Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24303 del 16/10/2017


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Cassazione civile, sez. II, 16/10/2017, (ud. 17/02/2017, dep.16/10/2017),  n. 24303

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 4538/14) proposto da:

D.L.G., quale titolare della ditta Record 89 in

(OMISSIS), rappresentato e difeso, in forza di procura speciale in

calce al ricorso, dall’avv. Alba Torrese del foro di Roma ed

elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via A.

Gramsci n. 34;

– ricorrente –

contro

L.E. e P. s.n.c. di D.Z.S.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Campobasso n. 349/2012

depositata il 31 dicembre 2012.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 17

febbraio 2017 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Iacoviello Francesco, che – in assenza del ricorrente

– ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato dinanzi al Tribunale di Larino – Sezione distaccata di Termoli D.L.G., quale titolare della ditta “Record 89”, chiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo nei confronti di L.E., titolare dello stabilimento balneare “Stella Marina”, per il pagamento della somma di Euro 14.300,40, oltre interessi e spese, relativa ai lavori ed alle forniture di cui alla fattura n. (OMISSIS) dell’1.3.2003.

Proponeva opposizione avverso il decreto, con atto di citazione notificato in data 30 giugno 2003, l’intimato sostenendo di non avere mai intrattenuto alcun rapporto commerciale con il preteso creditore, oltre ad avere concesso in locazione d’azienda alla P. s.n.c. il ramo ristorante-discoteca dello stabilimento balneare di cui si trattava da oltre un anno; chiedeva, pertanto, la revoca del decreto ingiuntivo opposto.

Con sentenza n. 161 del 6.11.2008, il giudice adito, svolte difese dall’opposto, nonchè dalla P. s.n.c. di D.Z.S., intervenuta volontariamente, rigettata l’opposizione, ritenendo, sulla base del materiale probatorio acquisito agli atti (interrogatorio formale del L., prova testimoniale e produzione documentale), che le prestazioni di cui alla fattura n. 3/2003 fossero state eseguite nel periodo settembre/dicembre del 2002 proprio su incarico del L..

In virtù di rituale appello interposto dal debitore, la Corte di appello di Campobasso, nella resistenza dell’appellato D.L., contumace la P. s.n.c. di D.Z.S., con sentenza del 31.12.2012, in accoglimento dell’appello, accoglieva l’opposizione a d.i. proposta dal L., sulla base, per quanto qui ancora rileva, delle considerazioni che lo stesso L., sin dalla citazione introduttiva del giudizio, aveva sostenuto che la fornitura oggetto del d.i. era stata a questi commissionata non da lui, ma da altri (irrilevante se dalla società P. o da tale B.V.), per cui sarebbe spettato al D.L., quale attore in senso sostanziale, l’onere di dimostrare in maniera rigorosa la sussistenza del credito nei confronti dell’appellante e siffatta prova non era stata sufficientemente raggiunta a seguito dell’istruttoria espletata in primo grado, non essendo a tal fine sufficiente la sola fattura, al cospetto della posizione processuale assunta dall’opponente di negazione di avere commissionato alcunchè al ricorrente.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il D.L., sulla base di quattro motivi. L.E. e la P. s.n.c. di D.Z.S., sebbene ritualmente intimati, non hanno svolto difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1 e art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 6, (con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4), per aver la corte d’appello adottato una motivazione non idonea a far emergere le ragioni che l’avrebbero indotta a pervenire alla decisione, difforme rispetto a quella del giudice di primo grado, di ritenere non provata la riferibilità della fattura n. 3/2003 a prestazioni svolte dal D.L. su specifico incarico del L..

Il motivo è privo di pregio.

La legge richiede espressamente che la sentenza contenga una “concisa esposizione” dei motivi in fatto ed in diritto (art. 132 c.p.c., comma 4, n. 4), essendo al riguardo necessario e sufficiente che nella motivazione del provvedimento risulti esplicitato, ancorchè sinteticamente, l'”iter” logico – giuridico seguito dal giudice per pervenire alla decisione (Cass. 22 gennaio 2004 n. 1025; conf. Cass. 11 luglio 2007 n. 15489).

