Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24354 del 13/11/2019

Cassazione civile sez. III, 13/11/2019, (ud. 01/10/2019, dep. 13/11/2019), n.29354

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11480-2016 proposto da:

EQUITALIA SUD SPA, (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA PINETA SACCHETTI,

482, presso lo studio dell’avvocato EMANUELA VERGINE, rappresentata

e difesa dall’avvocato MARIA ROSARIA SAVOIA;

– ricorrente –

contro

P.A., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

MARIA CALO’;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE TARANTO, AGENZIA DELLE

ENTRATE (OMISSIS), DIREZIONE TERRITORIALE LAVORO TARANTO;

– intimati –

e contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

Direttore della Direzione Centrale Entrate, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso lo studio

dell’avvocato ANTONINO SGROI, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati ESTER ADA SCIPLINO, CARLA D’ALOISIO,

EMANUELE DE ROSE, GIUSEPPE MATANO, LELIO MARITATO;

– resistente –

nonchè da:

MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI – DIREZIONE

TERRITORIALE LAVORO TARANTO in persona del Ministro pro tempore,

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del direttore p.t.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti incidentali –

contro

EQUITALIA SUD SPA (OMISSIS), P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3510/2015 del TRIBUNALE di TARANTO, depositata

il 16/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/10/2019 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria, che ha concluso per l’accoglimento ricorso

principale e incidentale p. q. r.;

udito l’Avvocato VERGINE EMANUELA per delega.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

1. – P.A. proponeva opposizione, dinanzi al Tribunale di Taranto-sezione distaccata di Manduria, avverso quattro intimazioni di pagamento, notificate nel 2012, relative al mancato pagamento di altrettante cartelle esattoriali emesse negli anni dal 2003 al 2006, deducendo l’illegittimità delle intimazioni di pagamento per omessa notifica delle cartelle, nonchè la decadenza dell’agente dal diritto alla riscossione, la prescrizione dei crediti, l’inesistenza delle cartelle e delle intimazioni di pagamento, per violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, la nullità delle cartelle per mancata indicazione del procedimento di calcolo degli interessi.

2. – Il giudice disponeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli enti impositori (e successivamente estrometteva l’INPS, erroneamente evocato in giudizio dall’attore, disponendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti della Direzione provinciale del lavoro), e decideva la causa, con sentenza depositata in data 16.11.2015, allorchè i termini per il deposito delle comparse conclusionali non era ancora spirato, accogliendo la domanda del contribuente, ed annullando le intimazioni nonchè ogni atto connesso, consequenziale e presupposto.

3. – Equitalia Sud s.p.a. propone ricorso per cassazione, articolato in sette motivi, nei confronti di P.A., nonchè di Agenzia delle entrate-direzione provinciale di Taranto, Direzione territoriale del lavoro di Taranto e dell’INPS- sede di Taranto (quanto a quest’ultimo, estromesso dal giudizio di primo grado con ordinanza, solo in relazione al motivo concernente la condanna alle spese in primo grado), per la cassazione della sentenza n. 3510/2015, pubblicata il 16 novembre 2015 dal Tribunale di Taranto.

4. – L’Agenzia delle Entrate e il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali Direzione provinciale del Lavoro di Taranto resistono con congiunto controricorso contenente anche ricorso incidentale articolato in quattro motivi. Resiste il P. con controricorso.

L’Inps ha depositato solo procura speciale.

Non sono state depositate memorie.

Diritto

I MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso principale.

Con il primo motivo, Equitalia deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 24 Cost., dell’art. 281 quinquies c.p.c., art. 156c.p.c., comma 2, e art. 159 c.p.c., ovvero per aver il giudice deciso la causa prima dello spirare del termine per il deposito delle comparse conclusionali, menomando in tal modo l’esercizio del diritto di difesa delle parti.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la presenza di un vizio di ultrapetizione, nonchè la violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 24 Cost., avendo il tribunale deciso oltre le domande delle parti, annullando non solo le impugnate intimazioni di pagamento, ma anche le cartelle esattoriali, atto presupposto.

