Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24353 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. I, 03/11/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 03/11/2020), n.24353

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30079/2018 proposto da:

D.S.S., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Natale Luigi, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, del 13/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2020 dal cons. Dott. BALSAMO MILENA.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Il Tribunale di Napoli, con decreto pubblicato il 13.09.2019, respingeva il ricorso proposto da D.S.S., cittadino del (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Caserta, a sua volta, aveva rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).

Il Tribunale di Napoli riteneva che le dichiarazioni rese dal richiedente non fossero attendibili e che la Commissione avesse correttamente valutato l’insussistenza delle condizioni per il riconoscimento delle situazioni soggettive invocate per ottenere la protezione internazionale. Il richiedente aveva raccontato di essere stato costretto a lasciare il (OMISSIS) nel 2015 per ragioni politiche e socio-economiche e in particolare per le infondate accuse di omosessualità, mosse dalla comunità ove viveva, nonchè a causa dell’incendio del negozio di money transfer ove lavorava; decideva così di lasciare il (OMISSIS), anche perchè il figlio dell’Imam gli aveva riferito che gli abitanti del quartiere erano con lui adirati.

Decideva quindi di recarsi in Mali dove si fermava per circa dieci giorni, poi a Burkina Faso dove rimaneva per cinque mesi e successivamente in Libia dove rimase tre mesi per lavorare ed accumulare il denaro sufficiente per raggiungere l’Italia.

L’esaminatore aveva contestato al richiedente alcune contraddizioni, atteso che nella domanda di asilo aveva indicato come data di partenza dal (OMISSIS) il primo gennaio 2016, mentre nel suo racconto aveva indicato la data del gennaio 2015, confermando dinanzi all’esaminatore quest’ultima data, dichiarando di essersi confuso. Il racconto risulta incoerente anche su altri aspetti, avendo sostenuto il richiedente asilo, in un primo momento, di aver lavorato per un anno dal 2015 al 2016 a (OMISSIS) (dipartimento del (OMISSIS)) dopo aveva lavorato in un negozio.

Dinanzi alle contestazioni dell’esaminatore, il richiedente dapprima confermava il suo racconto, poi affermava di essere stato a (OMISSIS) e di avere avuto il negozio bruciato nel 2014, senza saper precisare la data esatta dell’incendio. Aggiungeva, a fronte di specifica domanda, che aveva lasciato il suo paese per le ragioni esposte, ma soprattutto perchè non aveva famiglia e si sentiva solo. Quanto ai motivi che lo avevano indotto a non rientrare nel suo paese di origine, assumeva di non ritenersi libero di vestirsi come desiderava, affermando di aver timore di soffrire perchè considerato gay.

Il richiedente impugnava il provvedimento della Commissione, facendo generico riferimento a fenomeni di matrice terroristica e di calamità naturali che avevano interessato il suo Paese di origine, aggiungendo che aveva perso la sua famiglia a causa di dette situazioni; contraddicendo quanto aveva originariamente sostenuto in merito alla morte per malattia dei suoi genitori.

Il tribunale partenopeo respingeva la domanda di protezione evidenziando le contraddizioni e l’incoerenza del colloquio oltre all’assenza di contestazioni specifiche al provvedimento di rigetto della Commissione.

Aggiungeva ancora il giudicante che le dichiarazioni del ricorrente risultavano incoerenti laddove aveva riferito di aver transitato in vari paesi prima di raggiungere l’Italia, in quanto essendo partito dal (OMISSIS) nel gennaio 2015, avrebbe dovuto raggiungere l’Italia verso la fine dell’anno 2015; incongruenze non giustificabili soprattutto se rese da una persona del livello di istruzione che assume di aver raggiunto (avendo affermato di aver frequentato il primo di anno università).

