Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24264 del 03/11/2020

Cassazione civile sez. III, 03/11/2020, (ud. 24/06/2020, dep. 03/11/2020), n.24264

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. R.G. 32508/2018 proposto da:

BANNER BROKER s.r.l. e ETABETA s.r.l., ciascuna in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’avv.

Giuseppina Stillitani, ed elettivamente domiciliati presso lo studio

della medesima in Roma, via Franco Sacchetti 125;

– ricorrenti –

contro

SONANGOL, SOCIETADE DE COMBUSTIVEIS DE ANGOLA EP, in persona del

legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli

avvocati Vittorio Allavena, prof. Alberto Villa, e Marco

Passalacqua, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Vittoria Colonna 39;

– controricorrente –

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Le società Banner Broker S.L. e Etabeta s.r.l. (nella dichiarata qualità di successori ex art. 111 c.p.c., “pro quota parte”, della società ASM Sinergy GmbH, per aver acquistato il credito litigioso oggetto di causa dalla società svizzera Dalbe Trading) ricorrono, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 2055/18, del 16 luglio 2018, della Corte di Appello di Venezia, che – respingendo il gravame esperito dalla società ASM Sinergy GmbH contro la sentenza n. 1862/17, del 25 luglio 2017, del Tribunale di Padova – ha confermato l’accoglimento dell’opposizione ex art. 645 c.p.c., proposta dalla società Sonangol Societade de Combustiveis de Angola EP, avverso il provvedimento monitorio emesso dallo stesso Tribunale patavino che le ingiungeva, e con essa a tale T.R.M.P., il pagamento di Euro 3.200.000,00, oltre interessi moratori ai sensi del D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 e spese della procedura.

Riferiscono, in punto di fatto, le odierne ricorrenti che, conseguito il decreto ingiuntivo suddetto da ASM Sinergy GmbH (d’ora in poi, “ASM”), il medesimo notificato alla società Sonangol Societade de Combustiveis de Angola EP (d’ora in poi, “Sonangol”) e al T. – veniva opposto, ex art. 645 c.p.c., esclusivamente dalla prima.

Sospesa dall’adito Tribunale la provvisoria esecutività del provvedimento monitorio, nonchè rigettata la richiesta di ASM volta al rilascio di ordinanza ex art. 186-ter c.p.c. (e, con essa, ogni istanza istruttoria dalla stessa formulata), l’opposizione veniva accolta ed il decreto, quindi, revocato.

Esperiva gravame la soccombente, chiedendo, in via preliminare, revocarsi integralmente tutte le ordinanze con cui il primo giudice aveva rifiutato l’ammissione delle prove ritualmente richieste e dichiarato, comunque, inammissibili, o privi di forza probatoria, i documenti dimessi da essa ASM, ovvero tempestivi i disconoscimenti effettuati da Sonangol in corso di causa. Inoltre, in via preliminare di rito, l’appellante concludeva perchè fosse accertata e dichiarata l’inesistenza della procura speciale conferita, dal Dottor D.L.F., al Dottor P.C., in data 5 marzo 2013, riconoscendo quest’ultimo, quindi, privo di qualsivoglia capacità processuale, nonchè dichiarando l’inesistenza del mandato “ad litem” conferito dal predetto P. ai difensori per il presente giudizio, in data e luogo ignoti, ma certamente non rilasciato in Italia e, comunque, privo dei requisiti minimi di autenticazione. Veniva, inoltre, richiesta la declaratoria di invalidità del nuovo mandato defensionale depositato il 25 giugno 2013, da ritenersi, in ogni caso, tardivo, perchè intervenuto dopo la scadenza del termine per la proposizione dell’opposizione al decreto ingiuntivo. Nel merito, l’appellante concludeva per il rigetto dell’opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo emesso, eventualmente anche sulla base di una diversa qualificazione giuridica del contratto intercorso tra le parti in causa, ovvero – in via di estremo subordine, ritenuto fondato il disconoscimento della sottoscrizione del contratto operato dall’attrice – affinchè fosse accertato e dichiarato l’arricchimento indebito, o senza causa, di Sonangol, con condanna della stessa al pagamento dell’importo di Euro 3.200.000,00, oltre interessi moratori.

