Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24214 del 02/11/2020

Cassazione civile sez. II, 02/11/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 02/11/2020), n.24214

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21127/2019 proposto da:

O.L., elettivamente domiciliato in VIA MALTA N. 4 –

AVELLINO, presso l’avv. VINCENZINA SALVATORE, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, IN PERSONA DEL MINISTRO PRO TEMPORE

(OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 05/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/06/2020 dal Consigliere e Presidente Dott. FELICE MANNA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

O.L., cittadino (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Napoli avverso la decisione della Commissione territoriale di Caserta, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda deduceva di essere nato nel Delta State e di essersi dovuto allontanare dalla Nigeria nel (OMISSIS), dove aveva lasciato madre, moglie e figli, abitanti nella città di (OMISSIS), dopo la morte del padre, avvenuta nel (OMISSIS) e dopo l’uccisione della sorella, nel (OMISSIS), per mano di soggetti, non meglio identificati, interessati alla divisione dell’eredità del padre.

La Commissione prima, e il Tribunale di Napoli, con decreto n. 4973/19, poi, rigettavano la domanda.

Oltre alle contraddizioni in cui era incorso il richiedente circa l’anno di espatrio, detto Tribunale rilevava la sostanziale inverosimiglianza e genericità del narrato, non essendo stato chiarito per quale ragione vi sarebbero stati soggetti interessati all’eredità del padre, e perchè il richiedente non avesse denunciato in alcun modo l’uccisione della sorella. Inoltre, nella fattispecie non era ravvisabile l’esistenza di una persecuzione per motivi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8.

Il Tribunale escludeva, altresì, la protezione sussidiaria (intendi, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). Le minacce di attacchi ai giacimenti petroliferi da parte di gruppi militari, riprese nel (OMISSIS), e i molti incidenti che avevano colpito maggiormente la popolazione civile durante le operazioni di polizia svolte per contrastare il bunkering petrolifero, costituivano ragioni di vulnerabilità non allegate dal ricorrente e a lui del tutto estranee, sicchè non rappresentavano un fattore di rischio per la sua incolumità.

Quanto alla protezione umanitaria rilevava, richiamando Cass. n. 4455/18, che l’inserimento socio-lavorativo in Italia non era fattore esclusivo, e che la situazione del richiedente nel Paese d’origine non era tale da porlo in condizioni di vulnerabilità, atteso che nella città di sua provenienza ((OMISSIS)) egli era impiegato presso un’officina, godendo di un inserimento lavorativo discreto, tale da non consentire di ritenere che l’attuale impiego di lui potesse rappresentare un miglioramento delle condizioni di vita.

La cassazione di detto decreto è chiesta dal richiedente sulla base di tre motivi.

Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Il primo motivo denuncia, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. d), art. 3, comma 3, lett. a) e art. 7, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. d) e art. 8, perchè il Tribunale non avrebbe approfondito la posizione del richiedente, valorizzando, alla luce di informazioni precise ed aggiornate, la complessiva situazione del Paese di provenienza. Ciò avrebbe senz’altro determinato – si sostiene – il riconoscimento della protezione invocata, anche in considerazione del fatto che le dichiarazioni, seppure non provate, non erano tali da giustificare il giudizio d’inattendibilità superficialmente espresso dal Tribunale.

1.1. – Il motivo è manifestamente infondato.

In tema di riconoscimento della protezione internazionale, l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, attiene al giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ed osta al compimento di approfondimenti istruttori officiosi, cui il giudice di merito sarebbe tenuto in forza del dovere di cooperazione istruttoria, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori; ne consegue che, in caso di racconto inattendibile e contraddittorio e per di più variato nel tempo, non è nulla la sentenza di

merito che – come del resto affermato da Corte di Giustizia U.E, 26 luglio 2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko, e da Corte EDU, 12 novembre 2002, Dory c. Svezia – rigetti la domanda senza che il giudice abbia proceduto a nuova audizione del richiedente per colmare le lacune della narrazione e chiarire la sua posizione (v. n. 33858/19 e 16925/18).

Di riflesso e nella specie, il Tribunale non era tenuto a riscontrare, tramite l’acquisizione delle COI (acronimo di Country of Origin Information), l’esistenza della dedotta persecuzione, avendo esso escluso, con motivazione non suscettiva di sindacato in questa sede di legittimità, che il richiedente fosse credibile.

Del tutto generica ed apodittica, poi, è l’asserita superficialità dell’accertamento di merito compiuto al riguardo, certamente non indiziato dalla (del tutto legittima) corrispondenza, rispetto ad altri provvedimenti emessi dal medesimo Tribunale, di parti invariabili delle premesse in diritto o degli accertamenti relativi al Paese o alla regione di provenienza del richiedente. Nè tanto meno la motivazione in fatto del provvedimento impugnato è censurabile in sede di legittimità, essendo il relativo sindacato limitato al “minimo costituzionale”, secondo i casi esemplificati dalla nota pronuncia n. 8053/14 delle S.U. di questa Corte Suprema.