Il decidente escludeva inoltre la presenza di violenza indiscriminata in (OMISSIS), proprio attingendo dalle fonti indicate dal richiedente, così come la ricorrenza di seri motivi di carattere umanitario che potessero consentire il rilascio del permesso di soggiorno, tenendo conto ai sensi dell’art. 5, comma 6 t.u.i. del contenuto ambiguo del racconto reso durante il colloquio.

D.S.S. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di quattro motivi.

Il ministero dell’interno è rimasto intimato.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

2. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5; del D.Lgs., n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27, comma 1 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; per avere il decidente escluso il riconoscimento della protezione internazionale, violando il principio secondo il quale il convincimento del giudice non può fondarsi sulla sola credibilità soggettiva del richiedente, sussistendo l’onere del giudice di verificare d’ufficio la credibilità delle dichiarazioni sulla base delle informazioni esterne relative alla situazione del paese di provenienza.

Argomentando ulteriormente che la valutazione di credibilità del richiedente deve fondarsi sulla verifica degli sforzi tesi a circostanziare la domanda, sulla non contraddittorietà delle dichiarazioni e sulla situazione del paese, avendo il giudice il dovere di acquisire informazioni sul contesto socio – politico del paese di rientro sulla base delle fonti di informazioni indicate nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 o in mancanza acquisendo i dati da altri canali informativi. Non potendo, ad avviso del ricorrente, l’incoerenza delle dichiarazioni su fatti secondari escludere di per sè la sua credibilità, alla luce del principio del cd. onere probatorio attenuato e dell’officiosità dei poteri istruttori del giudicante.

3. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,7,8 e 11; del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il tribunale escluso il riconoscimento dello status di rifugiato, pur sussistendo il timore fondato di subire persecuzioni per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale.

4. Con la terza censura, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. A), e art. 14, lett. C), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ex art. 360 c.p.c., n. 3; per avere il tribunale escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, violando il dovere di cooperazione istruttoria, non avendo il decidente attivato il potere di acquisire informazioni attendibili sulla situazione del paese di provenienza. Deduceva che nel caso all’esame, fonti internazionali descrivono la presenza di gruppi armati nella zona di provenienza che attesterebbe la presenza di una grave situazione di pericolo per la sua incolumità.

Deduce al riguardo il sovraffollamento delle carceri, la persecuzione per l’orientamento sessuale, indicando poi i soprusi subiti da altri soggetti più o meno noti, l’assenza di libertà di manifestazione del pensiero e di manifestare in piazza, la presenza di gruppi terroristici e di gruppi di criminalità comune. In altri termini, sostiene che la presenza di una condizione di pericolo dovuta a violenza diffusa e non controllata dalle autorità statuali (violenza indiscriminata), rende vulnerabile la sua posizione, la quale avrebbe dovuto essere valutata ai sensi dell’art. 14, lett. C) cit.

5. Con l’ultimo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. A), e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; per avere il tribunale escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, benchè il richiedente sia orfano di entrambi i genitori, privo di legami col paese di origine, sia esposto al pericolo di subire trattamenti inumani per la sua supposta omosessualità e nonostante le condizioni di instabilità politica del paese.

6.Le prime due censure sono prive di pregio.

Secondo un recente indirizzo di legittimità, inaugurato da Cass. 2954/2020 e seguito da Cass. 8810/2020 e da Cass. 11925 del 19/06/2020, cui il collegio presta convinta adesione, il dovere di cooperazione istruttoria, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in un rapporto di stretta connessione logica (anche se non in una relazione di stretta e indefettibile subordinazione) rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile. Il principio che le inattendibili dichiarazioni del richiedente non richiedono approfondimento istruttorio officioso rileva ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Difatti è in relazione alla massima protezione ed ai casi disciplinati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) di “condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte” o “tortura o altra forma di pena o trattamento inumano e degradante ai danni del richiedente”, che la valutazione di credibilità soggettiva (all’esito di una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda; Cass. n. 21142/2019), costituisce una premessa indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento; sicchè le dichiarazioni che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3), non richiedono alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. n. 5224 del 2013; n. 16925 del 2018) dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass. (ord.) 20.12.2018, n. 33096; Cass. 12.6.2019, n. 15794). A meno che la. mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri probatori, incombendo al giudice l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, al fine di accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Cass. n. 871 del 2017; Cass. n. 19716/2018). La valutazione di credibilità delle dichiarazioni è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi di quanto narrato dal richiedente, ma secondo la griglia predeterminata di criteri offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (v. già Sez. 6-1, n. 8282/2013, Rv. 625812-01; Sez. 6-1, n. 24064/2013, Rv. 628478- 01; Sez. 6-1, n. 16202/2012, Rv. 623728-01), secondo cui “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.