In particolare, il giudice d’appello, quanto alla procura del 5 marzo 2013, rilevava come la stessa costituisse “procura sostanziale, sicuramente valida secondo la lex soci”, mentre il difetto di legalizzazione potrebbe “determinare eventualmente un’invalidità, ma in nessun caso l’inesistenza” della stessa. Quanto, invece, alla procura “ad litem”, l’avvenuta applicazione – secondo la Corte di Appello – della procedura ex art. 182 c.p.c., innanzi al Tribunale, ha sanato, con effetto “retroattivo”, i vizi afferenti tanto alla procura sostanziale, quanto alla successiva procura alle liti rilasciata in base ad essa, vizi, peraltro, in quest’ultimo caso, “rimasti indimostrati, non essendo noto dove sia stata sottoscritta ed autenticata” la procura “de qua”, sicchè la sanatoria “ex tunc” ha impedito il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo.

In relazione, poi, alla censura che investiva il disconoscimento operato in giudizio da Sonangol, la Corte territoriale ha richiamato il principio secondo cui nessun comportamento tacito, peraltro nella specie neppure provato, può impedire il disconoscimento di un documento prodotto in giudizio.

Quanto, infine, al merito della controversia, il giudice d’appello, condividendo la valutazione del Tribunale, ha reputato che Sonangol si fosse impegnata solo quale fideiussore del T. che sarebbe, dunque, l’unico soggetto obbligato nei confronti della società ASM, dal momento che è risultata, appunto, disconosciuta dalla società (asserita) garante la sottoscrizione apposta in calce al contratto dedotto in giudizio.

Avverso la pronuncia della Corte lagunare ricorrono per cassazione Banner Broker S.L. e Etabeta s.r.l., sulla base – come detto – di cinque motivi.

La società Sonangol ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità, ovvero, in subordine, di infondatezza.

Il P.G. ha depositato le proprie conclusioni nel senso del rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 83,115,125 e 182 c.p.c., dell’art. 2697 c.c. e del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 33.

Il motivo – che si articola, in realtà, in tre diverse censure – investe la decisione della Corte territoriale di rigettare l’eccezione, sempre sollevata dall’odierna ricorrente, secondo cui il decreto ingiuntivo avrebbe dovuto ritenersi passato in giudicato, visto che l’opposizione risulterebbe essere stata esperita in forza di una procura alle liti inesistente, vizio non sanabile attraverso la procedura ex art. 182 c.p.c..

La prima censura, in particolare, deduce violazione/falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c., comma 2 e art. 115 c.p.c., investendo la sentenza impugnata, in particolare, laddove afferma che i vizi afferenti alla procura alle liti sarebbero rimasti indimostrati, non essendo noto dove sia stata sottoscritta ed autenticata la procura stessa. Orbene, la ricorrente deduce di aver eccepito che il mandato firmato dal Dottor P. non era stato rilasciato in Italia, nè ivi autenticato, “ciò per la banale ragione” che costui “non ha mai messo piede in Italia, quantomeno negli ultimi mesi”, soggiungendo che “l’atto formatosi all’estero sarebbe comunque privo di legalizzazione”, essendo stato rilasciato in un Paese, qual è l’Angola, non aderente al trattato dell’Aja del 1961. La sentenza impugnata, dunque, si sarebbe dovuta uniformare al principio, enunciato da questa Corte, secondo cui, in caso di procura alle liti proveniente da un cittadino straniero residente all’estero, la presunzione di rilascio in Italia non opera quando il giudice tragga argomenti di prova, circa il rilascio all’estero della procura stessa, da circostanze emerse in giudizio e dal comportamento processuale delle parti, quali, ad esempio, l’assenza di ogni indicazione del luogo e della data di rilascio della procura, la pacifica e stabile residenza dell’emittente in un Paese non facente parte della Comunità Europea e la mancata dimostrazione del suo rientro in Italia (è citata Cass. Sez. 1, sent. 30 giugno 2016, n. 13482). Nel caso di specie, la Corte territoriale avrebbe dovuto valorizzare, in primo luogo, il fatto che era Sonangol ad avere piena disponibilità della prova, dal momento che il Dott. P., cittadino angolano, per poter entrare nel territorio italiano avrebbe necessitato di visto da apporre sul passaporto, nonchè, in secondo luogo, dare rilievo al silenzio serbato da Sonangol a fronte dell’eccezione formulata da ASM.

