Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24203 del 04/10/2018

Cassazione civile sez. III, 04/10/2018, (ud. 13/09/2018, dep. 04/10/2018), n.24203

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9647/2017 R.G. proposto da:

Tutto per l’agricoltura s.n.c., rappresentata e difesa dall’Avv.

Simone Ariano, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma,

viale Isacco Newton, n. 112;

– ricorrenti –

contro

Ministero della Giustizia, rappresentato e difeso dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 767/2017,

depositata il 6 febbraio 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 settembre

2018 dal Consigliere Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda con la quale la società Tutto per l’agricoltura di S.B.M. s.n.c. aveva chiesto la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento del danno sofferto per la tardiva notificazione, da parte dell’ufficiale giudiziario, di atto stragiudiziale con il quale la stessa comunicava alla proprietaria dell’immobile condotto in locazione l’esercizio del diritto di prelazione L. 27 luglio 1978, n. 392, ex art. 38.

Ha infatti rilevato, in sintesi, che, in ipotesi di atto stragiudiziale (come desumibile anche dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 36, comma 4, a mente del quale “La richiesta, con l’indicazione della data, può farsi solo per atti in scadenza nello stesso termine per espressa disposizione di legge o per volontà delle parti”), è indefettibile l’indicazione del termine a cura del richiedente che ne abbia interesse — indicazione nella specie mancante – non essendo comunque tenuto l’ufficiale giudiziario ad esaminare il contenuto dell’atto da notificare o la normativa sostanziale ad esso inerente, con la conseguenza che “l’esecuzione della notificazione 21 giorni dopo la richiesta non costituisce fonte di responsabilità per l’ufficiale giudiziario, nè integra un inesatto adempimento della prestazione”.

2. Avverso tale decisione la società propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, cui resiste con controricorso il Ministero della Giustizia, proponendo a sua volta ricorso incidentale con unico mezzo.

La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo del ricorso principale la predetta s.n.c. denuncia falsa applicazione dell’art. 60 c.p.c., in relazione al disposto di cui al D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 108, e art. 1176 c.c..

Sostiene che erroneamente la Corte d’appello ha attribuito rilievo alla mancata indicazione del termine entro cui effettuare la notifica dell’atto, atteso che l’ufficiale giudiziario doveva conoscere dove e quando notificarlo, senza per questo dover esaminare il contenuto dell’atto, ma sulla base della semplice intestazione, ciò rientrando nelle sue specifiche competenze; trattandosi pertanto di dichiarazione dell’esercizio del diritto di prelazione nell’acquisto dell’immobile detenuto in locazione, lo stesso andava notificato entro il 60 giorno dalla notifica, decorrente dal 9/11/2005 (come espressamente menzionato nella comunicazione medesima) e quindi entro e non oltre l’8/1/2006.

Soggiunge che il passaggio dell’atto 12 giorni prima di tale scadenza dimostrava la tempestività e la diligenza del richiedente; di converso, non altrettanta tempestività e diligenza aveva mostrato l’ufficiale giudiziario, atteso che l’atto in questione veniva notificato 21 giorni dopo la richiesta, il 17/1/2006, dopo l’alienazione dell’immobile in questione, in violazione del D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 108, che fa obbligo all’ufficiale giudiziario di “eseguire gli atti a lui commessi senza indugio”.

Rileva ancora che solamente nel caso in cui l’atto doveva notificarsi lo stesso giorno del passaggio allo sportello, il richiedente era obbligato ad indicare il termine di esecuzione della notifica.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce falsa applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 36, comma 4.

Rileva che il richiamo che la sentenza impugnata ne fa in motivazione è inconferente trattandosi di norma diretta a regolare i presupposti delle maggiorazioni degli emolumenti spettanti all’ufficiale giudiziario.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia infine “violazione dell’art. 1218 c.c., avuto riguardo all’art. 1176 c.c., ed in relazione al D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 108”: censura l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui la notifica effettuata 21 giorni dopo la richiesta non dà luogo a responsabilità dell’ufficiale giudiziario e non integra gli estremi dell’inesatto adempimento della prestazione.

Rileva che dalle norme richiamate si ricava un grado vincolato di diligenza nell’adempimento, desumibile, quanto al tempo da impiegarsi nell’esecuzione della prestazione, dal termine “senza indugio”.

4. Con l’unico motivo di ricorso incidentale il Ministero denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e art. 92 c.p.c., comma 2, come modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, in relazione alla disposta compensazione delle spese processuali.

5. I tre motivi del ricorso principale, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, sono infondati.

La responsabilità civile degli ufficiali giudiziari verso la parte istante è regolata dall’art. 60 c.p.c., il quale la prevede in due ipotesi: 1) “quando, senza giusto motivo, ricusano di compiere gli atti che sorto loro legalmente richiesti oppure omettono di compierli nel termine che, su istanza di parte, è fissato dal giudice dal quale dipendono o dal quale sono stati delegati”; 2) quando compiono “un atto nullo con dolo o colpa grave”.