Tuttavia, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 enuncia alcuni parametri, meramente indicativi e non tassativi, che possono costituire una guida per la valutazione nel merito della veridicità delle dichiarazioni del richiedente, i quali, tuttavia, fondandosi sull'”id quod plerumque accidit”, non sono esaustivi, non precludendo la norma la possibilità di fare riferimento ad altri criteri generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare il giudice circa la veridicità delle dichiarazioni rese; non essendo, in particolare, il racconto del richiedente credibile per il solo fatto che sia circostanziato, ai sensi del comma 5, lett. a) medesima norma, ove i fatti narrati siano di per sè inverosimili secondo comuni canoni di ragionevolezza (cfr. Cass. n. 20580 del 31/07/2019). Da ciò consegue che: a) la norma non potrà mai dirsi violata sol perchè il giudice del merito abbia ritenuto inattendibile un racconto o inveritiero un fatto; b) non sussiste un diritto dello straniero ad essere creduto sol perchè abbia presentato la domanda di asilo il prima possibile o abbia fornito un racconto circostanziato; c) il giudice è libero di credere o non credere a quanto riferito secondo il suo prudente apprezzamento che, in quanto tale, non è sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cass. n. 6897/2019; 11925 del 19/06/2020). Il che significa che solo se tale valutazione non deriva da un esame effettuato in conformità con i criteri stabiliti ‘dalla legge è denunciabile in cassazione – con riguardo all’esame medesimo – la violazione delle relative disposizioni, la cui sussistenza viene ad incidere “a monte” sulle premesse della valutazione di non credibilità, travolgendola non per ragioni di fatto ma di diritto.

Qualora lo scrutinio risulti essere stato effettuato con il metodo indicato dalla specifica normativa attuativa di quella di origine UE e, quindi, in conformità della legge, essa può dare luogo ad un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, come tale censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 – come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (tra le tante: Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340, n. 13944/2020; n. 11925/2020). Violazione che il ricorrente non può limitarsi ad allegare mediante un generale contrasto del giudizio complessivo formulato dal giudice di merito, dovendosi escludere che abbia rilievo l’ammissibilità di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. n. Cass. n. 3340/2019; 33858 del 2019; N. 3340 del 2019; N. 8819 del 2020; Cass. n. 11924/2020).

Nella fattispecie in esame si ha che il Collegio non si è sottratto all’obbligo di scrutinio delle dichiarazioni rese dal richiedente ed a quello susseguente di integrazione istruttoria è tanto con un accertamento di fatto che sfugge al sindacato di questa Corte di legittimità, avendo i giudici escluso che sia stato superato il vaglio di credibilità soggettiva per la genericità e incongruenza del racconto reso. In particolare, il giudice di primo grado ha concluso per l’inattendibilità della vicenda narrata, considerando complessivamente l’inverosimiglianza della narrazione, comparata con il racconto descritto nell’originaria istanza, con le risposte contraddittorie rese all’esaminatore e con l’assenza di spiegazioni in ordine alla collocazione temporale dell’incendio del negozio, che affermava essere avvenuto nel 2014; mentre alla commissione il richiedente asilo aveva dichiarato di aver iniziato a lavorare a (OMISSIS) ((OMISSIS)) nel 2015 nel negozio “Money Transfer” (negozio che sarebbe stato incendiato nel 2014).

