Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24200 del 04/10/2018

Cassazione civile sez. III, 04/10/2018, (ud. 13/09/2018, dep. 04/10/2018), n.24200

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 713/2017 R.G. proposto da:

B.G., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Pietro

Trabucchi, Sara Trabucchi e Luigia D’Amico, con domicilio eletto

presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Cicerone, n. 49;

– ricorrente –

contro

Z.L., e Bo.Ro., rappresentate e difese dagli

Avv.ti Salvatore Mango, Lorenzo Lillo e Settimio Corbo, con

domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale

Lina Cavalieri, n. 76/g;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia, n. 2479/2616,

depositata il 3 novembre 2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 settembre

2018 dal Consigliere Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Bo.Gi. convenne in giudizio, nel 1999, innanzi al Tribunale di Verona, il commercialista B.G., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti per asserita responsabilità professionale.

Secondo l’attore questi aveva, con imperizia, tenuto una condotta omissiva e contraria alle istruzioni ricevute in occasione del mancato appello nei termini di legge avverso la decisione della Commissione Tributaria di Verona n. 1135 del 9 aprile 1991, relativa ai ricorsi avverso gli avvisi di rettifica del locale Ufficio IVA relativi agli anni 1983, 1984, 1985 e 1986 e ad imposte poi non potute neppure condonare ex lege n. 413 del 1991, in assenza della pendenza del contenzioso.

La domanda venne accolta in primo grado, con decisione confermata dalla Corte d’appello di Venezia.

2. Con sentenza n. 10189 del 09/05/2014 questa Corte cassò, con rinvio, la sentenza d’appello, in accoglimento del terzo e quarto motivo del ricorso proposto dal professionista.

2.1. Ritenne, infatti, non congruamente motivato il giudizio di irrilevanza dell’accertamento della tempestività dell’istanza di condono, in quanto effettuata quando non era ancora divenuta definitiva la sentenza (tributaria) di primo grado per effetto della sospensione dei termini, osservando di contro che “l’accertamento, sulla scorta delle acquisite emergenze istruttorie, circa la proposizione dell’istanza di condono concordata o meno nel rapporto professionista-cliente appare rivestire valore determinante al fine della decisione della controversia”.

2.2. Preciso che andava, piuttosto, “verificata – anche sotto l’aspetto del consenso informato – la sussistenza o meno di una volontà (del cliente, del professionista o di entrambi) di proporre la detta istanza di condono o, alternativamente, di ricorrere al giudice tributario di secondo grado. Tanto, per di più, in ragione della verifica delle reali intenzioni delle parti del rapporto professionale, della cognizione che le stesse avevano circa le aspettative sulla definizione della controversia tributaria anche in dipendenza del periodo del fatto e di quello (successivo) di promulgazione della L. n. 413 del 1991”.

Evidenziò infatti che, intanto è corretto affermare che “il professionista deve porre il cliente in grado di decidere consapevolmente, sulla base della valutazione ponderata di tutti gli elementi favorevoli e contrari della situazione dedotta in rapporto ragionevolmente prevedibili, se affrontare o meno i rischi, di varia natura a seconda dell’attività richiesta al professionista, ai quali questa lo esponga o possa eventualmente esporlo”, in quanto si dia conto, “con compiuta, adeguata e logica motivazione… della verifica dei (relativi) presupposti di fatto”, ciò che la Corte d’appello non aveva fatto.

Ritenne al riguardo ingiustificata la valutazione di irrilevanza dell’accertamento “se vi (fosse) stato o meno da parte del cliente l’incarico di impugnare la decisione n. 1135/1991 alla luce dell’onere di informazione che gravava sul professionista”.

Osservò infatti che “propria per la gravità delle conseguenze, poi ritenute dalla Corte a qua “riguardo all’aspetto risarcitorio” della fattispecie, andava adeguatamente sostenuta, con argomentazioni logiche ed approfondite, proprio quella risultanza o meno dell’incarico da parte del cliente di impugnare la decisione della Commissione tributaria di primo grado.

“Tanto a maggior ragione in dipendenza della circostanza che, in ipotesi, l’esclusione o la mancanza di tale incarico conferiscono ben altra valenza anche al citato “onere professionale di informazione”.

“Quest’ultimo – quale fonte di responsabilità risarcitoria – sarebbe, alla stregua di corretta valutazione nel merito cui non può provvedere questa Corte, del tutto escluso o parzialmente escluso (sotto il profila della concorrenza) nel caso, da verificare nell’ipotesi dedotta in giudizio, di manifestazione ostativa o mancato conferimento dell’incarico professionale de quo”.

