Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24265 del 09/09/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/09/2021, (ud. 29/04/2021, dep. 09/09/2021), n.24265

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28648/2019 R.G. proposto da:

STANLEYBET MALTA LIMITED in persona del suo legale rappresentante pro

tempore rappresentata e difesa giusta delega in atti dall’avv.

Daniela Agnello e con domicilio eletto in Roma presso lo studio

dell’avv. Roberta Feliziani in via Crescenzio n. 69;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio

n. 1152/18/19 depositata il 26/02/2019, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

29/04/2021 dal Consigliere Roberto Succio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza impugnata la CTR accoglieva l’appello della società contribuente limitatamente alle sanzioni e pertanto nel resto confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarata la legittimità dell’atto impugnato, avviso di accertamento relativo al mancato assolvimento dell’imposta unica su concorsi pronostici, oltre a sanzioni ed interessi, per operazioni svoltesi nell’anno 2010;

– ricorre a questa Corte STANLEYBET MALTA con atto affidato a complessivi sei motivi, dei quali due in via preliminare e quattro denominati di merito; resiste con controricorso l’Amministrazione Finanziaria; entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– preliminarmente, ritiene la Corte che l’istanza pregiudiziale di trattazione della causa in pubblica udienza proposta dalla società ricorrente con memoria depositata il 30 marzo 2021 vada disattesa;

– in adesione all’indirizzo espresso dalle sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass., sez. un., 5 giugno 2018, n. 14437), e allorquando non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass., sez. un., 23 aprile 2020, n. 8093). In particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sé, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo;

– nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti da un lato dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e dall’altro da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa giustappunto alla Stanleybet Malta Limited); e i principi da quelle Corte stabiliti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito, oltre che recentemente applicati anche in questo giudizio di Legittimità, come si dirà nel prosieguo. Così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass.. 20 novembre 2020, n. 26480);

– altrettanto preliminarmente, va parimenti disattesa la successiva istanza di sospensione del giudizio ex art. 267 TFUE, comma 2, e rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea formulata in esordio del ricorso, ancora in via pregiudiziale, e ribadita in memoria depositata il 16 aprile 2021; il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti da un lato sia dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) sia proprio da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa giustappunto alla medesima società contribuente, Stanleybet Malta Limited); i principi da quelle Corte stabiliti risultano inoltre ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito. Così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere adeguata anche la decisione in sede di procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480);

– con il motivo preliminare di ricorso sub. n. 1 (con inizio a pag. 19 del ricorso per cassazione) si denuncia l’errata valutazione dei principi sanciti dalla Corte costituzionale coni la sentenza n. 27 del 2018, la cui pronuncia di incostituzionalità avrebbe effetto anche sull’atto qui impugnato relativo al periodo d’imposta 2010; tale motivo si incentra sulla determinazione degli aspetti costitutivi del tributo e va quindi esaminato unitamente al primo, al secondo e al terzo motivo di ricorso denominati da parte ricorrente “di merito”;

– il motivo preliminare successivo, rubricato sub. n. 2, (con inizio a pag. 23 del ricorso per cassazione) denuncia la nullità della sentenza per error in procedendo e omessa pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c., con riguardo alla violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non avere la CTR ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento in quanto non tradotto, nella copia notificata alla ricorrente, in lingua inglese;

– il motivo è infondato;

– infatti, risulta dalla sentenza impugnata come parte ricorrente, ancorché soggetto non residente privo di stabile organizzazione in Italia (per quanto nulla si dica in atto in ordine alla conoscenza o meno della lingua italiana da parte dei propri amministratori, circostanza che andava quantomeno dedotta dal contribuente), abbia in concreto nei gradi del merito svolte le sue articolate e valorose difese, contestando la pretesa tributaria azionata con l’atto impugnato;

– con ciò, parte ricorrente ha dimostrato di avere adeguatamente compreso le ragioni di fatto e di diritto poste alla base dell’atto impugnato, le cui motivazioni sono state prima comprese e poi contestate di fronte ai precedenti giudici;

– questa Corte, in argomento, ha già ritenuto in fattispecie analoga il cui principio trova applicazione anche nel caso per cui è processo (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26407 del 19/10/2018) che il vizio dell’atto impositivo emesso in lingua italiana nei confronti di soggetto appartenente alla minoranza linguistica tedesca privo dell’informazione sul diritto di sollevare eccezione di nullità per la mancata traduzione ai sensi del D.P.R. n. 574 del 1988, art. 8, è in concreto sanato ove il destinatario abbia comunque promosso, in sede amministrativa o giurisdizionale, un procedimento volto alla difesa dei propri diritti;