La seconda censura, che ipotizza violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 445, art. 33 e dell’art. 83 c.p.c., comma 2, è strettamente consequenziale alla prima, nel senso che il rilascio del mandato in Angola avrebbe come corollario che la procura “ad litem” sia inesistente, non essendo stato legalizzato, come reso necessario dal fatto che lo stesso è stato formato in una Nazione non aderente alla Convenzione dell’Aja del 1961.

Con la terza censura è dedotta violazione/falsa applicazione degli artt. 125 e 182 c.p.c., assumendo che, attesa l’inesistenza – e non la semplice invalidità – della procura, non potrebbe trovare applicazione la procedura ex art. 182 c.p.c., secondo le indicazioni della giurisprudenza di questa Corte e del Consiglio di Stato.

2. Il secondo motivo ipotizza violazione/falsa applicazione degli artt. 125 e 182 c.p.c..

Nel tornare a sottolineare come il Dott. P. avesse rilasciato la procura “ad litem” in forza di una procura a proporre azioni giudiziali dichiaratamente rilasciata in Angola, la ricorrente si duole del fatto che neppure questa risulti essere stata legalizzata, dotata di traduzione consolare, o redatta nella forma della autentica minore, e ciò in violazione dell’art. 2700 c.c., risultando, peraltro, autenticata da soggetto ignoto, ovvero del quale risultavano ignoti i poteri. Tali vizi si sarebbero riverberati sulla procura “ad litem”, ostando ulteriormente alla possibilità della sanatoria con effetto “ex tunc”. La Corte territoriale, dunque, avrebbe dovuto fare applicazione del principio secondo cui il difetto di una valida procura rende l’attività processuale “tamquam non esset”, di talchè, con riferimento alla opposizione al decreto ingiuntivo, la esistenza di una valida procura è presupposto indispensabile per la proposizione della opposizione stessa, con la conseguenza che quest’ultima, se proposta da difensore non munito di procura, non è idonea ad evitare il passaggio in giudicato del decreto (è citata Cass. Sez. 2, sent. 27 giugno 2014, n. 14674).

1-2 I motivi tra loro strettamente connessi sono infondati. Come ben evidenziato dalla Corte d’Appello, la procura del 5 marzo 2013 è una procura sostanziale sicuramente valida secondo la lex loci, mentre il difetto di legalizzazione potrebbe determinarne eventualmente l’invalidità ma in nessun caso l’inesistenza. Dunque, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, da un lato, non è censurabile la sentenza laddove ha ritenuto che la procura fosse da ritenersi valida in senso sostanziale essendo la forma idonea rispetto alla lex loci (Cass., 3, n. 26951 del 15/11/2017; Cass., 1, n. 19321 del 19/7/2018), ed in ogni caso, anche laddove la procura fosse da considerarsi invalida, mai avrebbe potuto essere considerata inesistente, di guisa che correttamente è stata ritenuta sanata ex art. 182 c.p.c., dal successivo rilascio della nuova procura (si veda sul punto Cass., 2, n. 10885 del 7/5/2018: “L’art. 182 c.p.c., comma 2, nella formulazione introdotta dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 2, secondo cui il giudice che accerti un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione è tenuto a promuovere la sanatoria, assegnando un termine alla parte che non vi abbia provveduto di sua iniziativa, con effetti “ex tunc”, senza il limite delle preclusioni derivanti dalle decadenze processuali, trova applicazione anche qualora la procura manchi del tutto, restando irrilevante la distinzione tra nullità e inesistenza della stessa”). Non si comprende il motivo per cui una chiara manifestazione di volontà in forma scritta, avente il contenuto di un mandato, dovrebbe essere ritenuta inesistente in quanto i requisiti di forma “esterni” alla manifestazione di volontà costituiscono elemento costitutivo di un negozio solo in specifici e tassativi casi. Parimenti infondato, di conseguenza, il secondo motivo con il quale si censura la sentenza per aver ritenuto che la procura ad litem fosse stata rilasciata in forza di procura a proporre azioni giudiziali e che la stessa, pur essendo viziata, fosse stata sanata. Premesso che la prima procura, ancorchè formalmente viziata, era comunque valida sul piano sostanziale perchè conforme alla legge dello Stato in cui era stata posta in essere, in ogni caso la stessa è stata sanata ai sensi dell’art. 182 c.p.c. che, in base alla giurisprudenza di questa Corte, trova applicazione anche in grado di appello (Cass., 13/3/2018 n. 6041).