Il Collegio ha concluso altresì per l’incongruenza delle dichiarazioni in ordine alle date della partenza e ai luoghi in cui egli sarebbe rimasto per lavorare prima di raggiungere l’Italia; nonchè delle dedotte motivazioni in ordine all’allontanamento dal suo paese.

A fronte di dette argomentazioni parte ricorrente si è limitata da un lato ad una generica affermazione di plausibilità della narrazione compiuta dal richiedente, dall’altro a ridimensionare le contraddizioni evidenziate dal Tribunale, veicolando la critica sotto il paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

7.Invece, e con riferimento alla terza censura, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda. personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Sez.1, 31/1/2019 n. 3016; Cass. n. 15794 del 2019; n. 10286/2020). La protezione sussidiaria, disciplinata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha come presupposto la presenza, nel Paese di origine, di una minaccia grave e individuale alla persona, derivante da violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato, il cui accertamento, condotto d’ufficio dal giudice in adempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, “deve precedere, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità del richiedente” (Cass. n. 8819/2020).

L’indagine d’ufficio non trova, pertanto, ostacolo nella non credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente stesso riguardo alla propria vicenda personale, sempre che il giudizio di non credibilità non investa il fatto stesso della provenienza dell’istante dall’area geografica interessata alla violenza indiscriminata che fonda tale forma di protezione (Cass. nn. 8819 e 10286 del 2020; 24/05/2019; n. 14283; n. 19716/2018; Sez.6-1, 28/06/2018, n. 17069; Sez.6-1, 16/07/2015, n. 14998.).

Ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g), la “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” è il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

Nel caso di specie, le fonti indicate dal giudice di merito, compiutamente indicate a pagina 10 del decreto impugnato, confermano, in linee generali, il contenuto delle dichiarazioni rese dal richiedente asilo quanto alla limitazione dei diritti fondamentali.

Peraltro, per stessa ammissione del richiedente, le informazioni oggetto delle dedotte prove evidenziano una “contingente situazione di profonda conflittualità e instabilità socio – politica del (OMISSIS)” che si vorrebbe, solo in tesi, integrativa dei presupposti per la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c); tesi che risulta contraddetta da costante giurisprudenza di legittimità. “Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia” (tra le altre: Cass. del 08/07/2019 n. 18306; n. 8669/2020; Corte di giustizia UE 17.2.2009, in causa C-465/07, Elgafaji la quale ha avuto modo di precisare: che la situazione di violenza generalizzata esistente in una determinata area geografica non è sufficiente a giustificare la concessione della protezione sussidiaria, se il richiedente non dia prova di essere personalmente ed individualmente esposto ad un rischio grave in conseguenza di quella situazione).

Nella specie, il collegio giudicante, dopo aver attivato il potere officioso di informarsi sulla situazione del paese di origine – del ricorrente, ha scongiurato l’eventualità di un rischio per il predetto, per aver accertato l’assenza di una situazione di violenza generalizzata e dunque l’esposizione a pericolo per la sua incolumità fisica.

Nella formulata critica a tali argomentazioni il motivo si sostanzia in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dal Tribunale ed in tal senso risulta inammissibile, considerato che il vizio dedotto non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; al riguardo vale osservare che lo stabilire quale sia il livello di violenza esistente nel paese di provenienza del richiedente (se basso, alto o “eccezionale”) è questione di fatto che deve essere “valutata dalle autorità nazionali competenti cui sia stata presentata una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro ai quali venga deferita una decisione di rigetto di una tale domanda” (p. 43 della motivazione). Di conseguenza, lo stabilire in punto di fatto se in un determinato paese esista o non esista una condizione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato che generi un grave pericolo per il ricorrente è un accertamento di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’omesso esame di fatti, profilo nel caso di specie non prospettato. Il risultato di tale indagine può essere censurato, quindi, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018; Cass. n. 11936/2020). D’altra parte, la censura relativa alla dedotta violazione del c.d. dovere di cooperazione istruttoria di cui al D.Lgs. 25 del 2008, art. 8 risulta smentita dalla individuazione delle fonti da cui il Collegio ha attinto le informazioni sulla situazione socio-politica del Paese di origine.