– il motivo seguente, rubricato come primo motivo “nel merito” (pag. 25 del ricorso) si incentra sulla nullità della sentenza per errore in procedendo e per omessa pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c., con riguardo alla violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla Legge distabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), in relazione con art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente identificato il soggetto passivo del tributo;

– il secondo motivo, sempre rubricato “di merito” (pag. 41 del ricorso) denuncia la nullità della sentenza per errore in procedendo e omessa pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c., con riguardo alla violazione e falsa applicazione della L. n. 288 del 1998, art. 1 comma 2, lett. b), e degli artt. 1326, 1327 e 1336 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR errato nel ravvisare in capo al bookmaker il presupposto territoriale del tributo;

– il terzo motivo (pag. 45 del ricorso) denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 49 e 56 TFUE, e dei principi del diritto dell’Unione Europea di parità di trattamento e non discriminazione, con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, nonché la violazione del principio di legittimo affidamento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la CTR disapplicato il D.Lgs. n. 540 del 1998, art. 3;

– i ridetti motivi possono trattarsi congiuntamente tra loro e, come si è detto, altrettanto congiuntamente con il primo motivo “preliminare” (con inizio a pag. 19 dell’atto di parte ricorrente) in quanto tra di loro connessi dal direzionarsi tutti a colpire la ricostruzione operata dalla CTR riguardo il presupposto e il soggetto passivo del tributo;

– detti quattro motivi sono tutti infondati;

– questa Corte, peraltro, si è già espressa nel senso appena indicato con svariate pronunce (ex pluribus Cass. n. 8757/2021; n. 9144/2021; n. 9530/2021);

– il quadro normativo rilevante è stato sottoposto all’esame e della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso; il che esclude la necessità della trattazione relativa in pubblica udienza, poiché non residuano profili di particolare rilevanza. Quanto all’ambito soggettivo dell’imposta, affrontato dal primo motivo di merito del ricorso, la Corte costituzionale ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore con la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, da un canto ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio e, d’altro canto, ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti per conto di bookmakers privi di concessione al versamento del tributo e delle relative sanzioni. A questo riguardo ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole. Entrambi i soggetti, difatti, ha sottolineato quella Corte, partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, ha rimarcato, il titolare della ricevitoria, benché non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perché assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonché del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker. Sicché, ha specificato, l’attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione va riferita alla raccolta delle scommesse, il volume delle quali determina anche la provvigione della ricevitoria e per conseguenza il suo stesso rischio imprenditoriale. Ne’, ha aggiunto la Corte costituzionale, la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione viola il principio di capacità contributiva, nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato. Ciò perché attraverso la regolazione delle commissioni il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera. La rivalsa svolge funzione applicativa del principio di capacità contributiva, poiché redistribuisce tra i coobbligati, bookmaker e ricevitoria, che hanno comunque concorso, sia pure in vario modo, alla realizzazione del presupposto impositivo, il carico fiscale in relazione alla partecipazione di ognuno a tale realizzazione. In ogni caso, poi, della sussistenza (evidente in questo caso) di autonomi rapporti obbligatori – che ai fini tributari sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente – non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte, la quale, sia pure con riguardo al gioco del lotto, ha chiarito, appunto, che sono due i rapporti obbligatori, quello concluso tra lo scommettitore e il raccoglitore e quello che si instaura tra lo scommettitore ed il gestore (Cass. 27 luglio 2015, n. 15731). Per conseguenza la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), nella sola parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta precedenti al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione. In quel periodo non si può difatti procedere alla traslazione dell’imposta, perché l’entità delle commissioni già pattuite fra ricevitorie e bookmaker si era già cristallizzata sulla base del quadro precedente alla L. n. 220 del 2010 (Corte Cost. 23 gennaio 2018, n. 27). Quella Corte ha anche chiarito (punto 4.5) che, in mancanza di regolazione degli effetti transitori e in considerazione della natura interpretativa della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), la disposizione va applicata anche ai rapporti negoziali perfezionatisi prima della sua entrata in vigore. Ne consegue anzitutto che per le annualità d’imposta antecedenti al 2011 non rispondono le ricevitorie, ma rispondono i bookmaker, con o senza concessione; inoltre, che l’incostituzionalità è destinata a investire, quanto alle ricevitorie, anche i rapporti in essere nel 2011, se risalenti ad epoca precedente, nei limiti in cui non consentono la traslazione dell’imposta. La censura complessiva si rivela quindi fondata esclusivamente in relazione alle annua lità d’imposta precedenti al 2011, nonché ai rapporti in essere nel 2011, perché risalenti ad epoca precedente, che non consentano la traslazione dell’imposta, ma in relazione soltanto alla posizione – qui non oggetto di ricorso – del CTD. Per il resto, ossia per tutti i periodi d’imposta quanto al bookmaker e, in relazione al ricevitore, per i periodi d’imposta successivi, o anche per il 2011 qualora il rapporto negoziale tra Stanleybet Malta Limited e centro di trasmissione dati consenta la traslazione dell’imposta, la censura è infondata;

