Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24321 del 29/11/2016


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Cassazione civile sez. VI, 29/11/2016, (ud. 06/10/2016, dep. 29/11/2016), n.24321

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6408/2015 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, (C.F.

(OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso lo

l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso

unitamente e disgiuntamente dagli avvocati CLEMENTINA PULLI,

EMANUELA CAPANNOLO e MAURO RICCI, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

P.F.;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di TERMINI IMERESE, emesso e

depositato l’1/9/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

6/10/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;

udito l’Avvocato CLEMENTINA PULLI, per il ricorrente, che si riporta

agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con ricorso del 18/5/2013, P.F. presentava istanza per accertamento tecnico preventivo, ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., per la verifica della propria condizione inabilitante ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di inabilità ovvero in subordine all’assegno ordinario di invalidità. Il c.t.u. officiato accertava solo la sussistenza di una riduzione della capacità lavorativa per beneficiare dell’assegno ordinario di invalidità. Avverso tali conclusioni medico-legali non venivano mosse contestazioni. Il Tribunale, con decreto ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., comma 5, omologava l’accertamento relativo requisito sanitario. Con lo stesso decreto il Giudice compensava tra le parti le spese di lite e poneva a carico dell’I.N.P.S. le spese di c.t.u., liquidate come da separato decreto.

Con ricorso straordinario ex art. 111 Cost., l’I.N.P.S. impugna la pronuncia suddetta.

P.F. è rimasto intimato.

Con l’unico motivo di ricorso l’I.N.P.S. censura il provvedimento per violazione degli artt. 100, 112 e 445 bis c.p.c., art. 2697 c.c., del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, per non essersi pronunciato il giudice di merito sull’eccezione avente ad oggetto l’inammissibilità del ricorso per accertamento tecnico preventivo per intervenuta decadenza in ragione del decorso del termine triennale per l’esercizio dell’azione giudiziale.

Rileva che l’accoglimento di tale eccezione, preclusiva della richiesta di verifica preventiva, avrebbe dovuto comportare la declaratoria di inammissibilità dell’istanza, stante la carenza di interesse del ricorrente all’azione che, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., deve sottintendere ogni domanda e l’inutilità dell’espletamento della consulenza tecnica.

Va preliminarmente osservato che il ricorso straordinario ex art. 111 Cost., è ammissibile nei confronti dei provvedimenti giurisdizionali, emessi in forma di ordinanza o di decreto, solo quando essi siano definitivi e abbiano carattere decisorio, cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale. In altre parole, deve trattarsi di provvedimenti idonei a risolvere il conflitto tra le parti in ordine al diritto soggettivo dell’una o dell’altra (cfr. Cass. n. 15949/2011 e Cass. n. 2757/2012). E’ stato così precisato che: “Il decreto di omologa del requisito sanitario non incide sulle situazioni giuridiche soggettive perchè non conferisce nè nega alcun diritto, dal momento che non statuisce sulla spettanza della prestazione richiesta e sul conseguente obbligo dell’I.N.P.S. di erogarla” – così Cass. 19 giugno 2015, n. 12731 e prima ancora Cass. 17 marzo 2014, n. 6085.

E’ alla luce degli indicati principi che il ricorso dell’I.N.P.S. è inammissibile.

E’ pur vero che, come da questa Corte già affermato (cfr. Cass. 5 maggio 2015, n. 8932 cit.; Cass. 4 maggio 2015, n. 8878; Cass. 27 aprile 2015, n. 8533), partendo dal principio che, salve le eccezioni di legge, “non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che integrino solo elementi frazionari della fattispecie costitutiva di un diritto, che può costituire oggetto di accertamento giudiziale solo nella sua interezza”, va escluso che l’accertamento del requisito sanitario cui è preordinato il procedimento ex art. 445 bis c.p.c., si “ponga come fattore a sè stante, del tutto avulso dal diritto sostanziale che si intende realizzare”, essendo invece sempre “strumentale e preordinato all’adozione del provvedimento di attribuzione di una prestazione previdenziale o assistenziale che deve essere indicata nel ricorso”. In conseguenza, “l’ammissibilità dell’a.t.p. presuppone – come proiezione dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) – che l’accertamento medico-legale, pur sempre richiesto in vista di una prestazione previdenziale o assistenziale, risponda ad un concreto interesse del ricorrente, dovendo escludersi che esso possa essere totalmente avulso dalla sussistenza di qualsivoglia ulteriore presupposto richiesto dalla legge per il riconoscimento dei diritti corrispondenti allo stato di invalidità allegato dal ricorrente, con il rischio di un’eccessiva proliferazione del contenzioso sanitario”. E’ stato così precisato che: “l’ammissibilità dell’a.t.p. richiede che il giudice adito accerti sommariamente, nella verifica dei presupposti processuali, oltre alla propria competenza, anche la ricorrenza di una delle ipotesi per le quali è previsto il ricorso alla procedura prevista dall’art. 445 bis c.p.c., nonchè la presentazione della domanda amministrativa, l’eventuale presentazione del ricorso amministrativo, la tempestività del ricorso giudiziario; ed inoltre il profilo dell’interesse ad agire dovrà, dal giudice, essere valutato nella prospettiva dell’utilità dell’accertamento medico richiesto al fine di ottenere il riconoscimento del diritto soggettivo sostanziale di cui l’istante si afferma titolare; utilità che potrebbe difettare ove manifestamente manchino, con una valutazione prima facie, presupposti della prestazione previdenziale o assistenziale in vista della quale il ricorrente domanda l’a.t.p.. Solo qualora tale verifica abbia dato esito positivo e sussistano, sulla base della prospettazione effettuata dal ricorrente, i requisiti per darsi ingresso all’accertamento tecnico, il giudice potrà proseguire nella procedura descritta dalla disposizione, dovendo altrimenti dichiarare il ricorso inammissibile, con pronuncia priva di incidenza con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale (come ritenuto da Cass. n. 5338 del 2014), che non preclude l’ordinario giudizio di cognizione sul diritto vantato”.

