Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24309 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 03/11/2020, (ud. 10/07/2020, dep. 03/11/2020), n.24309

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1491 del ruolo generale dell’anno 2013

proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

Castfutura s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avv. Fabio Quojani per procura speciale

a margine del controricorso, presso il cui studio in Roma, via G.G.

Belli, n. 27, è elettivamente domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 76/40/2012, ammessa in data 12 aprile

2012, depositata in data 17 maggio 2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 luglio

2020 dal Consigliere Dott. Triscari Giancarlo;

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Castfutura s.p.a. un avviso di accertamento con il quale aveva rettificato le dichiarazioni ai fini Ires, Irap e Iva relativamente all’anno di imposta 2005; avverso il suddetto atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato parzialmente accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Varese; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale del Lazio ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: non era legittimo il recupero per costi non inerenti, in quanto l’importo recuperato non era stato imputato a costo ma ad incremento del valore della partecipazione; correttamente, poi, la commissione di primo grado aveva ritenuto illegittima la pretesa relativa alle differenze inventariali con riferimento alla circolare n. 193/2008 in quanto rientrante nei limiti normali di tolleranza;

l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a tre motivi, cui ha resistito la società depositando controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, non riportando l’esposizione dello svolgimento del processo e le richieste delle parti;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per la controversia, nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per motivazione apparente;

in particolare, si censura la sentenza per non avere esplicitato le ragioni della decisione in ordine alle contestazioni svolte e alle prove offerte dall’amministrazione finanziaria circa: in primo luogo, il recupero relativo ai costi per servizi non inerenti, non avendo tenuto conto del documento del 14 marzo 2005 da cui si evinceva che la prestazione professionale era stata svolta in favore della BS Investimenti SGR s.p.a., la quale soltanto, quindi, avrebbe potuto dedurre il costo, e per avere fatto generico riferimento a documenti senza alcuno specifico riferimento; nonchè, in secondo luogo, circa il recupero relativo alle differenze inventariali, per avere fatto riferimento alla circolare 193/08 ed al limite di tolleranza che, tuttavia, non erano idonei a superare la presunzione legale relativa di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, artt. 1,2 e 4;

i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla questione della nullità della sentenza, per mancata esposizione dello svolgimento del processo e delle richieste delle parti, nonchè della motivazione apparente, sono fondati;

questa Corte ha già rilevato che, nel processo tributario, la mancata esposizione nella sentenza dello svolgimento del processo, dei fatti rilevanti della causa e l’estrema concisione della motivazione in diritto ne determinano la nullità allorquando rendano impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni che stanno a fondamento del dispositivo (Cass. civ., 8 novembre 2013, n. 25143; Cass. civ., 3 ottobre 2008, n. 24610);

in particolare, si è precisato che la sola carente esposizione dello svolgimento del processo non vale ad integrare un motivo di nullità della sentenza, purchè dal contesto di questa sia dato desumere con sufficiente chiarezza le vicende processuali e in particolare le domande svolte nel processo, le sottese difese e le ragioni delle conseguenti decisioni adottate sulle stesse (Cass. civ., 23 gennaio 2004, n. 1170);

nel caso di specie, il giudice del gravame, in sede di svolgimento del processo, ha del tutto omesso di descrivere, in primo luogo, i fatti rilevanti della causa, in particolare sulla base di quali presupposti era stato emesso l’avviso di accertamento, nonchè le ragioni di contestazione della legittimità del suddetto atto, contenute nel ricorso, e la linea difensiva dell’amministrazione finanziaria, nè viene specificato sotto quale profilo il ricorso era stato parzialmente accolto dal giudice di primo grado e quali motivi di appello erano stati prospettati;

l’assoluta mancanza di elementi specifici sopra indicati non consente, quindi, di apprezzare l’esatto ambito della controversia in esame, in particolare i profili centrali della pretesa, da un lato, dell’amministrazione finanziaria, e delle ragioni di doglianza, peraltro solo parzialmente accolte dal giudice di primo grado, prospettate dalla società contribuente;

a tali considerazioni va, altresì, aggiunto che lo stesso percorso motivazionale seguito dal giudice del gravame ai fini della decisione non consente di superare gli elementi di incertezza cui si è fatto riferimento, avendo la sentenza fatto riferimento a “costi non inerenti” ed a “differenze inventariali”, senza ulteriori specificazioni, sicchè con tali espressioni non è possibile riempire di contenuto i profili centrali della controversia in esame di cui, come detto, il giudice del gravame ha omesso ogni specifica indicazione;

è corretta, quindi, la censura prospettata sotto il profilo della violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36;

d’altro lato, la sentenza in esame si presta anche alla censura sul versante della motivazione apparente;

in generale, il suddetto vizio è riscontrabile nel caso in cui il giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. civ.’4027/15; 3413/15; 890/06);

ed è proprio tale vizio che è riscontrabile nella motivazione in esame, non avendo il giudice del gravame esplicitato le ragioni sulla cui base ha ritenuto illegittima la pretesa;

nel percorso motivazionale relativo ai “costi non inerenti” il giudice ritiene illegittima la pretesa in quanto, “come risulta dai documenti in atti” l’importo recuperato non era stato “mandato a costo ma ad incremento del valore della partecipazione”, senza, tuttavia, specificare a quali documenti in particolare aveva ritenuto di fare riferimento e in cosa consisteva l’incremento del valore della partecipazione;

inoltre, con riferimento alla pretesa relativa alle differenze inventariali, oltre che non precisare quale fosse la merce non rinvenuta, l’argomento decisorio si fonda su di un non precisato superamento del limite normale di tolleranza, senza ulteriore specificazione;

sicchè, nonostante l’apparenza della decisione, risultano del tutto imprecisate e generiche le ragioni fondanti la considerazione finale della illegittimità della pretesa;

con riferimento, peraltro, alla questione del superamento dei limiti di tolleranza, va osservato che il sistema del regime di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, è articolato mediante disposizioni che operano come presunzioni iuris tantum, nel senso che, in deroga al principio fissato dall’art. 2697 c.c., secondo cui chi vuol far valere un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, deve solo provare il fatto indicato dalla norma (gli ammanchi di beni a seguito di riscontro fisico, ovvero le differenze quantitative tra consistenza delle rimanenze registrate e scritture obbligatorie di magazzino o documentazione obbligatoria), mentre è il contribuente che, dal canto suo, per superare le predette presunzioni, dovrà provare, secondo le modalità stabilite del D.P.R. n. 441 del 1997, artt. 2 e 3, che la giacenza o la mancata giacenza dipende dal verificarsi di fatti diversi dall’acquisto o dalla cessione;

tuttavia, ed in ciò si riscontra la genericità del riferimento del giudice del gravame sul punto, il limite di tolleranza non è, secondo il sistema interno, un principio generalizzato per tutte le merci, ma limitato ad ipotesi specifiche di volta in volta previste dal legislatore, quali cali naturali o tecnici, strettamente connessi con la particolare natura del bene di volta in volta preso in considerazione;

la pronuncia censurata, dunque, è viziata per violazione di legge nonchè per motivazione apparente;

l’accoglimento del primo e secondo motivo di ricorso comporta l’assorbimento del terzo, con il quale si è censurata la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 441 del 1997, artt. 1,2 e 4, per avere ritenuta non legittima la pretesa relativa alle differenze inventariali in quanto rientranti neri limiti di tolleranza;

in conclusione, il primo e secondo motivo di ricorso sono fondati, il terzo assorbito, con conseguente cassazione della sentenza e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il primo e secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata per i motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

 

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