Con il terzo motivo si denuncia la presenza di un difetto di giurisdizione, nonchè l’incompetenza funzionale del tribunale ordinario, la violazione dell’art. 24 Cost. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1) e art. 5, punto 1) e art. 19, comma 1, lett. e bis, e del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, avendo il tribunale erroneamente rigettato la proposta eccezione di difetto di giurisdizione, in relazione alle cartelle presupposte con le quali si faceva valere una pretesa esattoriale, essendo le relative opposizioni appartenenti alla giurisdizione delle commissioni tributarie, e di incompetenza funzionale per essere competente il giudice del lavoro, sulle cartelle emesse per il mancato pagamento di contributi previdenziali. Segnala che il rigetto delle eccezioni preliminari era stato provocato dall’erroneo convincimento del giudice che Equitalia non avesse regolarmente notificato le cartelle, e che non avesse consentito al contribuente di conoscere la natura del credito per il quale si agiva. La ricorrente deduce viceversa di aver provato nel corso del giudizio di merito l’intervenuta notifica delle cartelle esattoriali, la cui relata trascrive.

Con il quarto motivo, Equitalia deduce l’inammissibilità dell’azione relativa alla regolarità formale della notifica delle cartelle, nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 617 e 115 c.p.c.. Sostiene che, avendo essa convenuta provato l’avvenuta notifica delle cartelle presupposte (circostanza che però non è stata ritenuta provata dal giudice di merito), l’opponente era decaduto, per decorso del termine di venti giorni previsto dall’art. 617 c.p.c., dalla facoltà di proporre contestazioni relative alla regolarità formale delle cartelle stesse.

Con il quinto motivo si deduce la violazione dell’art. 2718 c.c. nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 24, 25, 26, 49 e 57, della L. n. 669 del 1996, art. 5, comma 5, del D.M. n. 321 del 1999, artt. 1 e 6: si denunciano le predette violazioni di legge nella parte in cui la sentenza ha negato valenza probatoria agli estratti di ruolo e alle relate di notifica prodotte dalla ricorrente, nonostante la parte avversa non avesse contestato la documentazione prodotta da Equitalia nel proprio fascicolo.

Con il sesto motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 26 e 60 e degli artt. 137 c.p.c. e ss. da parte della sentenza impugnata laddove ha ritenuto inesistente la notifica delle cartelle di pagamento presupposte alle intimazioni per presunta violazione delle indicate disposizioni non essendo stata redatta la relata di notifica delle cartelle. Sostiene che per due delle quattro cartelle la relata di notifica era stata redatta dal messo notificatore, e che comunque esisteva ed era stato prodotto l’avviso di ricevimento, unico documento idoneo a provare l’avvenuta consegna del plico fino a querela di falso. Puntualizza inoltre che Equitalia non è tenuta, come indicato erroneamente nel provvedimento impugnato, ad effettuare le notifiche avvalendosi esclusivamente del procedimento ordinario disciplinato dagli artt. 137 c.p.c. e ss..

Infine, con il settimo motivo si duole della violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. impugnando la sentenza laddove reca la condanna alle spese nei suoi confronti, sull’erroneo presupposto della fondatezza della domanda avversaria. In particolare, quanto alla condanna alla spese nei confronti dell’INPS (che a questo solo scopo è stata evocata nel presente giudizio) ne evidenzia l’erroneità non avendo la ricorrente dato causa alla chiamata, effettuata dal contribuente in erronea esecuzione dell’ordine di integrare il contraddittorio impartito dal giudice.

2. – Il controricorso dell’Agenzia delle entrate e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro di Taranto, contenente anche ricorso incidentale.

