Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24266 del 29/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 29/11/2016, (ud. 22/09/2016, dep. 29/11/2016), n.24266

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21765-2011 proposto da:

ASL/(OMISSIS) BASSO MOLISE – GESTIONE LIQUIDATORIA, P.I. (OMISSIS),

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, BORGO ANGELICO 6, presso lo studio

dell’avvocato VINCENZA CASALE, rappresentata e difesa dall’avvocato

ENRICO BRUNO DI SIENA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.R., C.F. (OMISSIS), + ALTRI OMESSI

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 378/2010 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 24/12/2010 r.g.n. 132/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/09/2016 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito l’Avvocato CASALE VINCENZA per delega Avvocato DI SIENA ENRICO

BRUNO;

udito l’Avvocato GATTA VINCENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte di appello di Campobasso, con sentenza n. 4999/2011, seguita da ordinanza di correzione di errore materiale in data 8 aprile 2011, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda proposta dagli odierni controricorrenti, tutti dipendenti della Asl n. (OMISSIS) Basso Molise, diretta ad ottenere il pagamento delle differenze retributive tra il trattamento percepito e quanto spettante per le mansioni di infermiere professionale svolte nei periodi dettagliati in sentenza.

2. Osservava la Corte territoriale che il D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, aveva soppresso, con efficacia retroattiva, il divieto di corresponsione del trattamento corrispondente alla mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, di talchè rilevava l’esercizio di fatto di mansioni superiori, anche se svolte in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 165 del 2001. Osservava altresì che i testi avevano confermato che gli appellanti svolsero, nel periodo dedotto in giudizio, con continuità di tempo, le medesime mansioni degli infermieri professionali.

3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la ASL n. (OMISSIS) Basso Molise sulla base di due articolati motivi. Resistono i lavoratori con controricorso, seguito da memoria e art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, articolato in due distinte proposizioni, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 e dell’art. 52 D.Lgs. n. 165 del 2001 e del D.P.R. n. 384 del 1990. Si assume che il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni superiori richiede un formale provvedimento di assegnazione, che nella specie era mancato. Neppure sarebbe condivisibile l’assunto secondo cui le differenze di trattamento retributivo spettano anche nel caso in cui l’assegnazione alle mansioni superiori sia nulla.

2. Con il secondo motivo si denuncia vizio di motivazione e travisamento della prova in violazione dell’art. 116 c.p.c.. Si assume che “da una attenta disamina delle dichiarazioni dei numerosi testi escussi…si evince ictu oculi che le stesse, a differenza di quanto deduce la Corte territoriale, non provano la prevalenza delle mansioni svolte”.

4. Il primo motivo è infondato per le considerazioni che seguono.

5. Il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, pur nelle varie formulazioni susseguitesi nel tempo, recependo una costante norma del pubblico impiego, esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore. Quanto invece al divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, previsto dall’indicato art. 56, comma 6 nella sua originaria formulazione (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29), trattasi di disposizione soppressa dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva; la portata retroattiva della disposizione risulta conforme alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonchè alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 91/2004, 18286/2006; 9130/2007; da ultimo, Cass. n. 12193/2011).

5.1. Occorre pure rilevare che il comma 5 qualifica come nulla l’assegnazione alle mansioni superiori al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, ma riconosce al lavoratore il diritto al trattamento economico della qualifica superiore, salva l’eventuale responsabilità per il relativo onere economico del dirigente che abbia disposto l’assegnazione, in caso di dolo o colpa grave.

5.2. A seguito di S.U. n. 25837/2007, questa Corte ha costantemente affermato che lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica – anche non immediatamente superiore a quella di inquadramento formale comporta in ogni caso, in forza del disposto del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 5, il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore (tra le più recenti, Cass. n. 18808/2013; v. pure Cass. n. 796/2014).

5.3. Nè portata applicativa del principio è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorchè nullo (cfr. Cass. n. 27887 del 2009, che richiama Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cit.). La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l’applicabilità anche al pubblico impiego dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell’art. 2126 c.c., l’eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003).

5.4. Neppure vale a contrastare tale principiò la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del diritto ad un’equa retribuzione ex art. 36 Cost. al lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l’accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perchè “il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione dell’organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la rilevanza costituzionale” (in tal senso, S.U., sent. n. 25837 del 2007, cit.).

5.5. Il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è dunque condizionato all’esistenza, nè alla legittimità di un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l’assegnazione. Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente (cfr. Cass. n. 27887 del 2009, v. pure Cass. 796 del 2014).

