla valutazione della condizione di vulnerabilità; motivo che reca, al più, censura del giudizio “di fatto”, proponibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

7. Le spese seguono la soccombenza.

Si dà atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) (S.U. n. 4315/2020), ove dovuto.

PQM

LA CORTE

– rigetta il ricorso;

– Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Amministrazione controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00, per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Si dà atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) (S.U. n. 4315/2020), ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della corte di cassazione, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

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