Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24268 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. III, 03/11/2020, (ud. 01/07/2020, dep. 03/11/2020), n.24268

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. OLIVIERI Stefano – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22981/2018 proposto da:

Z.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GUGLIELMO

SALICETO, 4, presso lo studio dell’avvocato BARBARA RIZZO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO MERCOGLIANO;

– ricorrente –

contro

ZI.MA., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.

PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato STEFANO DI MEO,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO FUMAROLA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 818/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 09/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/07/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., Zi.Ma. adiva il Tribunale di Bari per ottenere – per quanto qui interessa -, previa dichiarazione di risoluzione di due contratti racchiusi rispettivamente in due scritture private, rispettivamente del 19 giugno 2008 e 21 dicembre 2009, la condanna di Z.C. a pagargli la somma di Euro 89.000 oltre accessori.

Il convenuto si costituiva resistendo e, in via riconvenzionale, chiedeva di dichiarare la risoluzione dei due contratti, di dichiarare il suo diritto a partecipare ad utili nella misura del 30% e al pagamento di fatture – nn. (OMISSIS) -, di dichiarare per l’effetto il suo credito nei confronti del ricorrente nella misura di Euro 141.850,30 o nella diversa somma di giustizia, di accertare la responsabilità extracontrattuale di controparte e quindi di dichiarare il proprio credito al risarcimento di danno nella misura di Euro 164.850, e infine di condannare lo Zi. a corrispondergli il residuo dovuto di Euro 217.708,30, oltre accessori.

Il Tribunale, con ordinanza del 10 gennaio 2013, accoglieva la domanda principale attorea, dichiarava la risoluzione dei due contratti e condannava il convenuto a pagare Euro 89.000 oltre interessi al ricorrente; separava le domande riconvenzionali del convenuto, trattenendole davanti a sè tranne una rimessa al giudice del lavoro.

Lo Z. proponeva appello, cui controparte resisteva e che la Corte d’appello di Bari rigettava con sentenza del 9 maggio 2018.

Lo Z. ha proposto ricorso, articolato in quattro motivi, da cui si è difeso con controricorso lo Zi..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione o falsa applicazione degli artt. 3,24,111 Cost., art. 702 ter c.p.c., comma 3 e art. 40 c.p.c., rubricata come error in procedendo.

Il giudice d’appello avrebbe travisato il primo motivo del gravame, ritenendo che lamentasse la violazione del diritto di difesa per mancato accoglimento dell’eccezione di compensazione. Invero “il motivo per cui si è ritenuto che il capo 1 dell’impugnata sentenza sia gravemente lesivo del diritto di difesa” consisterebbe nel denunciare che il primo giudice “non abbia, ritenuto di dover trattare e decidere la causa unitariamente”, nonostante le domande riconvenzionali e l’eccezione di compensazione proposte dall’attuale ricorrente. Dichiarando risolti i contratti e condannando lo Z. a pagare a controparte Euro 89.000, “il Giudice di prime cure” non avrebbe tenuto conto delle difese dell’attuale ricorrente, il quale, pur non contestando di aver ricevuto dallo Zi. per tali contratti la somma di Euro 89.000, “ha tuttavia contestato l’esistenza di qualunque credito in capo a quest’ultimo, eccependo l’estinzione di detto credito per avvenuta compensazione con propri controcrediti”. Si riporta un passo della comparsa di risposta di primo grado, insistendo che “il Giudice di prime cure” avrebbe “ignorato le difese” dell’attuale ricorrente, e si argomenta sul rispetto, nel rito sommario, degli artt. 3 e 111 Cost., che sarebbero stati violati “nel capo 1 dell’impugnata sentenza di primo grado”, sostenendo che, “contrariamente” a quanto affermato dalla corte territoriale, il primo giudice non avrebbe rigettato, bensì ignorato l’eccezione di compensazione, violando anche l’art. 702 ter c.p.c., comma 3, perchè, “avendo ritenuto che le domande riconvenzionali… necessitassero di un’istruzione non sommaria”, avrebbe dovuto passare al rito ordinario.

Nel caso in esame tra domanda principale e domande riconvenzionali sussisterebbe una “connessione forte”, la quale ex art. 40 c.p.c., avrebbe dovuto “implicare la trattazione unitaria della causa, per evidenti ragioni di opportunità giuridica”; ed era “precipuo dovere” del Tribunale accertare se la trattazione disgiunta di dette domande potesse arrecare un contrasto di giudicati: “è lampante come l’ordinanza appellata sia potenzialmente in grado di creare un contrasto di giudicati”. Pertanto sussisterebbe “un classico caso di sospensione necessaria” ex art. 295 c.p.c., incompatibile con il rito sommario, onde “il Giudice di prime cure avrebbe dovuto trattare sia la domanda principale che quelle riconvenzionali”. La discrezionalità del giudice in ordine alla separazione delle domande riconvenzionali verrebbe meno infatti qualora siano pregiudiziali, in tal caso sussistendo obbligo di trattamento unitario. Dunque il Tribunale e la Corte d’appello avrebbero dovuto affermare che le domande riconvenzionali erano pregiudiziali e perciò disporre una trattazione unitaria. La corte territoriale avrebbe pertanto travisato il motivo d’appello, ritenendo che riguardasse il mancato accoglimento dell’eccezione di compensazione.

