Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24345 del 29/10/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 24345 Anno 2013
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA
sul ricorso 24138-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

2622

GEMINI

MARCELLA

GMNMCL59A71A515C,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso
lo studio dell’avvocato ROCCO AGOSTINO, che la

Data pubblicazione: 29/10/2013

rappresenta e difende,

giusta procura speciale

notarile in atti;
– controri corrente –

avverso la sentenza n. 942/2007 della CORTE D’APPELLO
di L’AQUILA, depositata il 04/10/2007 R.G.N.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/09/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato BONFRATE FRANCESCA per delega PESSI
ROBERTO;
udito l’Avvocato AGOSTINO ROCCO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

194/2006;

R.G. 24138/2008
FATTO E DIRITTO
Con sentenza n. 285/2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Pescara
respingeva la domanda proposta da Marcella Gemini nei confronti della s.p.a.

apposto al contratto di lavoro concluso tra le parti per “esigenze eccezionali”
ex art. 8 ceni 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e succ., per il periodo 236- I 999/30- l 0-1999, con le pronunce consequenziali.
La Gemini proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la
riforma con l’accoglimento della domanda.
La società appellata si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello degli Abruzzi — L’Aquila, con sentenza depositata il
4-10-2007, in accoglimento dell’appello, dichiarava la nullità del termine
apposto al contratto de quo con la conseguente instaurazione di un rapporto a
tempo indeterminato fin dal 23-6-1999, “tuttora in essere”, e condannava
l’appellata alla riammissione in servizio della Gemini e al pagamento delle
retribuzioni maturate dalla messa in mora (“coincidente con il tentativo
obbligatorio di conciliazione”), “oltre rivalutazione e interessi, detratto quanto
percepito in altre occupazioni”.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre
motivi.
La Gemini ha resistito con controricorso.
La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.

1

Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine finale

Ciò posto, va rilevato che con il primo motivo la società ricorrente censura
l’impugnata sentenza, sotto i profili della violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. e

W%

del vizio di motivazione, nella parte in cui ha affermato la nullità del termine
apposto al contratto de quo, in quanto stipulato oltre la data del 30-4-1998,

Osserva il Collegio che tale considerazione – in base all’indirizzo ormai
consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema
vigente ratione temporis anteriormente al ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del
2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità
del termine apposto al contratto de quo.
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro
diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di
procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.
anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
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fissata dalle parti collettive, con gli accordi attuativi dell’accordo 25-9-97.

contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste
dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia
stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto
collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la
sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo
derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In tali sensi va quindi respinto il primo motivo.
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Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

Con il secondo motivo (erroneamente indicato come terzo) la ricorrente
censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione di
risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la mancanza di
una qualsiasi manifestazione di interesse alla funzionalità di fatto del rapporto,

la conseguente presunzione di estinzione del rapporto stesso.
Anche tale motivo non merita accoglimento.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca
tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la
volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni

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per un apprezzabile lasso di tempo anteriore alla proposizione della domanda e

rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.

MIA

1-2-2010 n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente

comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del
rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito ha rilevato che nella fattispecie
“il solo decorso del tempo” non costituisce elemento sintomatico di una
volontà tacita della lavoratrice, espressa per fatti concludenti, di risolvere il
rapporto, in mancanza di un qualche comportamento inequivoco e di ulteriori
elementi.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
Infine con il terzo motivo (erroneamente indicato come quarto) la
ricorrente deduce che nella fattispecie la lavoratrice non avrebbe fornito la
prova dell’effettivo danno subito, che comunque andrebbe ridotto in ragione
dell’ aliunde perceptum, e che neppure vi sarebbe stata una effettiva offerta
della prestazione con conseguente mora acczpiendi del datore di lavoro.
Tale motivo risulta del tutto generico e astratto (così come, peraltro, il
relativo quesito conclusivo formulato ex art. 366 bis applicabile

ratione

temporis, cfr. fra le altre Cass. 21-2-2012 n. 2499, 2615/2012, 12954/2012,
15461/2012, 1211/2013, 3819/2013).
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ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei

Posto, infatti, che la impugnata sentenza ha condannato la società al
pagamento delle retribuzioni dalla messa in mora individuata nel tentativo

iig

obbligatorio di conciliazione, la ricorrente censura tale decisione in modo
assolutamente generico, senza neppure riportare il testo dell’atto che, secondo

mora (contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito).
La società, inoltre, limitandosi a ribadire in astratto la propria tesi, neppure
considera che la impugnata sentenza ha già espressamente limitato la condanna
con la detrazione di “quanto percepito in altre occupazioni”, di guisa che la
censura risulta altresì inconferente con il decisum.
Così risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze
economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche
modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art. 32,
commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di
principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di
legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in
qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso,
in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 272-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe,
anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad

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il suo assunto, non avrebbe integrato la offerta della prestazione e la messa in

essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v.
fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla Gemini le
spese liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per compensi, oltre
accessori di legge.
Roma 19 settembre 2013

delle spese in favore della Gemini.

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