Secondo risalente indirizzo della giurisprudenza (Cass. 08/11/1955, n. 3645, in Giust. civ., 1956, I, 424; Cass. 31/01/1957, n. 342, cit.; Cass. 13/02/1963, n. 287) e secondo prevalente dottrina, tale disciplina non lascerebbe spazio per altre ipotesi di responsabilità civile nei confronti della parte, mentre non osta alla configurabilità di una responsabilità civile, ex art. 2043 c.c., nei confronti dei terzi.

La prima affermazione non è condivisa da parte della dottrina secondo cui una responsabilità civile dell’ufficiale giudiziario, ai sensi dell’art. 2043 c.c., sarebbe da ammettere anche nei confronti della parte nel cui interesse è compiuto l’atto per tutti i danni ingiusti derivanti da fatti che non trovano la loro disciplina nell’art. 60 c.p.c..

Si richiama al riguardo il D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 23, (T.u. imp. civ. St.), a norma del quale “è danno ingiusto, agli effetti previsti dall’art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia commesso per dolo o colpa grave”, con la precisazione tuttavia che, stante il disposto dell’art. 384, del medesimo testo unico (a mente del quale “le disposizioni del presente decreto si applicano a tutti gli impiegati civili dello Stato, salve le disposizioni speciali vigenti per i personali (…) addetti agli uffici giudiziari”), l’applicazione dell’art. 23 resta esclusa per quelle ipotesi di responsabilità civile già disciplinate dall’art. 60 c.p.c., mentre è consentita per tutti i danni ingiusti derivanti da fatti non previsti da tale norma.

Può dunque considerarsi incontrastata l’interpretazione della norma, nel suo nucleo centrale, secondo cui la responsabilità dell’ufficiale giudiziario per atto omesso o ritardato o nullo trovi la propria disciplina nell’art. 60 c.p.c., discutendosi in dottrina della possibilità di ipotizzare altri casi di responsabilità dell’ufficiale giudiziario nei confronti della parte, diversi però da quelli disciplinati di atto omesso, ritardato o nullo.

Tale interpretazione è certamente da condividere, posto che ipotizzare una responsabilità civile dell’ufficiale giudiziario nei confronti della parte per atto ritardato in assenza però dei presupposti indicati dalla norma comporterebbe una interpretazione sostanzialmente abrogativa della stessa.

Nè può giovare in tal senso il richiamo alla previsione di cui al D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 108, (a mente del quale l’ufficiale giudiziario “deve eseguire ali atti a lui commessi senza indugio e, comunque, non oltre il termine che eventualmente sia stato prefisso dall’autorità per gli atti da essa richiesti. In caso d’impedimento, deve immediatamente riferirne e giustificarne i motivi al capo dell’ufficio cui è addetto o, dove esiste, all’ufficiale giudiziario dirigente. Per l’inosservanza della disposizione di cui al primo comma gli ufficiali giudiziari sono puniti con la sospensione e per l’inosservanza delle disposizioni prevedute nel secondo comma sono puniti con la censura e nei casi più gravi, con l’ammenda disciplinare, senza pregiudizio, in entrambe le ipotesi, del risarcimento dei danni”).

La disposizione è diretta infatti, evidentemente, a regolare la responsabilità disciplinare dell’ufficiale giudiziario e fa espressamente salve le conseguenze risarcitorie dell’inosservanza delle regole deontologiche ivi dettate, senza tuttavia a sua volta normare tali conseguenze, ma implicitamente rimandando per esse alle norme speciali o generai che presiedono alla responsabilità civile.

Orbene, ai sensi dell’art. 60 c.p.c., n. 1, il ritardo nel compimento dell’atto è fonte di responsabilità civile solo laddove l’alto non sia compiuto “nel termine che, su istanza di parte, è fissato dal giudice” dal quale l’ufficiale giudiziario dipende o dal quale è stato delegato.

Occorre pertanto che, per n compimento dell’atto, sia previamente fissato un termine e che lo sia “dal giudice” e “su istanza di parte”.

Al riguardo si rinviene bensì nella giurisprudenza

un’interpretazione elastica di tale disposizione ma soltanto nel senso che il ritardo (fonte di responsabilità) nel compimento dell’atto può considerarsi sussistere anche se il termine non sia stato fissato dal giudice, ma sia stato legittimamente stabilito dalla parte, come previsto dal D.P.R. n. 1229, art. 136, cit., (ora trasfuso nel D.P.R. n. 115 del 2002, art. 36) che permette di chiedere all’ufficiale giudiziario il compimento di un atto con urgenza, anche nello stesso giorno della richiesta (v. Cass. 10/10/1972, n. 2984, che ha stabilito che incorre in responsabilità civile – ai sensi dell’art. 60 c.p.c., n. 1, l’ufficiale giudiziario che esegue un sequestro conservativo, richiesto con urgenza, non lo stesso giorno della richiesta, ma due giorni dopo con risultato negativo).

