Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24338 del 18/11/2011

Cassazione civile sez. II, 18/11/2011, (ud. 25/10/2011, dep. 18/11/2011), n.24338

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.V., residente in (OMISSIS), rappresentato e

difeso per procura in calce al ricorso dall’Avvocato PANIGHETTI

Alberto, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Piancogno,

Via V. Veneto n. 35;

– ricorrente –

contro

S.C.C., P.S.C.M.D. e

S.C.P., rappresentati e difesi per procura a margine

del controricorso dagli Avvocati NAPOLETANO Piero e Domenico

Battista, elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo

in Roma, Via Trionfale n. 5697.

– controricorrenti –

e

D.A., residente in (OMISSIS) rappresentato e

difeso per procura in calce al controricorso dagli Avvocati Augusto

Falaguerra e Stefano Pontesilli, elettivamente domiciliato presso lo

studio di quest’ultimo in Roma, Via Francesco Orestano n. 21;

– controricorrente –

e

D.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 965 della Corte di appello di Brescia,

depositata l’8 novembre 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25

ottobre 2011 dal Consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi;

udite le difese svolte dall’ dall’Avvocato Alberto Panighetti per il

ricorrente;

udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 19 dicembre 1990, S.C.C., P.S.C.M.D. e S.C.P., premesso di essere comproprietari per la quota indivisa di un quarto di un immobile sito in (OMISSIS), costituito da sei appartamenti e due autorimesse, per averla acquistata da D. G., convennero in giudizio D.A. e D. V., rispettivamente comproprietari per la quota di un quarto e della metà, chiedendo lo scioglimento della comunione e la divisione dei beni. D.A. aderì alla domanda, mentre D.V. vi si oppose, chiedendo di riscattare la quota degli attori ai sensi dell’art. 732 cod. civ..

Alla prima udienza gli attori eccepirono in via subordinata di avere acquisito per usucapione la porzione di fabbricato posseduta da D.G., loro dante causa. D.V., a sua volta, chiese che fosse dichiarato il suo acquisto per usucapione dell’immobile.

D.G., chiamato in garanzia dagli attori, si costituì in giudizio e chiese il rigetto della domanda contro di lui proposta.

Con sentenza non definitiva n. 937 del 1996, il Tribunale di Brescia rigettò le domande di riscatto e di usucapione ed ordinò la prosecuzione del giudizio per la divisione, che dispose con successiva sentenza n. 3974 del 2003, con cui assegnò alle parti le porzioni di immobile come specificate nella seconda proposta del progetto elaborato dal consulente tecnico d’ufficio.

Interposto gravame da parte di D.V., con sentenza n. 965 dell’8 novembre 2005 la Corte di appello di Brescia confermò la pronuncia di primo grado. A sostegno di tale decisione la Corte territoriale affermò che la domanda di usucapione avanzata dall’appellante era inammissibile, atteso che essa era stata abbandonata nel giudizio di primo grado, per non averla la parte riproposta all’udienza di precisazione delle conclusioni; che la questione di usucapione, da esaminarsi come eccezione riconvenzionale diretta a paralizzare la domanda di scioglimento della comunione fondata sul presupposto della comproprietà, andava risolta nel senso sfavorevole all’appellante, per difetto di prova del possesso esercitato in via esclusiva, tenuto conto anche della situazione di compossesso esistente sul bene e ribadita l’inammissibilità della prova testimoniale avanzata dalla parte per difetto di specificità in ordine alla esclusività del possesso; che correttamente il giudice di primo grado aveva privilegiato, nell’accogliere il progetto divisionale, la soluzione del consulente più idonea a preservare la situazione di fatto esistente, rappresentata dal godimento diretto di due appartamenti da parte dei condividendi.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 13 febbraio 2006, ricorre D.V., affidandosi a cinque motivi, illustrati da memoria.

Resistono con distinti controricorsi S.C.C., P.S.C.M.D. e S.C.P. e D.A..