3. Con il terzo motivo – che si articola, per vero, in quattro diverse censure – è ipotizzata violazione o falsa applicazione degli artt. 215 e 221 c.p.c., nonchè dell’art. 183 c.p.c., comma 7 e art. 2721 c.c..

Si contesta, in questo caso, la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che il comportamento tacito – assunto da Sonangol anteriormente all’avvenuto disconoscimento in giudizio della sottoscrizione apposta in calce al contratto il cui inadempimento è oggetto di causa – potesse neutralizzare il successivo disconoscimento.

Sul punto, si ipotizza, innanzitutto, violazione/falsa applicazione dell’art. 215 c.p.c., richiamando il principio affermato da questa Corte secondo cui, la parte che, prima del giudizio, abbia tacitamente riconosciuto un documento da essa sottoscritto non può, nel giudizio successivamente instaurato, legittimamente disconoscerlo, sicchè, ove il suddetto disconoscimento invece avvenga, la parte che intenda avvalersi del documento non è tenuta a proporre l’istanza di verificazione (è citata Cass. Sez. 3, sent. 28 giugno 2012, n. 18049, Rv. 623177-01).

La seconda censura è di violazione/falsa applicazione dell’art. 221 c.p.c., contestandosi, in questo caso, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui ASM non avrebbe fornito prova di tali condotte “ante causam” poste in essere da Sonangol – incompatibili con il successivo disconoscimento della sottoscrizione del contratto, essendosi ASM avvalsa, a tal fine, di documentazione in parte accertata come falsa. Osservano, al riguardo, le ricorrenti come, in relazione a tale documentazione, non risulti mai essere stata esperita querela di falso, dovendosi, anzi, constatare come – in base ad accertamenti giudiziari svolti all’estero – risulti, invece, confermata la genuinità della stessa. Quanto, poi, al carattere decisivo di tale documento, rilevano le ricorrenti come esso consista in una comunicazione – operata da un funzionario del Banco Santander-Totta (banca di proprietà di Sonangol) – che riassumeva la situazione in ordine al mancato pagamento, da parte di Sonangol, verso ASM.

La terza censura ipotizza violazione/falsa applicazione dell’art. 153 c.p.c., contestando la decisione del Tribunale, implicitamente condivisa dalla Corte lagunare che ha mancato di pronunciarsi sul punto, di ritenere tempestivo il disconoscimento di altro documento decisivo prodotto da ASM, ovvero la distinta dell’ordine di bonifico con cui Sonangol disponeva il pagamento, senza che lo stesso avesse poi seguito, sebbene mancassero le condizioni per la rimessione in termini.

Infine, la quarta censura ipotizza violazione/falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., comma 7 e dell’art. 2721 c.c., investendo la mancata decisione della Corte lagunare in ordine alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria, ovvero di ammissione delle prove non assunte in primo grado, e segnatamente di quella testimoniale resa dal Dott. D.C.A.M.R., persona incaricata da Sonangol di provvedere alla consegna del contratto, dalla stessa disconosciuto, alla società ASM.

3.1 Il motivo è inammissibile perchè di merito, in quanto si sostanzia in un preteso difetto di prova dell’esistenza di un comportamento tacito di Sonangol, precedente il giudizio, costituente riconoscimento della scrittura privata, poi disconosciuta in giudizio. E’ principio consolidato di questa Corte quello per cui “in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento si esplica interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denunzia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali bensì un errore di fatto che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. La censura relativa all’apprezzamento della documentazione versata in atti è chiaramente di merito.

