Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24241 del 29/11/2016


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Cassazione civile sez. II, 29/11/2016, (ud. 14/07/2016, dep. 29/11/2016), n.24241

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27669-2012 proposto da:

R.C., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PIRRO LIGORIO 14, presso lo studio dell’avvocato CRISTINA SPOSI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE MAURICI;

– ricorrente –

contro

COMUNE di MELITO PORTO SALVO, in persona del Sindaco pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 7/2012 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 10/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/07/2016 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il comune di Melito Porto Salvo proponeva opposizione al decreto col quale il presidente del Tribunale di Reggio Calabria gli aveva ingiunto il pagamento della somma di Lire 4.898.382 in favore dell’arch. R.C., quale corrispettivo della progettazione del muro perimetrale del cimitero comunale. A sostegno deduceva che l’incarico era condizionato al finanziamento regionale dell’opera, successivamente mancato.

Nel resistere in giudizio l’opposto proponeva, altresì, domanda subordinata di arricchimento senza causa, ai sensi dell’art. 2041 c.c.

Il Tribunale revocava il decreto ingiuntivo, rigettava la domanda di tesi e dichiarava improponibile quella di subordine.

L’impugnazione proposta dall’arch. C. era respinta dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza n. 7/12. Riteneva la Corte territoriale che il contratto d’opera non poteva ritenersi concluso tra le parti, essendo reciprocamente mancato un atto formale tanto d’interpello quanto di adesione del professionista. Atti, questi, non surrogabili dalla redazione del progetto, che aveva fatto seguito alla comunicazione del 24.6.1991 con la quale il comune aveva reso noto all’arch. C. la delibera contenente il regolamento contrattuale, inclusa la clausola condizionale. Pertanto, era mancata la conclusione del contratto mediante forma scritta, richiesta ad substantiam in base al R.D. n. 2440 del 1923, artt. 16 e 17. Rilevava, infine, che l’azione di arricchimento senza causa era esperibile nei confronti non dell’ente pubblico, ma dell’amministratore o del funzionario responsabile, in base al D.L. n. 66 del 1989, convertito in L. n. 144 del 1989, al D.Lgs. n. 77 del 1995 e al D.Lgs. n. 267 del 2000.

Per la cassazione di tale sentenza R.C. propone ricorso, affidato a tre motivi, successivamente illustrati da memoria.

Il comune di Melito Porto Salvo è rimasto intimato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia la violazione del R.D. n. 2440 del 1923, artt. 16 e 17, art. 1358 c.c., e artt. 99 e 112 c.p.c., nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Parte ricorrente sostiene, in particolare, che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che il requisito della forma scritta non sarebbe stato soddisfatto dalla delibera esecutiva della Giunta municipale. Per contro, invoca il principio giurisprudenziale per cui il suddetto requisito di forma può essere integrato anche da atti separati, specie ove sia stato preventivamente individuato il contraente e siano stati previsti i mezzi finanziari per far fronte al pagamento. Inoltre, la nullità del contratto per difetto di forma scritta è stata rilevata d’ufficio, in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

1.1. – Il motivo è infondato.

1.1.1. – In generale, il contratto d’opera professionale con la P.A., ancorchè quest’ultima agisca iure privatorum, deve rivestire, R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, ex artt. 16 e 17 la forma scritta ad substantiam, che è strumento di garanzia nell’interesse del cittadino, costituendo remora ad arbitrii, ed agevola l’espletamento della funzione di controllo; esso, pertanto, deve tradursi, a pena di nullità, nella redazione di un apposito documento, recante la sottoscrizione del professionista e del titolare dell’organo attributario del potere di rappresentare l’ente interessato nei confronti dei terzi, nonchè l’indicazione dell’oggetto della prestazione e l’entità del compenso, dovendo, altresì, escludersene la possibilità di conclusione tramite corrispondenza, occorrendo che la pattuizione sia versata in un atto contestuale, anche se non sottoscritto contemporaneamente (Cass. n. 24679/13; conformi: Cass. nn. 1752/07 e 15296/07).

In particolare, poi, per quanto concerne il profilo inerente all’esistenza d’una delibera di autorizzazione a contrarre, questa Corte ha affermato che il contratto d’opera professionale con la P.A. deve essere stipulato in forma scritta, a pena di nullità, dall’organo rappresentativo dell’ente, non essendo sufficiente che il professionista accetti, espressamente o tacitamente, la delibera a contrarre, poichè questa, anche se sottoscritta dall’organo rappresentativo medesimo, resta un atto interno, che l’ente può revocare ad nutum. In senso contrario, non rileva il R.D. n. 2440 del 1923, art. 17 richiamato per i Comuni dal R.D. n. 383 del 1934, art. 87 dove è previsto che il contratto con ditte commerciali possa concludersi a distanza, per mezzo di corrispondenza, trattandosi di norma in deroga, applicabile soltanto ai negozi in cui, per esigenze pratiche, la definizione del contenuto dell’accordo è rimessa all'”uso del commercio”, tra i quali non rientra il conferimento di incarichi professionali, che postula, invece, la definizione formale dei vari aspetti del rapporto, anche per rendere possibili i controlli istituzionali dell’autorità tutoria (Cass. n. 1167/13).