D.G. non ha svolto invece attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso, che denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 183, 329 e 345 cod. proc. civ., ed omessa motivazione, lamenta che la Corte di appello non abbia tenuto conto che l’atto di appello era rivolto contro la domanda di divisione accolta dalla pronuncia di primo grado, che l’appellante chiedeva appunto di riformare in accoglimento dell’eccezione riconvenzionale di usucapione, rivolta non già nei confronti dell’intero immobile, ma solo nei riguardi delle parti diverse da quelle da sempre occupate dagli attori e da D. A.. La Corte di Brescia, dato atto dell’eccezione riconvenzionale di usucapione, avrebbe pertanto dovuto o accogliere le istanze dell’appellante sul riconoscimento della confessione di tale usucapione risultante in atti o ammettere le prove testimoniali ritualmente richieste.

Il motivo è infondato.

Per quanto è dato di comprendere dalla non chiara esposizione delle censure, con esso la parte lamenta che la Corte di appello non abbia tenuto conto della sua eccezione riconvenzionale di usucapione, cioè, deve intendersi, alla luce delle violazioni di legge denunziate, non l’abbia esaminata e non si sia su di essa pronunciata. Questa prospettazione contrasta tuttavia con il chiaro contenuto della sentenza impugnata, che, pur dando atto dell’inammissibilità, per novità, della domanda di usucapione proposta con l’atto di appello, ha affermato che la relativa questione andava affrontata, riconoscendo alla deduzione della parte natura e consistenza di “eccezione riconvenzionale”, in quanto “atta a paralizzare la domanda di scioglimento della comunione fondata sul presupposto della comproprietà”, per poi rigettarla per difetto di prova. La censura di omessa pronuncia o omessa motivazione appare pertanto infondata.

La doglianza con cui la parte lamenta il mancato riconoscimento della prova dell’usucapione va invece esaminata in occasione del terzo e del quarto motivo, dove è più esaurientemente sviluppata.

Il secondo motivo denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 113, 115, 183 e 345 cod. proc. civ., anche in relazione agli artt. 922 e 1158 cod. civ., assumendo che la Corte bresciana ha errato nel qualificare nuova e quindi inammissibile la domanda di usucapione avanzata in appello, atteso che, nel giudizio di primo grado, la parte, dopo averla presentata all’udienza di trattazione, l’aveva poi, diversamente da quanto ritenuto dal giudicante, riproposta all’udienza di precisazione delle conclusioni, avanzando richiesta di prova testimoniale sul punto.

Il motivo va esaminato dopo l’esame del terzo e del quarto motivo, posto che la sentenza impugnata ha comunque esaminato la questione di fatto dell’asserita usucapione, respingendo la tesi degli attori per difetto di prova. Ne deriva che i motivi terzo e quarto hanno priorità logica, atteso che soltanto nel caso in cui essi siano accolti la parte ricorrente può avere interesse a far dichiarare di avere opposto l’usucapione in via di domanda e non di sola eccezione.

Il terzo motivo di ricorso, che denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 113, 115, 116, 228, 229, 183, 244 e 345 cod. proc. civ. anche in relazione agli artt. 922, 1158, 2730, 2731, 2733, 2734 e art. 2735 cod. civ., censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che le prove raccolte non dimostrassero in modo sufficiente il possesso esclusivo dell’immobile per oltre vent’anni da parte del D.V., fatta eccezione per i due appartamenti goduti dalle altre parti, e per avere confermato altresì il giudizio di inammissibilità sulla prova testimoniale articolata dalla parte. Nel valutare le prove il giudice di secondo grado è incorso in errore in quanto non ha considerato: a) la compravendita intercorsa tra gli attori S.C. e D.G., che per il prezzo convenuto, dato il suo modesto ammontare, pari a L. 230.000.000, era riferibile al solo appartamento occupato dal venditore e non al valore della sua quota, pari a due appartamenti; b) che il terzo chiamato, D.G., fin dal suo atto di costituzione in giudizio, affermò di avere abitato un appartamento dell’immobile e quindi articolato anche prove testimoniali volte a dimostrare di avere edotto gli acquirenti dello stato di fatto e di diritto dell’immobile e in particolare anche del fatto che il D. V. occupava quattro dei sei appartamenti; c) che anche D.A., nel suo atto di costituzione in giudizio, ebbe a dichiarare di avere sempre occupato uno solo degli appartamenti dello stabile; d) che, nel 1993, i fratelli D. incaricarono un tecnico di accatastare l’immobile secondo un progetto divisionale che riconosceva a V. quattro appartamenti, accordo che non potè essere formalizzato soltanto a causa di un abuso esistente nella mansarda; e) che gli stessi attori proposero domanda di usucapione limitatamente alla porzione di fabbricato occupata e posseduta da D.G. – il quarto motivo di ricorso, che denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 113, 115, 116, 244 e 356 cod. proc. civ. anche in relazione agli artt. 922 e 1158 cod. civ., censura la statuizione della sentenza impugnata che non ha ammesso la prova testimoniale, ritenendo che la stessa conteneva giudizi e non investiva il punto decisivo del possesso esclusivo dell’immobile da parte dell’appellante, assumendo il ricorrente che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, la prova richiesta era sufficientemente specifica tanto con riferimento all’elemento oggettivo che all’elemento psicologico del possesso.