Nel caso di specie, la motivazione fornita dal giudice del gravame risulta idonea e sufficiente, giusta la “concisa esposizione dei motivi” richiesta dall’art. 132 c.p.c., n. 4, essendovi prese in considerazione e comparativamente valutate le possibili implicazioni e soluzioni della questione controversa, riconoscendo nella fattura unilateralmente predisposta l’unico documento posto dal D.L. a fondamento del proprio credito, per cui – conformemente alla giurisprudenza – la corte locale ha individuato e rilevato il mancato assolvimento, da parte del medesimo appellato, quale attore in senso sostanziale, dell’onere di prova in maniera rigorosa (a fronte dell’avversa contestazione) della circostanza che il L. lo avesse incaricato della fornitura e posa in opera dei beni, onde la decisione adottata, che ne rappresenta la logica conseguenza, costituisce valido giudizio di fatto che, essendo rimesso all’esclusiva competenza di detto giudice, è insuscettibile di censura in sede di legittimità ove, come appunto nella specie, adeguatamente motivato.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 342 c.p.c. (con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per non aver la corte territoriale rilevato il difetto di specificità dei motivi di gravame proposti dal L. con l’atto di appello, nonostante si fosse limitato a produrre alcuni documenti, senza minimamente indicare come tale produzione documentale fosse idonea a superare l’accertamento svolto in primo grado.

Il motivo non può trovare ingresso.

Premesso che nella specie non è applicabile la formulazione dell’art. 342 c.p.c. nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. 0a) conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, destinato a trovare applicazione solo ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato ovvero di cui sia stata richiesta la notifica a far data dal 12 settembre 2012, deve in ogni caso affermarsi che la sentenza gravata è pervenuta ad una conclusione del tutto giustificata alla luce della norme in tema di requisiti dell’atto di appello, applicabili ratione temporis.

Se è vero che l’art. 342 c.p.c. richiede espressamente che i motivi dell’appello siano specifici, occorre chiarire che non vengono richieste nè l’indicazione espressa delle norme di diritto che sarebbero state violate, non ponendo la norma una regola corrispondente a quella contenuta nell’art. 366 c.p.c., n. 4, nè una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’impugnazione, in rigida e scolastica contrapposizione alle considerazioni contenute nella sentenza impugnata, purchè l’appello – e si tratta del rilievo decisivo – consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, identificando esattamente i punti da esaminare, ed alle controparti di poter svolgere senza alcun concreto pregiudizio la propria attività difensiva in relazione alle ragioni di fatto e di diritto per le quali era stato proposto gravame. Quindi, si deve affermare conclusivamente che il requisito della specificità può e deve ritenersi sussistente quando l’atto d’impugnazione, al di là della sommarietà dell’esposizione o dell’ineleganza della forma, consenta di individuare con certezza le statuizioni impugnate, nonchè le ragioni del gravame, secondo una verifica che va fatta in concreto, caso per caso.

Ed è quanto avvenuto nel caso di specie, in cui i giudici di seconde cure, come risulta dalla sentenza impugnata, hanno individuato con esattezza le ragioni di doglianza, chiarendo che con il secondo motivo, con il quale veniva dedotta la violazione dell’art. 2697 c.c. da parte del giudice di primo grado, stante la prospettazione da parte del L. dell’assenza di prova del conferimento dell’incarico in questione, l’appellato doveva dare rigorosa prova della esistenza del credito azionato in monitorio, non essendo all’uopo sufficiente la sola fattura (v. pag. 3 della sentenza).

Nè risulta che l’appellato, al di là della genericissima eccezione di nullità-inammissibilità dell’appello formulata, abbia poi, nel corso del giudizio, lamentato un concreto e specifico pregiudizio nello svolgimento della propria attività difensiva in relazione alle ragioni di fatto e di diritto poste a base del gravame. Da ciò, l’infondatezza della censura.

Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 342 c.p.c. (con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3), per non aver la corte locale considerato che era onere dell’appellante, quale che fosse stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale, fornire la dimostrazione delle censure alla sentenza di primo grado sollevate, onde superare la presunzione di legittimità che assisteva la pronuncia impugnata, non potendosi limitare a perseverare nella contestazione dei fatti allegati dalla controparte.

Anche detta censura è destituita di fondamento.

La premessa erronea dalla quale parte la difesa del ricorrente è la concezione del giudizio di appello quale iudicium novum, anzichè come revisio prioris instantiae, così come sposata dalla costante giurisprudenza di legittimità, concezione in relazione alla quale gioca, peraltro, un ruolo fondamentale il requisito della specificità del motivo di appello, dettato dall’art. 342 c.p.c..

In realtà, secondo la sentenza delle S.U. n. 28498 del 2005 e la giurisprudenza successiva, l’appellante è tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure, con la conseguenza che è onere dell’appellante, quale che sia stata la sua posizione processuale nella precedente fase, ripristinare in appello, se già prodotti in primo grado, i documenti sui quali egli basa il proprio gravame. Ciò non implica (contrariamente a quanto ritenuto in alcuni commenti dottrinali della sentenza a Sezioni Unite n. 28498 del 2005 cit.) una sorta di inversione dell’onere della prova nel giudizio di appello, nè una sorta di presunzione legale relativa circa l’esistenza dei fatti accertati in prime cure (Cass. 22 gennaio 2013 n. 1462). Infatti nel vigente sistema processualcivilistico esiste il principio di immanenza della prova, per cui le singole norme sull’onere della prova sono inserite in un sistema e possono essere correttamente intese solo se lette coerentemente all’ordinamento di cui fanno parte integrante e, tra i principi che caratterizzano il nostro sistema processuale, vi è, per comune riconoscimento, anche quello per cui un elemento probatorio, una volta introdotto nel processo, è definitivamente acquisito alla causa e non può più esserle sottratto. Ciò trova riscontro nella lettura delle risultanze istruttorie, che comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si siano formate, concorrono tutte alla formazione del convincimento del giudice (cfr. Cass. 19 aprile 2000 n. 5126; Cass. 2 febbraio 2001 n. 1505; Cass. 10 agosto 2004 n. 15408), dovendosi escludere che la dimostrazione dei fatti posti dalle parti a fondamento delle rispettive deduzioni debba essere ricavata solo dalle prove offerte da quella gravata del relativo onere probatorio secondo i principi dettati dall’art. 2697 c.c. (cfr. Cass. 16 giugno 1998 n. 5980; Cass. 3 ottobre 2000 n. 13068; Cass. 24 gennaio 2003 n. 1112).

Nella specie, pertanto, il giudice di appello, chiamato con i motivi di impugnazione a rivalutare se sussistesse o meno, tra le parti, un accordo in ordine alla fornitura in questione, ben poteva valorizzare, ai fini della decisione, elementi di prova e difese non presi in considerazione dal giudice di prime cure. Così facendo, la Corte territoriale non è incorsa nella violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., avendo posto a base della propria decisione emergenze processuali ritualmente acquisite, così come prescritto dalle menzionate norme di legge. Per tale ragione correttamente la corte territoriale ha ritenuto non assolto dall’appellato – attore in senso sostanziale – l’onere probatorio sull’esistenza del credito preteso.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 6, e la carenza assoluta di motivazione, per aver la corte d’appello, a suo dire, senza fornire alcuna motivazione, affermato che la prova dei fatti costitutivi del diritto da lui fatto valere non fosse stata raggiunta a seguito dell’istruttoria espletata n primo grado.

Anche quest’ultimo motivo deve essere disatteso.

In tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 20 giugno 2006 n. 14267).

Va, inoltre, aggiunto che, alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla sentenza in esame, l’omesso esame di elementi istruttori non integra più, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Un. 7 aprile 2014 n. 8053).

In definitiva, il ricorso va respinto.

Nessuna pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità, per non avere gli intimati svolto difese. Il Collegio dà atto che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

 

La Corte, rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2 Sezione Civile, il 17 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2017

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