Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24348 del 29/11/2016


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Cassazione civile sez. VI, 29/11/2016, (ud. 04/10/2016, dep. 29/11/2016), n.24348

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19372-2013 proposto da:

BANCA MONTI PASCHI DI SIENA S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del

responsabile dell’Ufficio Crediti e legale rappresentante,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO MIRABELLO 18, presso lo

studio dell’avvocato ALFONSO QUINTARELLI, che lo rappresenta e

difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

B.C., quale liquidatore giudiziale del concordato

preventivo con cessione dei beni ai creditori della Società

IMPIANTI ELETTRICI DI BR. & C. S.N.C., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA BALDO DEGLI UBALDI, 112, presso lo studio

dell’avvocato LUIGI PIMULLA’, rappresentato e difeso dall’avvocato

MARIO SOLDAINI, giusto mandato in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3527/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

emessa il 1/6/2012 e depositata il 03/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/10/2016 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

quanto segue:

p.1. La Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., quale successore ai sensi dell’art. 2504-bis c.c. della s.p.a. Banca Antoniana Popolare Veneta ha proposto ricorso per cassazione contro la Impianti Elettrici di Braccini & c. s.n.c. in concordato preventivo, avverso la sentenza del 3 luglio 2012, con cui la Corte d’Appello di Roma ha parzialmente accolto l’appello dell’intimata contro la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Roma nel 2005 su una domanda da essa introdotta nel maggio del 1991 contro la Bolefin Factor s.p.a. (poi incorporata dalla Banca Antoniana Popolare Veneta) riguardo a somme dovute in forza di un contratto di factoring.

p.2. Al ricorso ha resistito con controricorso il liquidatore giudiziale del concordato intimato.

p.3. Prestandosi il ricorso ad essere trattato in camera di consiglio, secondo il rito dell’art. 380-bis c.p.c., è stata redatta relazione ai sensi di tale norma e ne è stata fatta notificazione agli avvocati delle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

p.4. La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

quanto segue:

p.1. Nella relazione ai sensi dell’art. 380-bis si sono svolte le seguenti considerazioni:

(…) p.3. Il ricorso può essere deciso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., in quanto appare inammissibile.

Queste le ragioni.

p.3.1. L’illustrazione dei due motivi su cui si fonda – deducenti il primo “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 195 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, il secondo “insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5″ – si fonda su riferimenti alla c.t.u. e ad altri documenti evocati dalla sentenza del Tribunale, ma di tali atti non fornisce l’indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Infatti, non solo si omette di trascriverne il contenuto direttamente od indirettamente, indicando la parte dell’atto cui l’indiretta riproduzione si riferirebbe, ma si omette anche di indicare se e dove gli atti cui si fa riferimento siano esaminabili, in quanto prodotti (ai diversi effetti dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) in questa sede di legittimità. Nè, quanto alla c.t.u., si dichiara di fare riferimento alla presenza nel fascicolo d’ufficio del giudizio di appello, ove in ipotesi essa potesse essere stata acquisita in quanto convenuta nel fascicolo di primo a sua volta: si veda Cass. sez. un. n. 22726 del 2011, che sottolinea, però, la necessità di rispettare l’art. 366 c.p.c., n. 6, essendo il rifermento al fascicolo d’ufficio solo diretto ad escludere l’onere di produzione ai diversi effetti dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

Ne discende che l’art. 366 c.p.c., n. 6 (norma costituente il c.d. precipitato normativo del c.d. principio di autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione: Cass. n. 7455 del 2013, ex multis) risulta violato, in quanto non sono rispettati i termini dell’indicazione specifica che prescrive, secondo consolidata giurisprudenza della Corte: si vedano già Cass. (ord.) n. 22303 del 2008 e Cass. sez. un. n. 28547 del 2008. A proposito della c.t.u. si veda di recente Cass. n. 11482 del 2016; n. 16638 del 2014.

Si deve, inoltre, aggiungere: a) che entrambi i motivi sono caratterizzati da assoluta genericità, sicchè impingono in inammissibilità per difetto di specificità (Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi); b) che la violazione dell’art. 115 c.p.c. appare priva di sostanza anche se considerata a prescindere dalla carenza di osservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, giusta il principio di diritto di cui a Cass. n. 11892 del 2016, fatto proprio ora dalle Sezioni Unite (Cass. sez. un. n. 16598 del 2016); c) che il vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 appare dedotto come sollecitazione alla prospettazione di una diversa alternativa valutativa delle emergenze probatorie, il che non rispetta il significato del paradigma della norma (Cass. n. 22979 del 2004, a proposito del n. 5 nella versione anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, ma poi ripresa da giurisprudenza successiva anche riguardo ad essa).”.

p.2. Il Collegio condivide le argomentazioni e le conclusioni della relazione, alle quali la memoria della ricorrente muove rilievi che non sono in alcun modo idonee a superale.

p.2.1. La memoria, in ordine al riferimento della relazione all’inosservanza del requisito dell’art. 366, n. 6 quanto alla riproduzione diretta od indiretta del contenuto rilevante della c.t.u., sostiene che il primo motivo di ricorso “non si concretizza affatto in una denuncia di erronea valutazione di risultanze probatorie, ma svolge il più pregante e grave argomento se la relazione di CTU possa costituire prova di un fatto storico posto a fondamento della domanda, nella specie, l’avvenuto pagamento da parte dei creditori ceduti alla cessionaria”. Se ne fa discendere che la ricorrente non avrebbe posto “una questione di valutazione delle prove, ma una questione di disponibilità delle prove e di idoneità probatoria”, onde non trattandosi di motivo concernente “la correttezza o meno della consulenza nel suo contenuto, non era necessario allegarla al ricorso”.

p.2.1.1. Il Collegio rileva che l’assunto della ricorrente si astiene da ogni riferimento alla norma dell’art. 366 c.p.c., n. 6 e sembrerebbe postulare che il motivo non sarebbe fondato sulla c.t.u., cioè che ai fini del suo scrutinio non sia necessario considerarne il tenore e, quindi, il modo in cui esso ha assunto rilevanza nella motivazione della sentenza impugnata.

