Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24334 del 29/11/2016


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Cassazione civile sez. VI, 29/11/2016, (ud. 06/10/2016, dep. 29/11/2016), n.24334

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1839/-2014 proposto da:

D.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

CIRCONVALLAZIONE CLODIA 88, presso lo studio dell’avvocato

ALESSANDRO ZUNICA, rappresentata e difesa dall’avvocato RUGGIERO

GALLO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE

DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA

PULLI, EMANUELA CAPANNOLO, MAURO RICCI, giusta procura speciale a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1801/2013 della CORTE D’APPELLO di PALERMO del

4/07/2013, depositata l’11/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/10/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FABRIZIA GARRI;

udito l’Avvocato Clementina Pulli, difensore del controricorrente che

si riporta ai motivi scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza del Tribunale di Termini Imerese che aveva rigettato la domanda di D.G. di condanna dell’Inps al pagamento dell’assegno di invalidità civile condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite avendo verificato il possesso di un reddito superiore a quello previsto per l’esenzione dall’art. 152 disp. att. c.p.c..

Per la cassazione della sentenza ricorre D.G. che denuncia la violazione e falsa applicazione della L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 13, D.Lgs. 23 novembre 1988, n. 509, art. 1 comma 3 e art. 3, L. n. 407 del 1990, art. 3, comma 3 e del D.M. della Sanità 5 febbraio 1992.

Sostiene la ricorrente che ove correttamente applicate le tabelle di valutazione di cui al D.M. citato, immediatamente precettivo in virtù della delega di cui al D.Lgs. n. 509 del 1988, art. 2 e della L. n. 407 del 1990, art. 3, comma 3, si sarebbe dovuti pervenire all’accoglimento della domanda in relazione alla sussistenza del requisito sanitario utile al riconoscimento della domanda.

Nel caso come quello di specie in cui sono state accertate più infermità coesistenti riferite ad organi ed apparati tra loro funzionalmente distinti (nella specie cisto-rettocele di 3^) le stesse assumono dignità valutativa autonoma e non devono essere accorpate ma considerate in concorrenza con un incremento del 25% della percentuale di invalidità. Inoltre evidenzia che la ctu avrebbe omesso qualsiasi accertamento sull’anamnesi lavorativa che avrebbe consentito, invece, una variazione in aumento che, sebbene contenuta nel limite dei 5 punti percentuali, sarebbe stata utile ai fini del riconoscimento della prestazione azionata.

Con il secondo motivo di ricorso e denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c., per avere posto a carico della ricorrente le spese del giudizio ivi compresa la consulenza tecnica d’ufficio senza motivare in ordine alla manifesta infondatezza e temerarietà della domanda.

Resiste l’Inps con controricorso eccependo preliminarmente l’inammissibilità e improcedibilità del ricorso per avere la ricorrente denunciato degli errores in procedendo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, salvo poi prospettarle come violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Inoltre evidenzia la carente autosufficienza del ricorso e comunque si duole della inammissibilità delle censure volte ad ottenere dalla cassazione un riesame del merito della controversia per il tramite di una diversa e più favorevole valutazione delle malattie già prese in considerazione anche dal consulente medico nominato in appello.

Sottolinea clic comunque era corretta la valutazione globale delle patologie e del danno conseguente con tecnica a scalare.

Tanto premesso e sul primo motivo di ricorso va richiamata la giurisprudenza di questa Corte che, anche recentemente, ha affermato che “con riferimento alle controversie relative al riconoscimento del diritto alla pensione di invalidità civile, nell’ipotesi di malattie coesistenti, il danno globale non si computa addizionando le percentuali di invalidità risultanti dalla tabella approvata con decreto del Ministero della sanità 5 febbraio 1992, ma va valutato nella sua incidenza reale sulla validità complessiva del soggetto, ai sensi del D.Lgs. n. 509 del 1988, art. 4, nè la previsione nella stessa disposizione della tecnica valutativa “a scalare” per i danni coesistenti deroga al suddetto principio generale; conseguentemente, dopo aver ottenuto il danno globale con la tecnica valutativa “a scalare”, è necessario valutare come esso incida in concreto sulla validità complessiva del soggetto” (cfr. Cass. n. 7465 del 2005 e n. 27147 del 2013).

Questa valutazione complessiva è stata fatta dal consulente d’ufficio le cui conclusioni sono state recepite dal giudicante.

Peraltro, secondo un principio costantemente affermato da questa Corte “nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. di tipo medico legale…nel caso in cui il giudice del merito si basi sulle conclusioni dell’ausiliario giudiziario, affinchè i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è necessario che i relativi vizi logico formali si concretino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a carico della parte interessata, di indicare le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere considerazioni sulle prospettazioni operate dalla controparte, che si traducono in una inammissibile critica del convincimento del giudice di merito che si sia fondato, per l’appunto, sulla consulenza tecnica” (Cass. n. 17324 del 2005 e n. 27147 del 2013 cit.).

Ugualmente infondata è la censura che investe la condanna al pagamento delle spese di lite.

L’art. 152 disp. att. c.p.c. – nel testo risultante dopo la modifica introdotta dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, comma 11, convertito nella L. 24 novembre 2003, n. 326 e qui da applicare, essendo stato il giudizio di primo grado instaurato con ricorso depositato il 30 giugno 2005, successivamente cioè all’entrata in vigore della suddetta modifica – in caso di soccombenza nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali, e salvo quanto previsto dall’art. 96 c.p.c., comma 1, subordina l’esenzione dell’assicurato dall’onere del pagamento delle spese processuali, soltanto alla dichiarazione da parte dello stesso di essere titolare, nell’anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini Irpef, risultante dall’ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l’importo del reddito stabilito ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 76, commi da 1 a 3 e art. 77.

Si è sottolineato come la norma, per il suo tenore, va interpretata nel senso che ai fini della condanna al pagamento delle spese, in caso di soccombenza, non costituisce presupposto necessario l’accertamento della manifesta infondatezza e della temerarietà della pretesa, secondo quanto stabilito dalla medesima norma anteriormente alla modifica intervenuta, ma è sufficiente considerare soltanto la situazione reddituale della parte soccombente, semprechè la stessa, con riferimento alle condizioni di reddito nell’anno precedente a quello di instaurazione del giudizio, si trovi in quelle condizioni sopra specificate e formuli apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione, con l’impegno a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni di reddito verificatesi nell’anno precedente (Cass. n. 17264 del 2010).

La Corte territoriale si è attenuta ai principi sopra esposti e dunque anche per tale aspetto la sentenza appare meritevole di conferma.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese poste a carico della ricorrente non ricorrendo i presupposti per l’esonero.

La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., a 22035/2014).

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 2500,00 per compensi professionali, Euro 100,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2016

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