9. Anche il quarto motivo, con cui si denuncia il mancato riconoscimento della protezione umanitaria stante la situazione di insicurezza del (OMISSIS) e la impossibilità, per l’odierno ricorrente, di godere dei propri diritti umani fondamentali in ipotesi di rimpatrio, è destituito di fondamento.

In primo luogo deve rilevarsi che la pronuncia delle S.U. 29459 del 2019 ha definitivamente affermato che alle domande (e, conseguentemente, ai giudizi) in corso alla data di entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018 si applica il sistema legislativo preesistente relativo alla tutela di carattere umanitario e non opera la sopravvenuta abrogazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Inoltre, in conformità con l’approccio scelto da questa Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, e seguito, tra le altre, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19; n. 11912/2020, oltre che dalla preponderante giurisprudenza di merito) e condiviso dalle Sezioni Unite (n. 29459 del 2019), occorre accordare rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale; procedendo attraverso il principio di “comparazione attenuata”, nel senso che quanto più intensa è là vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il “secundum comparationis”.(v. Cass. n. 1104/2020; n. 9304/2019).

E’ stato anche chiarito, poi, quanto ai presupposti necessari per ottenere la protezione umanitaria (per tutte, Cass. 4455/2018): Che non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano; Che gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicchè l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (ex multis, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096); Che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione. 4) Che era necessario dar seguito a quell’orientamento di legittimità (inaugurato dalla citata Cass. 23. febbraio 2018, n. 4455, e riaffermato, tra le altre, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19; 1104 del 2020; n. 8819 del 2020) nonchè della prevalente giurisprudenza di merito, che assegnava rilievo centrale alla valutazione comparativa, ex art. 8 CEDU, tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio potesse determinare, come già detto, la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.

Nel caso all’esame, il tribunale ha escluso la fondatezza della domanda di protezione umanitaria, risultata lacunosa – sia con riferimento all’attuale situazione socio-economica (integrazione sociale nel Paese di approdo) sia con riguardo alle condizioni di vita del richiedente in (OMISSIS); carenza assertiva tale da impedire il bilanciamento descritto e soprattutto l’accertamento del dedotto peggioramento delle proprie condizioni di vita. Derubricando altresì la prospettata situazione di vulnerabilità sia perchè il richiedente non avrebbe allegato di rientrare in una delle categorie a rischio per le quali sussiste effettivamente la compromissione dei diritti fondamentali sia per l’assenza di una situazione di violenza indiscriminata.

Ora, se con riferimento a quest’ultima affermazione, il motivo dedotto reca, al più, censura del giudizio “di fatto”, proponibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, spettando al giudice di merito valutare il grado della violenza in atto, sotto gli altri profili, il difetto di allegazione – sul quale si fonda la decisione del tribunale – relativamente alle condizioni attuali di vita e a quelle in cui si trovava quando viveva in (OMISSIS), ha impedito il giudizio di bilanciamento con la situazione, di vulnerabilità dedotta dal ricorrente, in quanto “additato come gay” dagli abitanti del suo villaggio. E questa ratio decidendi non è stata censurata dal ricorrente.

10.In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Non è luogo a provvedere sulle spese perchè la parte intimata non ha svolto attività difensiva.

Si dà atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) (S.U. n. 4315/2020), ove dovuto.

PQM

Rigetta il ricorso.

Si dà atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) (S.U. n. 4315/2020), ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

 

 

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