Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24243 del 13/10/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 13/10/2017, (ud. 10/03/2017, dep.13/10/2017),  n. 24243

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4615-2015 proposto da:

M.A., V.R., elettivamente domiciliati in ROMA,

PIAZZA CAVOUR presso la CASSAZIONE, rappresentati e difesi

dall’avvocato ROSARIO LA ROSA;

– ricorrenti –

contro

B.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LAZZARO

SPALLANZANI, 22/A, presso lo studio dell’avvocato MARIO BUSSOLETTI,

rappresentata e difesa dagli avvocati GIOVANNI ESTERINI, PIETRO

ABBADESSA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 913/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 23/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/ 03/ 2017 dal Consigliere Dott. MILENA FALASCHI.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

B.M., in qualità di proprietaria dell’immobile sito in (OMISSIS), proponeva nei confronti di M.A. domanda di rilascio dell’immobile per occupazione senza titolo, cui il convenuto resisteva, spiegando domanda riconvenzionale di accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione.

Al giudizio veniva riunita la causa proposta da V.M., coniuge di M.A., avente ad oggetto domanda di accertamento dell’usucapione del medesimo bene, cui resisteva B.M., chiedendone il rilascio.

Il Tribunale di Catania – Sezione distaccata di Acireale condannava i coniugi M. – V. al rilascio dell’immobile, disattendendo le domande di usucapione, sulla scorta del tenore di una missiva inviata dai coniugi M. – V. alla B. della quale emergeva che i primi riconoscevano la seconda quale proprietaria del bene in questione.

Avverso tale sentenza M.A. e V.M. proponevano gravame davanti alla Corte di Appello di Catania, che nella contumacia della B., con sentenza n. 913/2014, depositata il 23.06.2014, respingeva l’appello.

Per la cassazione della sentenza ricorrono M.A. e V.M. sulla base di due motivi, cui resiste la B. con controricorso.

Ritenuto che il ricorso potesse essere respinto, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 1), su proposta del relatore, regolarmente notificata ai difensori delle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Atteso che:

il primo motivo di ricorso (col quale si deduce la violazione e la falsa applicazione di non meglio determinate norme di diritto, per avere la Corte di Appello omesso di considerare che il possesso in favore dei ricorrenti era rimasto incontestato e che, quantomeno dal 1975, era stato coscientemente mutato il titolo del loro possesso) è privo di pregio per essere assolutamente indeterminato il parametro normativo in tesi violato, tanto da non consentire l’individuazione del motivo di doglianza. La redazione della censura, infatti, non rispetta il principio per cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo, giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr Cass. n. 24298 del 2016). I ricorrenti parrebbero volere piuttosto dedurre che la corte di merito non avrebbe valorizzato le incongruenze della condotta della controparte, che per oltre cinquanta anni non avrebbe rivendicato il bene, ma non si confrontano con le argomentazioni della sentenza impugnata incentrate sulla mancata ammissione delle prove orali articolate dal M. e dalla V. per implicita rinuncia.

Inoltre, è stata introdotta una questione giuridica nient’affatto dedotta nei gradi di merito circa l’avvenuta interversione nel possesso ovvero l’asserito mutamento della detenzione in possesso (cfr. Cass. 18 ottobre 2013 n. 23675; Cass. 28 luglio 2008 n. 20518; Cass. 19 novembre 2002 n. 16303);

– il secondo motivo di ricorso (col quale si deduce l’erronea motivazione su un punto decisivo della controversia oggetto di discussione, per avere la Corte di Appello omesso di valutare il tenore del documento con cui il legale della B. riconosceva il possesso in favore del M. e per avere disatteso le richieste istruttorie) è manifestamente infondato, poichè la contestazione dei lavori di rifacimento del tetto in sè non è affatto significativa della maturazione dell’acquisto per usucapione mentre sono debitamente argomentate nella sentenza censurata le ragioni dell’inammissibilità e irrilevanza della prova testimoniale richiesta in sede di gravame.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 10 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2017

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