Infine, deve rimarcarsi che la vicenda in oggetto, così come narrata dal richiedente, è inidonea a configurare un caso di persecuzione o di danno grave.

Infatti, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), secondo cui responsabili della persecuzione (che legittima il riconoscimento dello status di rifugiato) o del danno grave (che consente la protezione sussidiaria) possono essere anche “soggetti non statuali” (se i responsabili di cui alle lett. a e b dello stesso articolo, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi) va letto e interpretato in una con l’art. 14, lett. b) stesso D.Lgs., che qualifica danno grave la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine.

La stessa nozione di “trattamento inumano o degradante” rimanda all’applicazione di metodi o di procedimenti predeterminati (legali, paralegali o etno-culturali), e dunque ad un fattore efficiente di regola incompatibile con l’azione personale di singoli, mossi da motivazioni estranee a qualsivoglia dimensione superindividuale e privi della forza oppressiva propria delle aggregazioni di più soggetti.

“Chi voglia ricomprendere le cosiddette “vicende private” tra le cause di persecuzione o danno grave, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale” – si legge nell’ordinanza n. 9043/19 di questa Corte Suprema – “è costretto a valorizzare oltre misura il riferimento ai “soggetti non statuali” indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), come corresponsabili della persecuzione o del danno grave, insieme allo Stato, ai partiti e alle organizzazioni collettive. Questa tesi non è condivisibile per le seguenti considerazioni: – nella suddetta lett. c) dell’art. 5 i “soggetti non statuali” sono considerati responsabili della persecuzione o del danno grave solo “se (“può essere dimostrato che…”: cfr. art. 6 della direttiva n. 2004/83/CE) i responsabili di cui alle lett. a) e b), (vale a dire lo Stato e le organizzazioni di cui si è detto) non possono o non vogliono fornire protezione”, a fronte, evidentemente, di atti persecutori e danno grave non imputabili direttamente ai medesimi “soggetti non statuali”, ma pur sempre allo Stato o alle menzionate organizzazioni collettive; – del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, come si è detto, non comprende i “soggetti non statuali” tra quelli che possono offrire protezione, ma solo lo Stato, i partiti e le organizzazioni, in linea con il Considerando 19 della direttiva n. 2004/83/CE; – analogamente, è significativo che gli atti persecutori – analogamente, è significativo che gli atti persecutori rilevanti sono quelli consistenti prevalentemente in azioni o provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie, rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridica, ecc. (art. 7, comma 2), quindi in comportamenti riconducibili o riferibili, di regola, allo Stato o a soggetti e organizzazioni collettive; – una interpretazione che, facendo leva sul generico riferimento del legislatore ai “soggetti non statuali”, faccia assurgere le controversie tra privati (o la mancata o. inadeguata tutela giurisdizionale offerta dal paese per la risoluzione delle stesse) a cause idonee e sufficienti a integrare la fattispecie persecutoria o del danno grave, verrebbe a porsi in rotta di collisione con il principio secondo cui “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave” (Considerando 26 della direttiva n. 2004/83/CE), oltre ad essere poco sostenibile sul piano sistematico; – infatti, la protezione internazionale nelle forme del rifugio e in quella sussidiaria, come rilevato da questa Corte (Cass. n. 16362 del 2016), costituisce diretta attuazione del diritto costituzionale di asilo, che è riconosciuto allo straniero al quale sia pur sempre “impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche” (art. lo Cost.), concetto questo cui sono estranee, in linea di principio, le vicende prive di rilevanza generale e in tal senso private, fermo restando che ai cittadini di paesi terzi e apolidi può essere “concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perchè bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale” dagli Stati membri (Considerando 9 della direttiva n. 2004/83/CE; analogamente, a norma dell’art. 6, comma 4, della direttiva 2008/115/CE, gli Stati membri possono riconoscere ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio sia irregolare un’autorizzazione o un permesso di soggiorno per “motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura”)”.

Gli atti criminali provenienti da singoli soggetti rientrano, invece, fra i rischi cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un Paese e, pertanto, non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave ai sensi delle norme precitate.