Richiamate due dichiarazioni di controparte – la prima sarebbe tratta dalle note di replica del primo grado, e la seconda dall’all. 21 prodotto dallo Z. unitamente alle note di replica” in primo grado – si adduce poi che sarebbe “documentalmente provato in atti” che in primo grado lo Zi. avrebbe affermato di aver occupato parte di un immobile di proprietà dell’attuale ricorrente e di “averne avuto diritto” per il suo esborso di Euro 89.000: allora, “se così fosse” lo Zi., nonostante la risoluzione dei contratti, “non avrebbe avuto diritto alla restituzione” di tale somma, “versata, a suo dire, per poter avere il diritto di occupare una porzione di immobile”. Perciò il Tribunale avrebbe omesso di tenere in conto un fatto discusso e decisivo, “che sicuramente sarebbe emerso qualora la trattazione della causa fosse stata unitaria”. Dunque, il “capo 1 dell’ordinanza appellata” sarebbe “errato, immotivato, contrario a legge, gravemente lesivo del diritto di difesa dell’odierno ricorrente, potenzialmente idoneo a creare un contrasto di giudicati”; e ancora, il “capo 1 dell’impugnata ordinanza” sarebbe nullo per violazione del diritto di difesa e del contraddittorio e per non avere il Tribunale, “in presenza di pregiudiziali e di connessione forte, disposto la trattazione unitaria” ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c., comma 3. La corte territoriale avrebbe dovuto “verificare la veridicità giuridica” di quanto sin qui esposto, ma avrebbe invece travisato il motivo del gravame.

1.2 Il motivo è inammissibile per carenza di autosufficienza giacchè non riporta (e non lo si rinviene neppure nella premessa del ricorso, dove non si riportano i motivi d’appello: ricorso, pagina 5) il contenuto del motivo d’appello che la corte territoriale avrebbe “travisato”. E tale nammissibilità per difetto di autosufficienza ovviamente tutto assorbe.

Ad abundantiam meramente si nota comunque che la censura in genere argomenta come se oggetto della impugnazione fosse l’ordinanza di primo grado, inserendo solo qualche sintetico cenno relativo al giudice d’appello. Il riferimento che si rinviene nella parte finale relativo ad una pretesa prova documentale che sarebbe in atti – si nota ancora ad abundantiam – integra inoltre una inammissibile valutazione sul raggiungimento della prova che costituisce radice di ogni susseguente rilievo, per cui non è correttamente riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che vi si invoca.

2.1 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., rubricata come error in procedendo.

Nell’atto d’appello non si sarebbe mai lamentata la mancata sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., del giudizio di primo grado. La corte territoriale, pertanto, si sarebbe pronunciata su un motivo d’appello “mai proposto”, così incorrendo nell’ultrapetizione e violando quindi l’art. 112 c.p.c..

Infatti “nel proprio atto di citazione in appello” l’attuale ricorrente avrebbe affermato che l’art. 295 c.p.c., non è applicabile al rito sommario; e non si sarebbe mai chiesta la riforma dell’ordinanza del Tribunale laddove non ha concesso la sospensione ex art. 295 c.p.c.. Detta norma sarebbe stata invocata soltanto nel secondo grado, “rimettendosi alla discrezionalità del Giudice” d’appello. La sentenza pertanto sarebbe nulla perchè si sarebbe pronunciata su un motivo d’appello inesistente.

2.2 Anche in questa censura ricorre il difetto di autosufficienza constatato per quella precedente: non è stato indicato nella premessa il contenuto dei motivi d’appello, il quale non viene riportato neppure successivamente, in questa censura rinvenendosi soltanto la generica affermazione che “nel proprio atto di citazione in appello” si troverebbe il rilievo dell’attuale ricorrente della non applicabilità dell’art. 295 c.p.c., al rito sommario. Il che conduce all’inammissibilità come rinvenuta già nel primo motivo.

D’altronde, sussiste pure un evidente difetto di interesse del motivo, poichè il giudice d’appello non ha ritenuto applicabile l’art. 295 c.p.c., onde il motivo “inesistente” su cui si sarebbe pronunciato violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non avrebbe avuto alcuna incidenza sulla vicenda processuale.

3.1 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 1243 c.c., comma 2, ancora qualificandola come error in procedendo.