Ebbene, non è dato comprendere come questa Corte può essere chiamata a stabilire se la Corte capitolina poteva o meno utilizzare la c.t.u. a fini probatori e se ha attribuito alle sue emergenze un valore probatorio (che è quello di cui effettivamente discorre il motivo), senza essere posta in grado di conoscere il suo contenuto e senza essere messa in grado di esaminarla. Le stesse massime citate dall’illustrazione del motivo lo dimostrano.

Ne segue che è del tutto privo di pregio – se è questo il senso della deduzione della memoria – assumere che il motivo non si fondi sulla c.t.u. agli effetti dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

p.2.2. Quanto al rilievo di genericità, che, si badi è gradato rispetto a quello di inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6 ma non meno decisivo, la memoria si astiene dallo spiegare come e perchè esso sarebbe infondato, dato che, anzichè dimostrare in che termini il motivo non sarebbe stato generico, rileva che si è “richiamato, in punto di principio, che di ciò si controverte, i principi espressi da questa Corte secondo cui “i fatti posto a fondamento della domanda o eccezione debbono essere provati dalle parti”, censurandosi la violazione dell’art. 115 c.p.c. in quanto il Giudice del gravame ha riconosciuto alla relazione di CTU il valore di prova dell’avvenuto incasso da parte della Banca”: in tal modo, non solo si vorrebbe escludere il rilievo di genericità evocando riferimenti alla deduzione di principi sull’onere della prova e sull’art. 115 c.p.c., ma non si coglie che quel rilievo concerne la mancanza di individuazione delle risultanze fattuali anche emergenti dalla c.t.u. che sarebbero state oggetto di cattiva applicazione di quei principi. Non senza che debba osservarsi che si fa confusione fra il rilievo di genericità, che discende proprio dalla mancata evocazione del contenuto rilevante della c.t.u., con quello concernente l’art. 115 c.p.c.

p.2.3. La memoria, d’altro canto, ignora quanto a proposito dei vizi di violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. hanno affermato le Sezioni Unite nella sentenza citata dalla relazione, astenendosi da qualsiasi considerazione e discussione riguardo al principio di diritto da esse affermato.

p.2.4. Quanto al secondo motivo si pretende di sfuggire al rilievo di inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, adducendo che, non avendo la sentenza impugnata indicato i documenti prodotti in primo grado dall’appellante, che ha detto di porre in collegamento con la c.t.u., non sarebbe dato comprendere come potrebbe pretendersi la loro indicazione da parte della ricorrente.

L’assunto oblitera non solo che anche il secondo motivo si fonda sul contenuto della c.t.u., che nemmeno viene evocato, ma si profila anche privo di pregio, perchè, senza porre in discussione quali documenti la controparte avesse prodotto in primo grado, si astiene dal riferire il loro contenuto, come avrebbe dovuto fare, per dimostrare che esso, in collegamento con la c.t.u., di cui avrebbe dovuto parimenti riferire il contenuto, non giustificava l’assunto della sentenza impugnata. Eppure il contraddittorio si è sviluppato su due gradi di merito e la ricorrente ha avuto modo di ben percepire che rilevanza avrebbero potuto avere o non avere i documenti, se messi in relazione con la c.t.u.

Si aggiunga: a) che la motivazione della sentenza impugnata allude anche al comportamento assunto nel processo dalla qui ricorrente, che in questa sede si disinteressa di tale rilievo, mentre avrebbe dovuto riferirlo per dimostrare che era stato mal valutato; b) che la motivazione che collega la documentazione alla c.t.u. succede, nella sentenza impugnata, all’evocazione di passi della motivazione della sentenza di primo grado che vengono detti frutto di analisi della documentazione in atti e del contegno processuale della convenuta, onde appare ancora più sorprendente che la ricorrente lamenti che la sentenza impugnata non abbia individuato nominatim i documenti.

Le deficienze di argomentazione che evidenziano l’inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6 anche qui ridondano in mancanza di specificità del motivo.

p.2.4. Il Collegio osserva in fine, ad ulteriore esplicazione del rilievo di genericità, che tutti e due i motivi risultano dedotti come se a questa Corte fosse stato demandato un giudizio da rendere non sulla base di puntuali allegazioni ed indicazioni del fondamento della prospettazione dei motivi, enunciate con la precisazione del dove e del come esse risultassero acquisite negli atti del giudizio di merito, bensì supponendo che competa alla Corte di ricercare, esaminando di sua iniziativa il contenuto del fascicolo d’ufficio del giudice d’appello e quelli dei fascicoli di parte pervenuti in questa sede, che cosa potrebbe, eventualmente, giustificare l’astratta prospettazione dei motivi, come farebbe il giudice di merito e, quindi, dando essa stessa ai motivi quel contenuto che avrebbe dovuto dare il ricorrente.

Ciò è contrario al paradigma dell’art. 366 siccome emergente: aa) sia dal numero 4 di detta norma, che affida alla parte l’articolazione dei motivi, i quali non possono non avere contenuto specifico (si rinvia ancora a Cass. n. 4741 del 2005), rappresentando la “domanda” rivolta al Giudice Corte di Cassazione e, dunque, un atto che è onere della parte formulare; bb) sia dal numero 6 su cui ci si è già soffermati.

p.3. Il ricorso è, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro cinquemilaottocento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 4 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2016

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