Il controricorso, che reca anche quattro motivi di ricorso incidentale, aderisce al ricorso principale di Equitalia. I controricorrenti fanno presente di aver evidenziato fin dal primo grado che il giudice naturale chiamato a conoscere delle questioni dedotte in causa sarebbe stato il giudice tributario, essendo sottratte alla cognizione del giudice tributario solo le controversie attinenti alla fase di esecuzione forzata, mentre nel caso di specie l’oggetto della controversia era costituito dalla contestata validità di alcune intimazioni di pagamento, materia che, riguardando ancora la fase della riscossione e non della successiva esecuzione forzata del tributo, è sottratta alla giurisdizione dell’a.g.o..

Quanto alla posizione della Direzione provinciale del lavoro, quest’ultima aveva evidenziato fin dalla costituzione nel giudizio di primo grado di aver provveduto al discarico delle somme portate da una delle due cartelle di pagamento relative a crediti previdenziali.

Con il ricorso incidentale i detti controricorrenti, deducono:

– con il primo motivo, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2,5 e 19 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1: denunciano l’errore in diritto presente nella sentenza impugnata laddove non ha dichiarato il difetto di giurisdizione in favore del giudice tributario, nella parte del giudizio concernente l’impugnazione di due cartelle esattoriali per i crediti tributari. Riportano il contenuto delle altre due cartelle, deducendo che per esse ha errato il tribunale ordinario affermando la propria competenza residuale, non essendo possibile individuare la natura del credito. Sostengono che avevano fornito la prova della notifica delle cartelle e che in atti è stato depositato l’estratto di ruolo, che è una riproduzione fedele ed integrale dei contenuti della cartella, per cui, anche a non voler ritenere provate le notifiche, dall’estratto di ruolo si poteva facilmente ricostruire quali fossero state le pretese azionate. Poichè dagli estratti di ruolo emergevano i dati per identificare le varie ragioni di credito, sostengono che la corte territoriale avrebbe dovuto sulla base di essi verificare la sussistenza o meno della giurisdizione del g.o., e non affermare apoditticamente la propria giurisdizione sulla base della asserita impossibilità di risalire alla natura del credito. Richiamano le Sezioni unite (SU n. 15425 del 2014) che hanno più volte risolto la questione del riparto di giurisdizione in materia di esecuzione esattoriale affermando che a fronte di una o più cartelle relative ad una pluralità di pretese, il giudice ordinario deve trattenere solo le cause relative a crediti di imposta di natura non tributaria, e rimettere alle commissioni tributarie per la parte in cui il provvedimento si riferisce a crediti di competenza di quest’ultimo.

Con il secondo motivo deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2699,2700 e 2718 c.c. nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973 laddove la sentenza impugnata ha affermato la non idoneità dell’estratto di ruolo a provare la legittimità degli atti impugnati, e la natura di mero atto interno dell’estratto di ruolo.

Con il terzo motivo deducono la violazione dell’art. 112 c.p.c ovvero la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato laddove il giudice è andato ben oltre la domanda della parte, che chiedeva di pronunciarsi sulla validità delle intimazioni di pagamento, annullando le cartelle esattoriali e ogni altro atto connesso e presupposto.

Con l’ultimo motivo di ricorso incidentale denunciano, al contrario, un vizio di omessa pronuncia, in relazione alle cartelle attinenti al pagamento dei crediti del Ministero del lavoro: in relazione ad una di esse, la Direzione provinciale del lavoro aveva comunicato lo sgravio, ma per l’altra aveva chiesto il rigetto della opposizione in quanto il debitore non aveva mai impugnato la ordinanza ingiunzione a monte dell’emissione della intimazione di pagamento e su questo punto il tribunale non si è pronunciato.

3. – Preliminarmente, si osserva che è stato proposto direttamente ricorso per cassazione avverso una sentenza di primo grado che non qualifica mai espressamente l’opposizione proposta in termini di opposizione agli atti esecutivi. Tuttavia, l’impugnazione appare correttamente proposta atteso che il nucleo delle censure è attinente alla regolarità del procedimento.