In appello l’attuale ricorrente non avrebbe lamentato la mancata sospensione della condanna al credito liquido ex art. 1243 c.c., comma 2, “come asserito dal Giudice del gravame”, bensì, “come si evince chiaramente dalla rubrica del III motivo di appello”, avrebbe chiesto che “venisse rilevata la nullità dell’ordinanza impugnata per omessa pronuncia su una delle domande proposte” dall’attuale ricorrente, il quale, nelle “note difensive di replica autorizzate”, avrebbe “in subordine”, nella denegata ipotesi che fossero separate le “sole domande riconvenzionali”, in caso d’accoglimento della domanda principale chiesto ai sensi dell’art. 1243 c.c., comma 2, “sospendersi la condanna del credito fino all’accertamento dei crediti posti in compensazione”; domanda “ritualmente proposta” perchè “formulata in conseguenza della richiesta di controparte di separazione delle sole domande riconvenzionali”. Come domanda di sospensione sarebbe stata proponibile in ogni stato e grado; peraltro il giudice potrebbe applicare la sospensione anche d’ufficio.

Il giudice d’appello, ad avviso del ricorrente, “erra nell’individuare il motivo di appello” e nell’applicare l’art. 1243 c.c., comma 2, riguardante due fattispecie: la compensazione giudiziale e la sospensione della condanna. In primo grado l’attuale ricorrente aveva chiesto la sospensione della condanna, ma il giudice d’appello avrebbe ritenuto che “la domanda riguardasse per contro la compensazione giudiziale”.

Quindi l’ordinanza di primo grado sarebbe nulla per omessa pronuncia; la domanda ai sensi dell’art. 1243 c.c., comma 2, sarebbe “stata ulteriormente proposta anche in fase di gravame”, eppure il giudice d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi al riguardo, violando l’art. 112 c.p.c., per cui la sentenza d’appello sarebbe nulla.

3.2 La censura che costituisce questo motivo in effetti integra due submotivi distinti: in primis, l’asserito errore della corte territoriale nell’individuare il contenuto del motivo d’appello; e in secondo luogo, l’asserito errore della corte territoriale rappresentato dal non aver accolto la domanda rivoltale ex art. 1243 c.c., comma 2.

Quanto alla prima doglianza, allora, si deve rilevare che patisce un evidente difetto di autosufficienza, perchè non viene riportato il relativo motivo d’appello; inoltre – si nota ad abundantiam – non se ne individua l’interesse, in quanto il ricorrente stesso afferma di avere proposto identica richiesta anche al giudice d’appello, potendola proporre in ogni stato e grado.

Quanto alla seconda doglianza, anch’essa patisce difetto di autosufficienza – non si può attingere per integrare il ricorso dalle conclusioni riportate nella sentenza, a pagina 2, dovendo ovviamente il ricorso essere autonomo nel suo contenuto -.

Ancora ad abundantiam, si osserva che la doglianza, se fosse ammissibile, sarebbe comunque infondata perchè non sussiste omissione di pronuncia, dal momento che il giudice d’appello comunque si esprime sulla questione – non rilevando, ovviamente, che la intenda come motivo d’appello o come istanza sottoposta direttamente a se stesso – e lo fa negando che sussistano i presupposti per la sospensione (motivazione della sentenza impugnata, pagina 8).

4.1 Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.M. n. 140 del 2012.

Il decreto ministeriale suddetto sarebbe stato violato dal giudice di prime cure affermando l’applicazione dei “compensi minimi in relazione alla scarsa complessità delle questioni”; ciò avrebbe dovuto portare all’importo totale di Euro 1450, “essendo liquidabili la sola fase di studio e quella introduttiva, posto che nel caso di specie non è stata esplicata nessuna delle attività attinenti alla fase istruttoria e a quella decisoria”. Pertanto il capo 1 dell’ordinanza del Tribunale sarebbe “totalmente in contrasto con quanto è dato leggere nelle motivazioni”.

Peraltro il primo giudice non avrebbe tenuto in conto la parziale soccombenza dello Zi., del quale al capo 2 avrebbe in effetti rigettato ogni ulteriore domanda, soccombenza che gli avrebbe “dovuto suggerire” di condannare l’attuale ricorrente a rifondere “solo una percentuale” delle spese di causa.

Quindi il giudice d’appello avrebbe errato nel ritenere le spese correttamente liquidate secondo i valori medi perchè lo stesso Tribunale avrebbe dichiarato di aver applicato quelli minimi, e non vi sarebbe stato “nessun atto rientrante nella fase decisoria, non essendo state svolte difese orali o scritte anche in replica”, nè essendovi stata “l’assistenza alla discussione orale delle altre parti, in Camera di consiglio o pubblica udienza”.

4.2 Anche questo motivo, come i precedenti, patisce difetto di autosufficienza perchè nulla riporta a proposito del contenuto del motivo d’appello relativo alle spese processuali.

Ancora meramente ad abundantiam, poi, si nota che è incomprensibile affermare, essendo il giudizio di primo grado pervenuto alla decisione, che non si sarebbe dovuto rifondere alcunchè di spese processuali per la fase decisoria.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo e distratte al difensore del controricorrente, avv. Fumarola.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 7300, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge, con distrazione al difensore del controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 1 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

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