3. Pronunciando in sede di rinvio, la Corte d’appello di Venezia, con la sentenza in epgrafe, ha nuovamente rigettato l’appello proposto dal B., condannandolo alle spese di lite.

Ha in sintesi rilevato che:

– l’istanza di condono fu presentata tempestivamente, in data 17/6/1992, con il corretto e integrale versamento della somma a tal fine dovuta;

– è pacifico tra le parti che il Bo. non conferì mandato al B. per l’appello, ma “è altrettanto indiscutibile che ciò è stata la conseguenza della convinzione risoluta ed irriducibile del professionista che l’appello non occorreva perchè bastava fare il condono tempestivamente, a termini per l’appello ancora aperti”;

– “le argomentazioni della parte resistente dimostrano con evidenza che non vi fu consenso informato o che esso non fu completo perchè il commercialista ha rappresentata al cliente solo la sua personale ricostruzione della normativa in materia senza porsi il dubbio.. se non fosse possibile un’interpretazione diversa della farraginosa ed alluvionale normativa sul condono”; dubbio che – affermano i giudici a quibus -“avrebbe dovuto insorgere perchè il legislatore prorogava sia i termini per proporre condono sia quelli utili per proporre gravame e perchè non vi erano precedenti normative a cui far riferimento”;

– l’assunto del commercialista secondo cui il Bo. aveva pagato erroneamente le cartelle esattoriali successivamente emesse dall’Ufficio, posto che si sarebbe potuto resistere alla pretesa, “attiene più propriamente al nesso causale” e “rivela la convinzione del B. talmente radicata ed incrollabile che egli non si è prefigurato possibili alternative alla soluzione caldeggiata e proposta al cliente”, come invece diligenza avrebbe imposto considerato anche che “a distanza di anni la giurisprudenza di legittimità continua a mostrarsi perplessa”.

4. Avverso tale decisione B.G. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, cui resistono le intimate, subentrate jure successionis all’originario attore già in grado d’appello, depositando controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, “per contraddittorietà del ragionamento”.

Premesso che la Corte veneta risponde ai quesiti posti dalla sentenza di cassazione con rinvio accertando, da un lato, che l’istanza di definizione agevolata ex lege n. 913 del 1991 fu presentata tempestivamente in data 17/6/1992 e che la somma versata era corrispondente al dovuto, dall’altro, che il Bo. non conferì mandato al B. per l’appello, con ciò confutando i presupposti che in primo grado erano stati posti a fondamento della condanna (avendo il tribunale affermato la responsabilità del professionista sul presupposto che la domanda di condono fosse tardiva in mancanza di litispendenza), ciò premesso il ricorrente lamenta che contraddittoriamente la Corte conclude nel senso che fosse necessario l’appello, così compiendo una valutazione dei fatti acquisiti non conformi al ragionamento richiesto dalla Suprema Corte.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ancora, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, per avere la Corte di merita tratto il convincimento della violazione dell’onere di corretta informazione del cliente assumendo l’esistenza di dubbi interpretativi sulla base di decisioni della Suprema Corte non riferibili al caso in esame e senza tener conto dei benefici che il Bo. ha tratto dalla presentazione della definizione automatica.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione dell’art. 12 preleggi, comma 1, in relazione alla L. n. 413 del 1991, art. 98, comma 2 e all’art. 57, comma 1; omessa valutazione delle conseguenze a carico del dr. B.; violazione dell’art. 2697 c.c..

Lamenta in sintesi che il giudice di rinvio ha ritenuto irrilevante (poichè attinente al nesso causale) la valutazione circa l’incidenza, nella fattispecie, della scelta del contribuente di non impugnare le cartelle esattoriali notificategli dall’Ufficio sulla base dell’assunto della inammissibilità dell’istanza di condono – assunto, secondo il ricorrente erroneo e resistibile, sulla base degli accertati dati di fatto.

