Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2428 del 04/02/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 2428 Anno 2014
Presidente: MASSERA MAURIZIO
Relatore: FRASCA RAFFAELE

SENTENZA

sul ricorso 8922-2008 proposto da:
FONTANESI MARIA VITTORIA FNTMVT78R42G337A, SCHIANCHI
ROSSANA SCHRSN6OR46F082E, elettivamente domiciliate
in ROMA, V. A. BAIAMONTI 10, presso lo studio
dell’avvocato CALDORO MARIA FRANCESCA, rappresentate
e difese dall’avvocato DE MAIO CARLO giusta delega in
2013

atti;
– ricorrenti –

2400

contro

CARDINALI ANTONIO E C. SNC 01828200343, elettivamente
domiciliata in ROMA, V.LE PARIOLI 180, presso lo

1

Data pubblicazione: 04/02/2014

studio dell’avvocato BRASCHI FRANCESCO LUIGI, che la
rappresenta

e

difende

unitamente

all’avvocato

MAGHENZANI TAVERNA GIUSEPPE giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 783/2007 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 12/12/2013 dal Consigliere Dott. RAFFAELE
FRASCA;
udito l’Avvocato GIUSEPPE TAVERNA MAGHENZANI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ROSARIO GIOVANNI RUSSO che ha concluso
per l’inammissibilità e condanna alle spese (S.U.
5698/12);

2

di BOLOGNA, depositata il 28/06/2007, R.G.N. 421/06;

R.g.n. 8922-08 (ud. 12.12.2013)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

§1. Con sentenza del 28 giugno 2007 la Corte d’Appello di Bologna ha dichiarato
inammissibile l’appello proposto da Rossana Schianchi e Maria Vittoria Fontanesi avverso
la sentenza del 20 settembre 2005, con la quale il Tribunale di Parma aveva rigettato
l’opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., proposta dai predetti avverso il precetto loro
intimato il 28 maggio 2002 dalla s.n.c. Cardinali Antonio & C.

§1.1. L’inammissibilità dell’appello è stata dichiarata dalla Corte felsinea, nel
presupposto che, avendo l’art. 14 della 1. n. 52 del 2006 modificato l’art. 616 c.p.c. con
decorrenza dal 1° marzo 2006, introducendo la previsione della inimpugnabilità della
sentenza resa sul giudizio di opposizione all’esecuzione, l’esercizio del diritto di
impugnazione, in quanto avvenuto con atto notificato il 2 marzo 2006, secondo il principio

tempus regit actum risultava regolato dalla nuova norma e, quindi, la sentenza avrebbe
dovuto impugnarsi con il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111, settimo
comma, della Costituzione.
§2. Al ricorso, che propone un unico motivo, ha resistito con controricorso
l’intimata.
§3. La resistente ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

§1. Con l’unico complesso motivo si prospetta “omessa insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, nonché
violazione e falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento all’art. 615 c.p.c.,
all’art. 14 della Legge n. 52/2006, nonché degli articoli 616 c.p.c., vecchia e nuoa
formulazione, nonché ancora dell’art. 616 c.p.c., vecchia e nuova formulazione, nonché
ancora dell’art. 618 c.p.c., anche nella formulazione anteriore alla modifica di cui al’art. 15
della Legge n. 52/2006, ovvero ancora dell’art. 5 c.p.c. (nel testo anteriore a quello
introdotto dall’art. 2 della Legge N. 353/1993), del’art. 11 delle disposizioni sulla legge in
generale, ed inoltre agli artt. 360, 1° c., n. 4 c.p.c. nonché 360, 1° c., n. 3 e 5 c.p.c.”.
Vi si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto che, in base al principio tempus

regit actum ed a quello per cui le modifiche delle norme processuali trovano applicazione,
se non sia diversamente disposto, ai giudizi pendenti, essendo avvenuto quell’esercizio
riguardo alla sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Parma dopo l’entrata in vigore
3
Est. Con. Raffaele Frasca