4. – Il primo motivo del ricorso principale è fondato.

Rileva il Collegio che la decisione impugnata, effettivamente, risulta essere stata assunta prima che scadessero i termini di cui all’art. 190 c.p.c., comma 1. Dal controllo degli atti, reso doveroso dal tipo di censura prospettata, emerge che l’udienza di precisazione delle conclusioni fu tenuta il 28.9.2015; sicchè i 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali andavano a scadere il successivo 27 novembre 2015, mentre gli ulteriori 20 giorni delle repliche andavano a scadere il 17 dicembre 2015; la decisione del tribunale risulta essere stata depositata il 16 novembre 2015, allorchè neppure il primo termine era scaduto.

Sul rilievo da attribuire a tale situazione occorre in questa sede ribadire che è nulla la sentenza emessa dal giudice prima della scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c., in quanto risulta per ciò solo impedito ai difensori l’esercizio, nella sua completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, del pregiudizio che da tale inosservanza deriva alla parte, giacchè, trattandosi di termini perentori fissati dalla legge, il mancato rispetto di essi è già stato valutato dal legislatore, in via astratta e definitiva, come autonomamente lesivo, in sè, del diritto di difesa (in linea di continuità con quanto già affermato da Cass. n. 24636 del 2016; Cass. n. 20180 del 2015; Cass. n. 20732 del 2018: quest’ultimo provvedimento però adottato in una fattispecie ben più radicale, in cui era mancato, dopo la fase sommaria di una opposizione all’esecuzione, tutto il processo di cognizione, non essendosi svolte nè l’udienza di trattazione, nè la (eventuale) fase istruttoria, nè la fase decisoria, avendo il giudice omesso sia di fare precisare le conclusioni sia di concedere alle parti i termini per depositare le comparse conclusionali e le memorie di replica, ai sensi dell’art. 190 c.p.c.; in precedenza da Cass. n. 7760 del 2011, Cass. n. 7072 del 2010, Cass. n. 14567/2008, Cass. n. 6293 del 2008).

Deve considerarsi affermazione rimasta isolata, superata dal consolidarsi della univoca linea interpretativa seguita dalle successive pronunce, il diverso principio espresso da Cass. n. 7086 del 2015 (che richiama Cass. n. 4020 del 2006), secondo il quale appare maggiormente corrispondente al principio del ragionevole durata del processo esigere che il difensore il cui atto difensivo è stato pretermesso indichi quali difese avrebbe articolato a vantaggio della propria posizione ed in qualche modo dimostri in concreto il pregiudizio che la mancata piena esplicazione delle sue facoltà difensive ha recato al suo patrocinato. Così il principio di diritto espresso dalla predetta sentenza: “La sentenza la cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c., nella specie quelli per il deposito delle memorie di replica, non è automaticamente affetta da nullità, occorrendo dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione processuale, indicando le argomentazioni difensive – contenute nello scritto non esaminato dal giudice – la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di determinare una decisione diversa da quella effettivamente assunta.”.

Poichè non è presente un effettivo contrasto, ma piuttosto si realizza il consolidarsi del riassorbimento di un precedente disallineamento di posizioni, non si ritiene necessario investire le Sezioni unite della questione.