I due motivi, che vanno esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione obiettiva, non meritano accoglimento.

Quanto al terzo motivo, se ne deve rilevare l’inammissibilità nella misura in cui con esso la parte ricorrente tende ad accreditare una ricostruzione dei fatti, attraverso una valutazione diretta da parte di questa Corte delle prove raccolte in giudizio, divergente da quella compiuta dal giudice di merito. E’ noto, per contro, che nel giudizio di legittimità, non essendo questa Corte giudice del fatto, non sono proponibili censure dirette a provocare un nuovo apprezzamento delle risultanze processuali, diversa da quella espresso dal giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, potendo il ricorrente sindacare tale valutazione solo sotto il profilo della congruità e sufficienza della motivazione, che, se dedotto, conferisce alla Corte di legittimità il potere di controllare, sotto il profilo logico-formale, l’esame e la valutazione dei fatti compiuta dal giudice del merito, non già quello di effettuare un nuovo esame ed una nuova valutazione degli stessi (Cass. n. 14972 del 2006; Cass. n. 4770 del 2006; Cass. n. 16034 del 2002).

A tale precisazione merita aggiungere che gli elementi di fatto addotti dal ricorrente, che sarebbero stati colpevolmente ignorati dal giudice di merito, non appaiono affatto decisivi al fine di dimostrare il suo possesso esclusivo delle parti dell’immobile non direttamente occupate dagli altri comproprietari.

Occorre premettere che il giudice di merito ha accertato che, nel caso di specie, vi era tra i comproprietari una situazione di compossesso, tenuto conto che l’immobile era occupato da tutti i comunisti, e che tale circostanza non risulta specificatamente contestata dal ricorso. Ne deriva che la prova, ai fini dell’usucapione, non poteva farsi coincidere con il mero possesso del bene da parte dell’istante, ma richiedeva un quid pluris idoneo a dimostrare che egli aveva inteso estendere e di fatto aveva esteso la signoria di fatto sulla cosa con modalità tali da escludere il potere degli altri di trame godimento. Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che, in caso di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sè, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando necessario, a fini della usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res communis da parte dell’interessato attraverso un’attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui (Cass. n. 17462 del 2009; Cass. n. 19478 del 2007; Cass. n. 11419 del 2003).

La tesi sviluppata dal ricorrente, secondo cui le risultanze degli atti avrebbero dimostrato il suo possesso personale ed esclusivo del bene, con esclusione degli altri compossessori, integrando anzi una vera e propria confessione, appare priva di qualsiasi consistenza. Le risultanze addotte appaiono vaghe, prive di evidenza probatoria, non univoche, e perciò sprovviste di quel carattere di decisività necessario per poter affermare che, se esse fossero state esaminate e considerate dai giudice di merito, avrebbero potuto portare ad una conclusione diversa, situazione che sola può portare a concludere per la cassazione della sentenza impugnata. In particolare, di nessun rilievo appare il dato relativo al prezzo di compravendita della quota trasferita da D.G. agli originari attori, che il ricorrente ritiene essere stato limitato al valore dell’appartamento e non della quota, atteso che risulta pacifico che l’atto di cessione ha avuto ad oggetto proprio la quota di comproprietà e non il singolo appartamento; parimenti inconcludenti vanno considerate le difese svolte in giudizio da D.G. e D.V. che, per il loro contenuto, non indicano elementi di sorta idonei a dimostrare la situazione di possesso esclusivo del bene da parte dell’istante; irrilevante infine la predisposizione di un progetto divisionale del bene da parte degli originari comproprietari, rimasto, come ammette lo stesso ricorso, a livello di mera proposta non perfezionata da un successivo accordo.