Potrebbe obiettarsi che non esiste una definizione di trattamento disumano o degradante che sia accettata a livello universale, pur essendo tale concetto richiamato da più fonti di diritto internazionale; che, nella giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 3 della relativa Convenzione, cui corrisponde l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), tende ad essere interpretato nel senso che anche atteggiamenti statali di mera tolleranza o connivenza rispetto a condotte di privati possono dar luogo a responsabilità dello stato; che nella sentenza Selmouni contro la Francia del 28 luglio 1999, si afferma che la nozione di trattamento disumano o degradante è di natura fluida e deve essere valutata in armonia con il progresso sociale; e che, come si afferma nella sentenza Rumor c/ Italia, 27 maggio 2014, “l’art. 1 della Convenzione, in combinato disposto con l’art. 3, pone in capo agli Stati l’obbligo positivo di assicurare che le persone sottoposte alla loro giurisdizione siano protette da qualsiasi forma di maltrattamento proibito ai sensi dell’art. 3, anche quando tale trattamento è posto in essere da privati (si vedano A. c. Regno Unito, 23 settembre 1998, p. 22, Reports of Judgments and Decisions 1998 VI; Opuz, sopra citato, p. 159; ed Eremia, sopra citato, p. 48). Tale obbligo dovrebbe comprendere l’effettiva protezione, inter alios, di un soggetto, o di soggetti identificati, dagli atti criminali di terzi, nonchè misure ragionevoli per prevenire i maltrattamenti di cui le autorità erano, o avrebbero dovuto essere, a conoscenza (si vedano, mutatis mutandis, Osman c. Regno Unito, 28 ottobre 1998, p. 116, Reports 1998 Vili; E. e altri c. Regno Unito, n. 33218/96, p. 88, 26 novembre 2002; e J.L c. Lettonia, n. 23893/06, p.64, 17 aprile 2012)” (v. par. 58). Ma è altrettanto vero che ciò è stato sempre affermato con riferimento alla posizione di persone minori d’età o di altri soggetti vulnerabili, come dimostrano i precedenti di H.L.R. c/ Francia, 29 aprile 1997, Moldovan e altri c/ Romania, 12 luglio 2005 e della stessa sentenza Rumor c/ Italia (relativa ad un caso di maltrattamento di una donna ad opera dell’ex compagno). Persone, tutte, aventi diritto alla protezione dello Stato da gravi violazioni dell’integrità personale, mediante un effettivo deterrente (v. lo stesso par. 58 della sentenza Rumor c/ Italia).

Ma non è questo il caso di specie, vista l’età del ricorrente (nato nel 1981) e la mancata deduzione (sia pure ai diversi fini della protezione sussidiaria) di una particolare causa di sua vulnerabilità.

Dunque, e in conclusione, nell’aderire al citato precedente n. 9043/19 di questa Corte Suprema, va ribadito che le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria, (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b).

2. – Col secondo mezzo è dedotta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 4 e 14, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè la Nigeria, in generale, e l’Edo State, in particolare, sono luoghi gravemente insicuri, vuoi a causa dell’attività del gruppo terroristico di (OMISSIS), vuoi per le attività criminali comuni e non segnalate dal rapporto della (OMISSIS).

2.1. – Il motivo è infondato.

In disparte la circostanza che a pag. 2 del ricorso si affermi che il ricorrente sia nato nel Delta State, mentre a pag. 6 si indichi quale luogo di provenienza l’Edo State; ciò a parte, va osservato che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (nn. 18306/19, 9090/19 e 13858/18).

Non basta, pertanto, la generica pericolosità del Paese o della regione di provenienza nè la possibilità che la relativa situazione possa degenerare dando vita ad una violenza indiscriminata di grado severo nel senso appena detto.

Nello specifico, il Tribunale ha escluso una siffatta situazione sulla base di informazioni qualificate e aggiornate al 2018, che segnalano per il Delta State una situazione di rischio per i civili limitata alle operazioni di polizia per contrastare il bunkering petrolifero, cui il richiedente è stato ritenuto estraneo. Pertanto, sebbene il Tribunale abbia rilevato una situazione di violenza (74 incidenti con 54 morti tra l'(OMISSIS)), questa non può ritenersi nè indiscriminata nè di grado talmente elevato da mettere a repentaglio la vita del richiedente per la sua sola presenza sul territorio.

3. – Il terzo motivo espone, in rapporto dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (testo previgente), nonchè la nullità del decreto impugnato, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per omessa motivazione del diniego di protezione umanitaria, di cui ricorrono le condizioni in virtù del concreto inserimento del richiedente nella realtà del Paese d’accoglienza.

3.1. – Il motivo è infondato.

La natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di vantazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (n. 21123/19).

Va da sè, nella specie, che in difetto di un’autonoma allegazione di fatti diversi da quelli posti a base della domanda di protezione sussidiaria, il Tribunale non dovesse valutare sub specie di protezione umanitaria quegli stessi fatti che aveva appena giudicato non plausibili nella loro allegazione, così restando correttamente assorbito ogni loro esame ulteriore.

Nè è mancato nel provvedimento impugnato il raffronto tra la situazione in Italia del richiedente e la posizione di lui nel Paese d’origine. Il Tribunale, infatti, ha motivatamente escluso che il livello socio-lavorativo raggiunto in Italia, rapportato a quello lasciato in Nigeria, faccia emergere la prevalenza del primo sul secondo.

4. – In conclusione il ricorso va respinto.

5. – Nulla per le spese, non avendo il Ministero dell’Interno svolto attività difensiva.

6. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2020

 

 

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