Deve in questa sede ribadirsi che, come affermato dai precedenti richiamati, si tratta di una nullità presidiata dalla necessità di rispettare un termine perentorio, in cui è cioè la legge stessa a compiere una prevalutazione di carattere generale della rilevanza del rispetto del termine, e della violazione del diritto di difesa e del contraddittorio che consegue al suo mancato rispetto, a fronte della quale diviene ultronea una delibazione in concreto della efficacia argomentativa degli atti difensivi pretermessi. Come segnalato già da Cass. n. 24636 del 2016, diversamente opinando, il giudizio sull’efficienza causale della violazione processuale verrebbe nella sostanza duplicato, dovendo aggiungersi la relativa valutazione del giudice a quella, già effettuata ex ante e in astratto, dello stesso legislatore: in altre parole, nel caso in cui la norma preveda la (doverosa) concessione di termini perentori da parte del giudice entro i quali le parti hanno facoltà di svolgere una specifica attività difensiva, è di tutta evidenza che la loro mancata concessione, ovvero la loro violazione (come nella specie, con l’emissione della sentenza pendenti ancora i termini per il deposito delle comparse conclusionali) non può che comportare in re ipsa la compressione delle relative facoltà difensive delle parti medesime, con conseguente nullità processuale. Ciò proprio perchè il legislatore ha effettuato, sul piano generale, una valutazione sulla consequenziale lesione del diritto di difesa, che non deve essere provata da chi la eccepisce, non restando essa demandata alla ponderazione del giudice.

Si può in questa sede aggiungere che nel caso in esame è stato soppresso in modo radicale, per errore del giudice, un momento difensivo irrecuperabile prima della conclusione del giudizio di primo grado con il deposito della decisione, perchè non c’è uno spazio logico/cronologico nel quale potere recuperare l’ultima attività di argomentazione e difesa della parte prima della decisione: se per qualche motivo alla parte non viene consentito di depositare le memorie conclusive, questa attività difensiva è perduta per sempre, perchè il processo in quel grado si è concluso: è quindi una attività che deve essere svolta a pena di nullità perchè irrecuperabile in quel grado di giudizio. La sua perdita, il suo mancato svolgimento, comporta, per ciò stesso, una lesione attuale del diritto al contraddittorio, cioè del diritto della parte che scelga di fruire, nel processo civile, di una difesa in giudizio, a che essa si possa svolgere in modo completo, nel rispetto di tutte le facoltà e i diritti consentiti dal codice, senza che possa rilevare il giudizio sulla qualità della difesa, ovvero se quella attività integrasse o meno una buona difesa.

Questa Corte ha avuto già modo di affermare in generale che il principio del giusto processo, in ordine alla regolare costituzione del contraddittorio ex art. 111 c.p.c., deve ritenersi prevalente, di regola, rispetto al principio della ragionevole durata del processo (in questo senso Cass. S.U. n. 14124 del 2010; Cass. n. 8727 del 2011; Cass. n. 20501 del 2015). Il rapporto tra i due principi (v. Cass. n. 5133 del 2003) opera nel senso che l’art. 111 Cost. fissa, al comma 1, il principio generale del diritto ad un giusto processo e poi, nei commi successivi, introduce tra gli altri la ragionevole durata come connotato del giusto processo. La ragionevole durata costituisce quindi un canone oggettivo di disciplina della funzione giurisdizionale, che rileva come parametro di controllo della legge, qualora questa sia in tesi in contrasto con gli obiettivi della ragionevole durata dei processi, e costituisce una garanzia soggettiva solo in termini di diritto socialmente condizionato (all’intervento, appunto, del legislatore ordinario).

Ne consegue che il principio della ragionevole durata non può essere utilmente invocato per giustificare la sottrazione alla parte della opportunità di compiere una determinata attività difensiva processualmente prevista: così opinando si verrebbe ad invertire il rapporto facendo venir meno la coerenza del sistema, in cui si presume che le regole dettate dal legislatore tese a prevedere lo svolgimento di determinate attività processuali esplicative del diritto di difesa tendano a realizzare il giusto processo.

L’accoglimento del primo motivo comporta la cassazione della sentenza impugnata e l’assorbimento dei residui motivi del ricorso principale nonchè l’assorbimento del ricorso incidentale, con rinvio della causa al Tribunale di Taranto, in persona di diverso magistrato, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale e cassa la sentenza impugnata, assorbiti gli altri motivi del ricorso principale e i motivi del ricorso incidentale.

Rinvia la causa al Tribunale di Taranto in persona di diverso magistrato, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di cassazione, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2019

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