La censura sollevata con il quarto motivo di ricorso, che contesta la mancata ammissione della prova testimoniale già articolata dal convenuto in primo grado, è invece infondata.

La Corte territoriale, preso atto che la prova aveva ad oggetto esclusivamente la circostanza che l’istante avesse occupato e posseduto l’immobile, ne ha confermato l’inammissibilità per genericità, rilevando che essa era “insufficiente a dimostrare un possesso rilevante ai fini dell’usucapione, perchè nemmeno specifica l’esclusività del possesso, nel senso della esclusione degli altri compossessori …”. Ferma l’insindacabilità nel merito di tale valutazione, che si risolve in un apprezzamento di fatto demandato dalla legge alla esclusiva competenza del giudice territoriale, la stessa appare, oltre che adeguatamente motivata, del tutto corretta dal punto di vista giuridico, conformandosi all’orientamento di questa Corte già sopra richiamato, e fatto proprio dalla decisione impugnata, circa le condizioni in presenza delle quali può ritenersi provato il possesso utile all’usucapione nelle situazioni di compossesso del bene.

Il rigetto del terzo e quarto motivo di ricorso porta a ritenere inammissibile, per difetto di interesse, il secondo motivo, atteso che la conferma della statuizione impugnata che ha escluso l’avvenuta usucapione del bene da parte del ricorrente rende irrilevante la questione se l’acquisto per usucapione sia stato opposto dall’interessato in via di eccezione ovvero con un’apposita domanda.

L’eventuale accoglimento del mezzo non potrebbe infatti mai portare alla cassazione della sentenza impugnata, per avere comunque la Corte escluso la sussistenza delle condizioni per l’usucapione in capo al ricorrente.

Il quinto motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione dell’art. 727 c.c., comma 1, artt. 1111, 1114 e 116 cod. civ., censura la sentenza impugnata per avere disposto la divisione del beni senza considerare il minor valore della mansarda, su cui erano stati eseguiti lavori abusivi, e che la proposta divisionale avanzata dal ctu contrastava con il criterio di minimizzare i conguagli in denaro, mentre l’obiettivo evidenziato nella sentenza di ridurre per quanto possibile futuri contenziosi tra le parti era contraddetto dalla presenza di aree e beni in comune.

Il motivo appare in parte inammissibile ed in parte infondato.

Inammissibile in quanto contiene censure generiche, non indicando in modo specifico, la parte, le ragioni per cui la divisione disposta dal giudice di merito avrebbe pregiudicato i suoi interessi nè le soluzioni alternative che invece avrebbero dovuto adottarsi.

Il mezzo è altresì infondato dal momento che, per giurisprudenza costante di questa Corte, il giudice di merito, nel disporre lo scioglimento della comunione di un immobile, gode di discrezionalità nell’esercizio del potere di attribuzione delle porzioni ai condividendi, salvo l’obbligo di darne conto in motivazione (Cass. n. 21319 del 2010 ), obbligo che nella specie risulta assolto ed il cui adempimento non è investito da censure.

Con riferimento alla valutazione della mansarda, che il ricorrente assume di valore inferiore a quello attribuitole, causa la sua irregolarità edilizia, si osserva invece che il giudice di merito sul punto ha provveduto in conformità al valore a metro quadro indicato dal consulente tecnico d’ufficio, che evidentemente vi ha provveduto tenendo conto di tutte le condizioni del bene, sicchè la circostanza dedotta risulta, quanto meno per implicito, valutata e considerata dal giudice a quo.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo in favore delle parti costituite, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 2.600,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge, per ciascun gruppo di controricorrenti.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2011

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