R.g.n. 8922-08 (ud. 12.12.2013)

della modifica dell’art. 616 c.p.c disposta dall’art. 14 della 1. n. 52 del 2006, esso era
soggetto alla disciplina emergente dalla modifica.
§2. Il motivo è fondato sulla base della consolidata giurisprudenza di questa Corte
sull’esegesi del problema di diritto transitorio derivato dalla sostituzione dell’art. 616 c.p.c.
a suo tempo operata dall’art. 14 della 1. n. 52 del 2006.
La Corte bolognese è incorsa in un manifesto errore, là dove ha predicato la
soluzione del problema di diritto transitorio ch’Essa ha proposto nel dichiarato assunto di

voler applicare il principio tempus regit actum. Ha, infatti, applicato tale principio
incorrendo in un’erronea assunzione del suo presupposto, cioè assumendo come oggetto di
disciplina della norma dell’art. 616 c.p.c. nel testo introdotto dalla 1. n. 52 del 2006 il corso
del termine per impugnare la sentenza di primo grado anziché la sentenza come tale.
In tal modo, ha applicato quel principio come se la norma dell’art. 616 c.p.c. fosse
norma regolatrice di quel termine. Una simile applicazione sarebbe stata adeguata ad una
norma, ipoteticamente dettata dal legislatore del 2006 nel senso di prevedere l’esercizio del
termine per l’impugnazione delle sentenze ai sensi dell’art. 616 c.p.c. dovesse avvenire
considerandosi la sentenza inimpugnabile: in tal modo una simile norma, proiettandosi
verso l’avvenire, sarebbe stata idonea a regolare i diritti di impugnazione delle sentenze de

quibus sia insorti dopo la sua entrata in vigore, cioè dopo il 10 marzo 2006, sia quelli
pendenti a tale momento, cioè non ancora esercitati rispetto a sentenze già pubblicate o
pronunciate 8ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c.) prima.
Invece, la norma dell’art. 6161 come sostituita dall’art. 14 citata è norma che assume
come oggetto di disciplina la sentenza e, dunque, era idonea regolare solo, in ossequio al
principio che una legge nuova, salvo diversa disposizione provvede solo per l’avvenire, i
diritti di impugnazione insorti riguardo a sentenze pubblicate (o pronunciate nel senso
indicato) dopo la sua entrata in vigore.
§2.1. I problemi di diritto transitorio sono stati esaminati ampiamente, con
completamento dell’esame di tutti i profili agitatisi anche nella dottrina, da Cass. n. 3611
del 2011, resa da questa Sezione.
Essa si è così testualmente espressa nella parte di motivazione:
«§3.1. Va rilevato preliminarmente che questa Corte ha già più di una volta
espresso il principio di diritto per cui l’art. 616 c.p.c. nel testo sostituito dall’art. 14 della 1.
n. 52 del 2006 trova applicazione alle sentenze rese in primo grado a far tempo dal 10
marzo 2006. Ciò a far tempo da Cass. n. 24414 del 2008, la quale in motivazione così si
espresse per giustificare tale conclusione: <>.
Successivamente le stesse Sezioni Unite della Corte hanno condiviso tale principio:
si veda Cass. sez. un. n. 9940 del 2009.
Queste decisioni (come molte altre conformi) […] sono imperniate sul principio che
regola l’applicazione della legge processuale nel tempo in ossequio alla regola
generale dell’art. 11 delle preleggi, allorquando, naturalmente, si tratti di legge
regolatrice del processo in modo diverso o del tutto innovativo rispetto alla
regolamentazione precedente: l’efficacia della norma nuova, salvo diversa
disposizione del legislatore, regola anche gli atti di processi già in corso se tali atti
siano compiuti successivamente all’entrata in vigore della norma e ciò sia nel senso
che se si tratta di atti di parte debbono compiersi secondo quanto da essa preveduto,
sia nel senso — meramente consequenziale – che gli atti compiuti successivamente
all’entrata in vigore debbono essere valutati nella loro ritualità applicando la nuova
norma. Ne deriva la conseguenza che al contrario l’apprezzamento da parte del
giudice della ritualità di atti del processo compiuti anteriormente all’efficacia della
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Est. C s. Raffaele Frasca

R.g.n. 8922-08 (ud. 12.12.2013)

nuova norma dev’essere valutata in base alla norma previdente o, se una norma
previdente mancava, in base alla situazione normativa emergente da tale mancanza
(per un’applicazione di questi principi si veda Cass. n. 6099 del 2000).
Può dirsi anzi che la stessa regola espressa nell’art. 5 del c.p.c. per effetto della
riforma del processo civile di cui alla 1. n. 353 del 1990, secondo cui i mutamenti della
legge regolatrice della giurisdizione o della competenza sopravvenuti alla domanda
giudiziale sono indifferenti (salvo naturalmente diversa disposizione del legislatore) sulla

competenza e sulla giurisdizione, che restano apprezzabili in base alla legge vigente
all’atto della loro proposizione, sia nient’altro che una chiara espressione del principio