1.1.2. – Quanto alla doglianza di extrapetizione per il rilievo officioso della nullità del contratto, è sufficiente ricordare che anche prima ed a prescindere dai dicta di Cass. S.U. nn. 26242/14 e 14828/12 (che hanno esteso tale potere del giudice ai casi di azione di rescissione, risoluzione o annullamento), la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato la rilevabilità d’ufficio della causa d’invalidità allorchè la domanda abbia ad oggetto – come nella fattispecie – l’esecuzione del contratto (cfr. tra le tante, Cass. n. 15093/09).

2. – Il secondo motivo espone la violazione o falsa applicazione del D.L. n. 66 del 1989, art. 23, D.Lgs. n. 267 del 2000 e art. 2041 c.c., nonchè il vizio motivazionale. Ad avviso del ricorrente il professionista potrebbe agire ai sensi dell’art. 2041 c.c. direttamente nei confronti della P.A., purchè vi sia il riconoscimento, anche se non esplicito, dell’utilità della prestazione resa in suo favore. In sostanza il ricorrente afferma (v. pag. 8 del ricorso) che per effetto delle innovazioni del D.Lgs. n. 342 del 1997 trasfuso poi nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191 e del richiamo ivi contenuto all’art. 37, comma 1, lett. e) (ora D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194) il rapporto contrattuale tra il privato e l’amministratore persona fisica non concernerebbe più l’acquisizione di beni e servizi di cui sia stata riconosciuta l’utilità, e che in questo ambito dunque sarebbe ammissibile imputare direttamente all’ente pubblico l’obbligazione pur irritualmente assunta.

2.1. – Anche tale motivo è infondato.

Premesso che il D.L. n. 66 del 1989, art. 23 convertito con modificazioni in L. n. 144 del 1989, sebbene sia stato abrogato dal D.Lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, art. 123 (ma riprodotto senza sostanziali modifiche dall’art. 35 medesimo decreto e infine rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191), è applicabile ratione temporis alla fattispecie, siccome insorta nel 1991, va osservato che in tema di spese fuori bilancio dei Comuni (e, più in generale, degli enti locali) agli effetti di quanto disposto dal D.L. 2 marzo 1989, n. 66, art. 23, comma 4, (convertito, con modificazioni, in L. 24 aprile 1989, n. 144), l’insorgenza del rapporto obbligatorio direttamente con l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione – con conseguente impossibilità di esperire nei confronti del Comune l’azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà – si ha in tutti i casi in cui manchi una valida ed impegnativa obbligazione dell’ente locale, con la conseguenza che, dopo l’introduzione di tale normativa, la questione del riconoscimento dell’utilità della prestazione si pone, di regola, solo allorchè il funzionario o l’amministratore – responsabili verso il privato – propongano l’azione di cui all’art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. (Cass. n. 1391/14).

Pertanto, poichè il D.L. n. 66 del 1989, art. 23, comma 3, (convertito, con modificazioni, dalla L. 24 aprile 1989, n. 144), dispone che qualsiasi spesa degli enti comunali deve essere assistita da un conforme provvedimento dell’organo munito di potere deliberativo e da uno specifico impegno contabile registrato nel competente bilancio di previsione, il rapporto obbligatorio si costituisce direttamente con il funzionario, onde il professionista non può esperire nei confronti dell’ente pubblico l’azione di indebito arricchimento (art. 2041 c.c.), perchè tale azione difetta del necessario requisito della sussidiarietà (art. 2042 c.c.) (cfr. ex multis, Cass. nn. 24478/13, 12880/10, 11854/07 e 11067/03).

Non pertinente, poi, è il richiamo a Cass. S.U. n. 10798/15, operato nella memoria ex art. 378 c.p.c., poichè detta sentenza (la quale ha escluso che il requisito del riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito costituisca condizione dell’azione di indebito arricchimento), si riferisce ad una fattispecie di prestazioni di servizio che erano state affidate dalla P.A. nel 1986, e dunque prima dell’emanazione del D.L. n. 66 del 1989.

(Infine, neppure sarebbe invocabile la soluzione interpretativa derivabile da Corte cost. n. 446/95, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 66 del 1989, art. 23 in quanto ha ammesso che il fornitore depauperato possa agire comunque nei confronti della P.A. mediante l’azione surrogatoria di cui all’art. 2900 c.c., per assicurare che siano soddisfatte le proprie ragioni quando il patrimonio del funzionario risulti incapiente: oltre ad essere una questione inammissibile perchè nuova ed implicante un accertamento di fatto, si tratterebbe anche di una domanda nuova e non proponibile in assenza del surrogato, quale consorte necessario).

3. – Il terzo motivo d’impugnazione è solo apparente, e dunque inammissibile, perchè critica il regolamento delle spese non già ex se ma quale riflesso della reiezione, asseritamente illegittima, della domanda.

4. – Pertanto, il ricorso va respinto.

5. – Nulla per le spese, non avendo il comune di Melito Porto Salvo svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

La presente sentenza è stata redatta sulla base della relazione predisposta dall’assistente di studio dr. M.G..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2016

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