E’ dunque allora vero che al giudice dell’a.t.p. non sia da riconoscere un ruolo meramente sussidiario ed al più direttivo ovvero esecutivo degli interventi normativamente previsti è stato anche ritenuto dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 243 del 2014, proprio con riguardo a tale profilo ha escluso ogni violazione degli artt. 3, 24, 38 e 111 Cost., (“il giudice investito dell’istanza di accertamento tecnico preventivo diretto alla verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere, dispone di tutti i poteri all’uopo necessari”). Va così ritenuto che sin dall’inizio il giudice sia investito del compito di direzione del procedimento con l’esercizio di tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento dello stesso (art. 175 c.p.c.). Considerati, infatti, l’intento del legislatore di perseguire l’interesse generale alla riduzione del contenzioso assistenziale e previdenziale e la strumentalità e preordinazione del procedimento all’adozione del provvedimento di attribuzione della prestazione, una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 445 bis c.p.c., non può che condurre (in conformità con Cass. 4 maggio 2015, n. 8878 e Cass. 27 aprile 2015, n. 8533, citate) a ritenere ammissibile il vaglio preventivo sulle condizioni e sui presupposti processuali della domanda.

Tuttavia, a termini di procedura, in assenza di contestazioni, viene poi emesso il decreto di omologa, espressamente definito non impugnabile giacchè il rimedio concesso a chi intenda precludere la ratifica delle conclusioni del c.t.u. si colloca esclusivamente in un momento) anteriore, ossia “prima” dell’omologa e nel termine fissato dal giudice per muovere contestazioni alla consulenza. In assenza di contestazioni, si chiude quindi definitivamente la fase dell’accertamento sanitario e le conclusioni del c.t.u. sono ormai intangibili. Ti che si spiega considerando che sarebbe evidentemente illogico attribuire un rimedio impugnatorio avverso l’omologa alla parte che, nel momento anteriore ad essa, quando le era consentito di farlo, non abbia contestato la possibilità di ratificare le conclusioni del c.t.u. su cui la medesima omologa si fonda.

Coerentemente con tale premessa, deve ritenersi che la dichiarazione di dissenso che la parte deve formulare al fine di evitare l’emissione del decreto di omologa (ai sensi dei commi 4 e 5) possa avere ad oggetto sia le conclusioni cui è pervenuto il c.t.u., sia gli aspetti preliminari che sono stati oggetto della verifica giudiziale (ai fini della quale sia stata anche, come nella specie, formulata una eccezione apposita) e ritenuti non preclusivi dell’ulteriore corso, relativi ai presupposti processuali ed alle condizioni dell’azione così come sopra delineati; in mancanza di contestazioni, l’accertamento sanitario ratificato con il decreto di omologa diviene definitivo e non è successivamente contestabile, nè il decreto ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost.. Se invece una delle parti contesti (non solo le conclusioni del c.t.u., ma complessivamente) la possibilità del giudice di ratificare l’accertamento medico, si apre un procedimento secondo il rito ordinario, con onere della parte dissenziente di proporre al giudice, in un termine perentorio, un ricorso in cui, a pena di inammissibilità, deve specificare i motivi della contestazione” (Cass. n. 8932 del 2015, cit.).

In base a tale condivisibile ricostruzione della disciplina del procedimento per accertamento tecnico preventivo, l’I.N.P.S. avrebbe dovuto, quindi, far valere le doglianze proposte con il presente ricorso, nell’ambito del procedimento di a.t.p., formulando espressa dichiarazione di dissenso alla possibilità di ratifica dell’accertamento medico, dissenso ammissibile, in ragione di quanto sopra chiarito, anche per ragioni diverse dal profilo direttamente coinvolgente l’accertamento medico (e così, nella specie, avrebbe dovuto contestare le conclusioni del c.t.u. sia pure sotto il profilo della loro inutilizzabilità ai fini del riconoscimento della prestazione come conseguenza della maturata decadenza triennale). Il giudice dell’a.t.p. non avrebbe potuto così omologare ma avrebbe dovuto emettere una sentenza il contenuto ed i presupposti della quale l’I.N.P.S., se fosse rimasto soccombente, avrebbe poi potuto portare al vaglio della Cassazione ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., commi 6 e 7.

In mancanza, essendo rimaste le doglianze dell’I.N.P.S. affidate ad una mera eccezione preliminare, il ricorso deve essere considerato inammissibile.

In conclusione, si propone la declaratoria di inammissibilità del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5.

2 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

5 – Nulla va disposto per le spese processuali non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto) dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2016

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