Ben più forzata, e certamente contrastante con il dato letterale, risulterebbe invece un’interpretazione quale quella proposta dalla ricorrente secondo cui l’indicazione del termine potrebbe mancare, posto che rientrerebbe nei compiti dello stesso ufficiale giudiziario desumerlo dal contenuto dell’atto.

Un tale onere non trova infatti alcun riscontro nella disciplina di riferimento, neppure nel menzionato e sopra trascritto art. 108, n. 1229 del 1959.

Del resto nel caso di specie l’assunto secondo cui tale termine poteva agevolmente desumersi dall’intestazione dell’atto – oltre ad esporre il ricorso; per tale parte, anche ad un preliminare rilievo di inammissibilità, non avendo la ricorrente, nel far riferimento, fondante, al contenuto dell’atto, provveduto a trascriverne specificamente il contenuto ovvero a localizzarlo nel fascicolo di causa, in violazione dell’onere impostogli dall’art. 366 c.p.c., n. 6, – è smentito dalla stessa successiva argomentazione secondo cui: a) dal testo dell’atto si ricavava la data di notifica della comunicazione del locatore dell’intenzione di alienare l’immobile locato (9/11/2005); b) da tale indicazione l’ufficiale giudiziario, sulla base delle conoscenze da lui esigibili (tra le quali, si assume, quella del termine entro il quale comunicare l’esercizio del diritto di prelazione L. n. 382 del 1978, ex art. 38), sarebbe potuto risalire alla data ultima entro cui notificare utilmente l’atto.

Una tale tesi presuppone dunque evidentemente che: a) l’uff. giud. abbia l’onere di leggere attentamente il contenuto dell’atto da notificare; b) elaborarne giuridicamente i dati rilevanti in funzione dell’atto da compiere. Oneri entrambi che, come detto, non trovano alcun fondamento nel sistema.

6. E’ invece fondato l’unico motivo di ricorso incidentale.

Premesso che il giudizio venne instaurato con atto di citazione notificato in data 8/11/2010, opera, nel caso in esame, in materia di spese processuali, la modifica introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, che – per i giudizi instaurati successivamente alla sua entrata in vigore – ha modificato nuovamente l’art. 92 c.p.c., comma 2, dopo la novella di cui alla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), già applicabile ai procedimenti instaurati successivamente al 1 marzo 2006 (art. 2, comma 4, della medesima legge, come mod. dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, art. 39 quater, conv. con mod. nella L. 23 febbraio 2006, n. 51).

La nuova disposizione, che regola la fattispecie in esame ratione temporis, ha previsto che “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese fra le parti”.

Giova per completezza rammentare che alla norma è stata apportata successivamente una nuova modifica – di tenore ulteriormente restrittivo dalla D.L. 1 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, in L. 10 novembre 2014, n. 162, applicabile ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione (e dunque non al presente), nel senso che la compensazione è limitata alle ipotesi di soccombenza reciproca “ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”.

Tale norma, come noto, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018 nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni (in tal modo segnando un tendenziale ripristino della previgente disciplina, limitato tuttavia dalla considerazione che le altre gravi ed eccezionali ragioni valorizzati ai fini della compensazione delle spese dovranno essere “analoghe” – ossia di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità – a quelle testualmente previste della “assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”).

Nei giudizi instaurati anteriormente all’entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, la compensazione delle spese poteva essere disposta, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, per “giusti motivi esplicitamente indicati dal giudice nella motivazione della sentenza” (v. in argomento, da ultimo, Cass. n. 11284 del 2015), mentre il testo della norma applicabile ratione temporis alla fattispecie, ossia la versione introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, è più rigoroso e consente, come detto, la compensazione solo in presenza di soccombenza o nel concorso di “altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”.

La locuzione “gravi ed eccezionali ragioni” è stata ricondotta nell’interpretazione offerta dalle Sezioni Unite di questa Corte – nell’alveo delle cd. “norme elastiche”, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico – sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche (Cass. Sez. U. 22/02/2012, n. 2572).

Nel caso di specie la formula adottata dai giudici a quibus per motivare la disposta compensazione (“sussistono giusti motivi”) è del tutto generica e non consente di effettuare il necessario controllo sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento della decisione (v. Cass. 25/09/2017, n. 22310; 14/07/2016, n. 14411; 31/05/2016, n. 11217).

La sentenza impugnata va pertanto, sul punto, cassata.

Gli atti offrono esaustivi elementi perchè possa provvedersi in questa sede, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, alla liquidazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, nei termini di cui, in dispositivo.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, nei confronti della ricorrente principale.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; decidendo nel merito, condanna la società Tutto per l’agricoltura s.n.c. alla rifusione delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, liquidate: a) per il primo grado in Euro 1.500 per diritti ed Euro 2.500 per onorari; b) per il secondo grado in Euro 4.000 per compensi; oltre alle spese forfettarie nella misura del 12,50 per cento per il primo grado e del 15 per cento per il secondo ed agli accessori di legge.

Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 2.200 per compensi, oltre Euro 200 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2018

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