tempus regit actum e della regola dell’art. 11 citato applicata all’efficacia della legge
processuale. Onde, come non aveva mancato di rilevare un’antica ed autorevole dottrina, la
regola poi introdotta con detta modifica legislativa si poteva dire presente già
nell’ordinamento (ancorché, com’è noto, la giurisprudenza di questa Corte non fosse stata
di questo avviso ed ancorché, pur nella vigenza dell’attuale art. 5, la prospettiva appena
indicata circa il suo rilievo non appaia condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte, là
dove essa ha ritenuto compatibile con lo stesso art. 5 il principio della c.d. competenza
sopravvenuta: ma non è questa la sede per soffermarsi sulla questione).
§3.2. Il Collegio, con riferimento al primo profilo del motivo [n.d.r.: si trattava del

motivo in allora proposto] osserva che, peraltro in modo del tutto implicito e senza attività
dimostrativa, in esso si evoca un principio che una dottrina ha prospettato regolare la
successione delle leggi processuali nel tempo, proponendo che il tempus da prendere in
considerazione per l’operare della legge processuale nuova, che non detti espresse
disposizioni sull’oggetto della sua efficacia, non sia da individuare nell’atto del processo
che ricada temporalmente sotto l’ambito della norma processuale nuova, bensì nel processo
in cui quell’atto si inserisce. Con la conseguenza che la norma processuale nuova non
potrebbe trovare applicazione al processo pendente, sia pure riguardo ad atti del suo
svolgimento compiuti successivamente alla sua entrata in vigore.
La tesi, combattuta dalla maggioranza della dottrina, non appare, però, avere
fondamento nell’attuale diritto positivo, per come risultante con riferimento alla legge
regolatrice del processo dalle norme generali dell’art. 10 e 11 delle preleggi al codice civile
e dell’art. 73, primo comma, della Carta costituzionale. Fermo che quest’ultima non
contiene disposizioni diverse da quella dell’art. 11 citato quanto al principio che la legge
non dispone che per l’avvenire e che non ha effetto retroattivo (a differenza di quanto
accade per le norme penali: si veda l’art. 25 Cost.), si osserva che la tesi de qua, per poter
6
Est. Con Raffaele Frasca

R.g.n. 8922-08 (ud. 12.12.2013)

essere affermata esigerebbe che una metanorma (ulteriore rispetto all’art. 11 e che, dunque,
allo stato non c’è) prevedesse che l’efficacia della legge processuale non vada individuata
con riferimento a quanto la legge «dispone» (per come assume l’art. 11), bensì con
riguardo alla collocazione dell’oggetto del disporre in un processo già iniziato o non
ancora iniziato.
Ora, la legge processuale o meglio la singola norma di una legge in materia
processuale, non diversamente dalla norma di diritto sostanziale, assume come oggetto del

suo «disporre» direttamente la fattispecie concreta idonea ad essere sussunta sotto
l’ambito della fattispecie astratta che essa individua. Poiché la legge in materia processuale
regola il processo, che è una sequenza di atti (del giudice, delle parti e di terzi, che vi
assumano un ruolo ausiliario o altro ruolo previsto da specifiche norme), l’oggetto del
«disporre» della legge processuale, salvo i casi nei quali essa stessa l’assuma proprio in
un certo processo o in determinati processi (se del caso a far tempo da un certo atto relativo
al suo svolgimento), si riferisce ad uno o più degli atti attraverso i quali il processo può
avere corso. In questo caso, se la norma processuale «dispone» con riferimento ad un
certo atto o a certi atti, né l’art. 11, né alcun’altra norma, consentono di leggere l’oggetto di
tale «disporre» non già solo in tale modo, ma anche come se tale «disporre» possa
riguardare l’atto esclusivamente in quanto compiuto da chi o da coloro che lo devono
compiere nell’ambito di un processo non pendente. Il «disporre» della norma
processuale, infatti, è direttamente riferibile sia all’atto che verrà compiuto in un processo
iniziato ex novo, sia all’atto che verrà compiuto in un processo che sia già pendente.
La regola tempus regit processum è, dunque, priva di fondamento normativo e
suppone che il «disporre» della norma processuale, anche quando essa non sia diretta a
regolare il processo come tale o taluni processi come tali, sia individuato dando rilievo non
alla sola fattispecie astratta espressa risultante dalla norma processuale, bensì ad una sorta
di ulteriore fattispecie non scritta (e desumibile dalla stessa logica della norma
processuale), secondo cui <

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