5.6. La Corte costituzionale ha osservato (n. 101 del 1995) che il potere attribuito al dirigente preposto all’organizzazione del lavoro di trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni superiori per esigenze straordinarie di servizio è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento dell’amministrazione. Se fosse dimostrato che nel caso concreto l’assegnazione del dipendente a mansioni superiori è avvenuta con abuso d’ufficio e con la “connivenza” del dipendente, lo stesso art. 2126 cod. civ. imporrebbe al giudice di respingere la pretesa di quest’ultimo. E’ stato così superato il rilievo, del giudice remittente, secondo cui questi limiti non basterebbero ad evitare che l’art. 2126 cod. civ., per il tramite dell’art. 2129, diventi nel pubblico impiego fonte di abusi e di favoritismi nella forma di avanzamenti di carriera di fatto, prestandosi “ad essere strumentalizzato quale grimaldello per stabilire e/o indurre connivenze tra chi ha il potere di mantenere l’assegnazione di fatto del dipendente a mansioni superiori, con tutti i conseguenti vantaggi economici, e quest’ultimo”. Il Giudice delle leggi, nel respingere tale rilievo di incostituzionalità dell’art. 2129 cod. civ., nella parte in cui prevede l’applicabilità dell’art. 2126 nel settore del pubblico impiego, ha fornito una chiara indicazione interpretativa, mettendo in rilievo come l’art. 2126 cod. civ., insieme con l’art. 2103 cod.civ., costituisca “un’applicazione ante litteram del principio, sancito dall’art. 36 Cost., che attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, indipendentemente dalla validità del contratto di assunzione o, rispettivamente, del provvedimento di assegnazione a mansioni superiori a quelle di assunzione, esclusi i casi di nullità per illiceità dell’oggetto o della causa” (sent. n. 101 del 1995, cit.).

5.7. Neppure in caso di assegnazione di un sanitario alle mansioni superiori in mancanza di un provvedimento formale di incarico è stata esclusa l’operatività dell’art. 2126 c.c. (v. Corte costituzionale sent. n. 57 del 1989). Difatti, non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”, e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2). L’illiceità che, ai sensi dell’art. 2126 c.c., comma 1, priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto di lavoro non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento. Deve trattarsi, cioè, dell’illiceità in senso forte (illiceità della causa) prevista dall’art. 1343 cod. civ., non semplicemente dell’illegalità che invalida il negozio o l’atto costitutivo del rapporto a norma dell’art. 1418 c.c., comma 1, (C.Cost. n. 296 del 1990).

5.8. In conclusione, il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è condizionato all’esistenza, nè alla legittimità di un provvedimento del superiore gerarchico, salva l’eventuale responsabilità del dirigente che abbia disposto l’assegnazione con dolo o colpa grave. Il diritto trova un limite nei casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente o comunque in tutti i casi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento.

5.9. Nessun profilo di illiceità risulta essere stato prospettato in giudizio con riferimento alla particolare fattispecie. Nè risulta allegato da parte convenuta che l’espletamento di mansioni superiori avvenne all’insaputa o contro la volontà dell’Azienda (invito o proibente domino). La ASL si è invero limitata a rimarcare il difetto dei presupposti di legittimità dell’assegnazione di cui al D.P.R. n. 384 del 1990, artt. 55 e 121: a) vacanza di posti in pianta organica; b) indizione di una procedura per la relativa copertura; c) provvedimento di conferimento delle mansioni superiori per la copertura provvisoria dei posti vacanti. Nessuno di tali elementi osta, per le ragioni illustrate in precedenza, al riconoscimento ex artt. 2126 e 2129 c.c. del trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto svolte dagli odierni controricorrenti.

6. Il secondo motivo è inammissibile, poichè nel ricorso per cassazione non sono trascritte le deposizioni testimoniali su cui si incentra la doglianza, nè è precisato il fatto decisivo sul quale la motivazione sarebbe mancata o sarebbe insufficiente o illogica.

6.1. Qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove testimoniali, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare i punti ritenuti decisivi, risolvendosi, altrimenti, il dedotto vizio di motivazione in una inammissibile richiesta di riesame del contenuto delle deposizioni testimoniali e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione è mancata ovvero è stata insufficiente o illogica (Cass. n. 6023 del 2009, 17915 del 2010, 13677 del 2012, 21632 del 2013, n. 48 del 2014; principio elaborato con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134).

7. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ASL ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 22 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2016

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