Quanto alla terza censura, contenuta nel terzo motivo, con la quale si lamenta la tardività del disconoscimento operato da Sonangol nel giudizio di primo grado, rimessa in termini dal giudice di primo grado e l’omessa pronuncia della Corte territoriale sulla richiesta di revoca dell’ordinanza emessa ex art. 153 c.p.c., comma 2, il motivo manca di autosufficienza non evidenziandosi specificamente se tra i motivi di appello vi fosse la violazione dell’art. 153 c.p.c., comma 2, da parte del giudice di primo grado. I ricorrenti accennano semplicemente ad una richiesta di revoca dell’ordinanza di rimessione in termini senza ulteriori precisazioni sui motivi di doglianza spesi nell’atto di appello, su tale punto.

4. Con il quarto motivo è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e segg..

In questo caso, viene censurata la ricostruzione che i giudici di merito hanno offerto del contratto oggetto di giudizio, il quale prevedeva che le società ASM e Repax si impegnassero a fornire al T., pilota automobilistico, i servizi necessari per la partecipazione al campionato (OMISSIS), stagione (OMISSIS), nonchè determinati spazi pubblicitari sulla vettura da lui condotta, sulla tuta, sul casco ed altri accessori, impegnandosi il T. a pagare il corrispettivo di Euro 3.200.000,00, obbligandosi, invece, Sonangol, qualificata come “sponsor”, a garantire il pagamento di quella somma da parte del debitore.

Tuttavia, nel ritenere che la società abbia assunto un impegno meramente fideiussorio, la Corte territoriale avrebbe falsamente applicato i due principi base della ermeneutica contrattuale: “in contractibus rei veritas potius quam scriptura perspici debet” e “plus actum quam scriptum valet”. Del tutto errata sarebbe, infatti, la qualificazione dell’impegno di Sonangol quale semplice fideiussore, dal momento che il contratto di fideiussione ha natura unilaterale e, soprattutto, l’esecuzione del garantito non è mai rivolta al fideiussore, come avvenuto invece nel caso di specie, dal momento che ASM ha affisso, negli spazi pubblicitari di cui disponeva, loghi e segni distintivi di Sonangol. L’apparente asimmetria tra l’indicazione di quest’ultima quale “sponsor” e l’assunzione degli obblighi tipici, invece del fideiussore, avrebbe potuto essere superata attraverso l’applicazione dell’art. 1368 c.c..

Orbene, da tale errata qualificazione sarebbero derivate due conseguenze, l’una in materia di interpretazione del contratto, nel senso che la Corte territoriale avrebbe dovuto interrogarsi sulla sorte ed efficacia di un contratto plurilaterale, qual è quello presente, una volta che lo stesso, come avvenuto nell’ipotesi che occupa, risulti disconosciuto da una delle parti, l’altra conseguenza in tema di indebito arricchimento.

4.1. Il motivo è inammissibile perchè privo di autosufficienza in quanto i passaggi del contratto che dovrebbero supportare la prospettazione ermeneutica di controparte non sono riportati sicchè questa Corte non è posta in condizioni di comprendere il senso della censura. Il motivo è altresì inammissibile perchè non è conforme alla consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, ai fini della censura – in sede di legittimità – della violazione dei canoni ermeneutici non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto sicchè quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass., n. 10466 del 27/4/2017).

5. Con il quinto motivo è dedotta violazione o falsa applicazione dell’art. 2041 c.c..

Si evidenzia come, per effetto del disconoscimento operato da ASM, il contratto “de quo” fosse da ritenersi nullo, se non inesistente, di talchè il trasferimento di ricchezza dalla prima operato in favore di Sonangol doveva ritenersi “sine causa”, donde la possibilità, per la prima, di pretendere la restituzione ai sensi dell’art. 2041 c.c..

5.1 Il motivo è inammissibile perchè volto a sollecitare questa Corte ad una rivalutazione dei fatti, inammissibile in questa sede. La sentenza impugnata ha affermato che il soggetto che disponeva degli spazi pubblicitari messi a disposizione da ASM sui supporti (auto, casco, tuta) era solo ed unicamente T.. Ora confutare tale statuizione di merito è evidentemente inammissibile.

6. Conclusivamente il ricorso va rigettato ed i ricorrenti sono condannati in solido al pagamento delle spese di lite, liquidate come in dispositivo. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, del cd. “raddoppio” del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di lite liquidate in Euro 25.000, compresi Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali al 15%. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello pagato per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020

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