– attenzione specifica va poi rivolta agli argomenti difensivi prospettati in ricorso ed ulteriormente approfonditi in sede di memoria, relativi alle ritenute frizioni con il diritto unionale; in particolare, la ricorrente ha prospettato la violazione del diritto di non discriminazione, di parità di trattamento e del principio di non affidamento;

– in memoria, inoltre, il profilo centrale della linea difensiva seguita si fonda, in sostanza sul riconoscimento della liceità dell’attività svolta nel tempo dalla ricorrente, come riconosciuta dalla giurisprudenza penale di questa Corte il che, secondo l’assunto di parte ricorrente, comporterebbe effetti anche sul piano strettamente fiscale e, inoltre, dovrebbe indurre a ritenere che la Corte di giustizia, con la pronuncia del 26 febbraio 2020, non avrebbe preso in considerazione la specificità della “peculiare posizione” nella quale la ricorrente si sarebbe venuta a trovare basata sulla illegittima ed originaria discriminazione dalla stessa subita nel tempo dall’autorità nazionale;

– la linea difensiva seguita dalla ricorrente, più in particolare, si fonda sulla considerazione della natura sanzionatoria dell’intervento normativo di cui alla L. n. 220 del 2010, sicché la disciplina in esso contenuta troverebbe applicazione solo con riferimento allo svolgimento di una attività di gioco illecita, dunque non anche nei confronti della ricorrente, con la conseguenza che, ove applicata nei propri confronti, deriverebbe una violazione del principio di non discriminazione, della parità di trattamento nonché di legittimo affidamento e di libertà di stabilimento determinando, inoltre, un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità, tra le sezioni civili e quelle penali, in ordine alla questione; le suddette considerazioni rendono dunque priva di ogni fondamento sia l’asserita assimilazione dell’imposizione alle sanzioni, ipotizzandone una oggettiva finalità afflittiva, che, invece, è del tutto assente attesa la riferibilità della pretesa ad ordinari, seppur specifici, meccanismi impositivi l’assenza, come su evidenziato, di caratteri discriminatori, sia la prospettata esistenza di un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione;

– la ricorrente, infatti, è considerata soggetto passivo d’imposta proprio per avere realizzato, per il tramite di propri centri di trasmissione dati operanti in Italia, il presupposto impositivo dell’imposta in esame;

– la giurisprudenza penale di questa Corte (Cass. pen., 10 settembre 2020, n. 25439), poi, ha esaminato la questione relativa alla realizzazione del reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4-bis, ritenendo di dovere escludere la sussistenza del reato de quo in base alla considerazione che la ricorrente era stata “illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni…e la successiva trasmissione di dette scommesse all’allibratore non possono essere punite ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4 bis, dovendosi disapplicare la disciplina penale nazionale per contrasto con la normativa dell’Unione Europea”;

– il riconoscimento della natura non illecita dell’attività svolta dalla ricorrente, tuttavia, non implica la sottrazione della stessa dall’ambito della disciplina dell’imposta unica, anzi, postula proprio la realizzazione del presupposto di imposta, secondo la specifica declinazione contenuta nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, che ha, come visto, disposto che: “Ferma restando l’obbligatorietà, ai sensi della legislazione vigente, di licenze, autorizzazioni e concessioni nazionali per l’esercizio dei concorsi pronostici e delle scommesse, e conseguentemente l’immediata chiusura dell’esercizio nel caso in cui il relativo titolare ovvero esercente risulti sprovvisto di tali titoli abilitativi, ai soli fini tributari: a) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1, si interpreta nel senso che l’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”;

– l’applicabilità della previsione normativa in esame esclude altresì che possa porsi una questione di violazione del principio di non discriminazione o di libertà di stabilimento, secondo quanto ulteriormente esposto in memoria, basata sulla considerazione della natura lecita dell’attività svolta, ovvero ancora che possa ritenersi che la Corte di Giustizia, con la pronuncia citata non abbia preso in considerazione la “specifica situazione” nella quale la ricorrente ha dovuto operare;

– a parte il rilievo che il pregiudizio subito risulta solo affermato, ma non concretamente precisato e specificato, quel che rileva, come detto, è il fatto che la ricorrente, per il fatto di avere realizzato in Italia l’attività di gestione della raccolta delle scommesse per il tramite di propri centri di trasmissione dati, ha realizzato il presupposto dell’imposta e, dunque, è da considerarsi soggetto passivo del tributo e, sotto tale profilo, va fatto richiamo alla pronuncia della Corte di giustizia che, sul punto, ha escluso ogni violazione dei principi unionali citati;

– infine, va esaminato il quarto motivo di ricorso (con inizio a pag. 68 dell’atto) che si incentra sulla violazione e falsa applicazione della Dir. 2006/112 CE, art. 401, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la CTR disapplicato la normativa di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, in ragione della sua contrarietà al divieto di mantenere o introdurre imposte sul volume d’affari diverse dall’IVA, tributo armonizzato;

– anche questo motivo non ha fondamento;

– come correttamente osservato in controricorso (pag. 50 e seguenti) il tributo che qui rileva è differente da una imposta sulla cifra di affari per plurime ragioni: riguarda unicamente operazioni relative all’esercizio delle scommesse, irrilevanti a fini IVA; non tiene conto del valore aggiunto di ciascuna, difettando nel sistema il meccanismo della detrazione IVA e applicandosi il tributo all’importo scommesso; è calcolata senza alcun riconoscimento di deduzione degli acquisti di beni e servizi inerenti effettuati nel periodo in cui sono poste in essere le operazioni di scommessa;

– in tal senso non rilevano quindi i soli fatti consistenti nella proporzionalità, nell’esser riscossa a ogni fase e nella sua traslazione in capo al consumatore, evidenziati in ricorso, anche perché (come con evidente contraddizione logica e giuridica si ammette proprio in ricorso per cassazione a pag. 83) proprio la disciplina IVA che si cita da parte del ricorrente, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 2, proclama esenti dal tributo armonizzato le operazioni in parola con ciò evitando il concorrere di due imposte sul medesimo volume d’affari;

– e comunque, effetto del tutto risolutivo e dirimente ha sul punto, il chiaro dictum del Giudice Unionale (CGUE, sent. n. 24 ottobre 2013 in causa n. C-440/2012), Metropol Spielstàtten Unternehmergesellschaft (haftungsbeschrànkt) secondo il quale “in forza della Dir. IVA, art. 401, “le disposizioni di (tale) direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte (…) sui giochi e sulle scommesse, (…) e qualsiasi imposta, diritto o tassa che non abbia il carattere di imposta sul volume d’affari (…)”. La formulazione di tale articolo non osta, pertanto, a che gli Stati membri assoggettino un’operazione all’IVA, nonché, in modo cumulativo, a un tributo speciale non avente il carattere d’imposta sul volume d’affari (v., in tal senso, la sentenza dell’8 luglio 1986, Kerrutt, 73/85, Racc. pag. 2219, punto 22)”;

– secondo la ridetta pronuncia, quindi, la Dir. 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, art. 401, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, in combinato disposto con la stessa, art. 135, paragrafo 1, lett. i), deve essere interpretato nel senso che l’imposta sul valore aggiunto e un tributo speciale nazionale sui giochi d’azzardo possono essere riscossi in modo cumulativo, a condizione che siffatto ultimo tributo non abbia il carattere di un’imposta sul volume d’affari; inoltre, sempre secondo tal sentenza, la Dir. n. 112 del 2006, art. 1, paragrafo 2, prima frase, e art. 73, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una disposizione o a una prassi nazionale secondo cui, per la gestione di apparecchi per giochi d’azzardo con possibilità di vincita, l’importo dei proventi di cassa di tali apparecchi dopo che è trascorso un determinato periodo di tempo viene considerato come base imponibile;

– in conclusione, quindi, il ricorso è integralmente rigettato;

– l’essere intervenute nel corso del giudizio le sopra ricordate pronunce della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale costituisce giusta ragione per la compensazione delle spese del giudizio di Legittimità.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di Legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2021

 

 

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