4. I tre motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, sono fondati.

Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza del giudice di rinvio fondato sulla deduzione della infedele esecuzione dei compiti affidatigli con la precedente pronuncia di annullamento, il sindacato della S.C. si risolve nel controllo dei poteri propri del suddetto giudice di rinvio, per effetto di tale affidamento e dell’osservanza dei relativi limiti, la cui estensione varia a seconda che l’annullamento stesso sia avvenuto per violazione di norrre di diritto ovvero per vizi della motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in quanto, nella prima ipotesi, egli è tenuto soltanto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti, già acquisiti al processo, mentre, nel secondo caso, la sentenza rescindente – indicando i punti specifici di carenza o di contraddittorietà della motivazione – non limita il potere del giudice di rinvio all’esame dei soli punti indicati, da considerarsi come isolati dal restante materiale probatorio, ma conserva al giudice stesso tutte le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di merito, relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento. In quest’ultima ipotesi, poi, il giudice di rinvio, nel rinnovare il giudizio, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente od implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza del discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati (v. e pluritnis Cass, 02/02/2018, n. 2652; 06/07/2017, n. 16660; 29/05/2019, n. 12102; 03/07/2009, n. 15692).

Nel caso di specie accade per l’appunto che la valutazione degli elementi istruttori, rinnovata e integrata dal giudice del rinvio nei punti specificamente richiesti dalla sentenza rescidente, ne tradisca lo schema argomentativo esplicitamente enunciato e che la giustificazione della ribadita responsabilità del professionista risulti palesemente incoerente e comunque sostanzialmente immotivata.

La sentenza rescindente aveva infatti evidenziato l’imprescindibilità di due accertamenti: da un lato, quello relativo alla tempestività della presentazione dell’istanza di definizione agevolata (se cioè la stessa fosse stata proposta prima o dopo la scadenza del termine per impugnare la sentenza di prima grado della Commissione Tributaria di Verona); dall’altro, se vi (fosse) stato o meno da parte del cliente l’incarico di impugnare la decisione della Commissione tributaria di primo grado, con la precisazione che “l’esclusione o la mancanza di tale incarico conferiscono ben altra valenza anche al citato “onere professionale di informazione””, dal momento che quest’ultimo resterebbe “del tutto o parzialmente escluso”, nel caso di “manifestazione ostativa o mancato conferimento dell’incarico professionale de quo”.

Orbene, su entrambi tali aspetti gli accertamenti in fatto compiuti dal giudice del rinvio sono chiari e inequivoci, e in sè non sono del resto fatti segno di censura alcuna:

– l’istanza di definizione agevolata, presentata in data 17/6/1992, fu tempestiva;

– è pacifico tra le parti che il Bo. non conferì mandato al B. per l’appello ed anzi vi era accordo tra professionista e cliente di non proporlo e di presentare piuttosto istanza di condono.

Secondo lo schema argomentativo delineato dalla sentenza di cassazione tali dati di fatto, e segnatamente il secondo accertamento, avrebbero dovuto condurre alla totale o quanto meno parziale esclusione della dedotta responsabilità professionale.

La Corte di merito giunge invece alla riaffermazione di una piena responsabilità del professionista, per inosservanza dell’obbligo di corretta informazione del cliente.

Di tale convincimento dà però una giustificazione che fuoriesce dai binari tracciati dal a sentenza rescindente.

Si assume infatti che il mancato conferimento del mandato a proporre appello sia frutto della “convinzione risoluta ed irriducibile del professionista che l’appello non occorreva perchè bastava fare il condono tempestivamente, a termini per l’appello ancora aperti” e che resterebbe pertanto comunque ravvisabile una colpa del professionista per mancata o incompleta informazione del cliente, ovvero per non aver rappresentato la possibilità di una diversa interpretazione delle norme (s’intende, per quel che concerne detto specifico aspetto: ossia la necessità della proposizione dell’appello ai fini della valida presentazione dell’istanza di condono).

In tali termini, appare evidente l’allontanamento dallo schema segnato dalla sentenza rescindente: questa invero aveva evidenziato la necessità di modulare l’onere informativo e valutarne l’eventuale inosservanza a seconda che risultasse o meno conferito l’incarico di proporre appello; il giudice del rinvio all’opposto muove da una aprioristica configurazione dell’onere informativo che in concreto avrebbe dovuto osservare il professionista nella fattispecie e da questo fa dipendere la spiegazione del mancato conferimento del mandato a proporre appello.

5. in realtà, dati i limiti tracciati dalla sentenza rescindente, una volta accertato che il cliente non aveva conferito l’incarico di proporre appello, nè manifestato una volontà in tal senso ed aveva invece convenuto per l’opportunità di presentare istanza di definizione agevolala, poteva al più ipotizzarsi una responsabilità (solo) concorrente del professionista in uno dei seguenti casi: a) ove avesse proposto tardivamente l’istanza di condono; b) ove avesse fornito un’informazione erronea o incompleta circa i presupposti richiesti dalla norma per la presentazione, con prevedibili possibilità di accoglimento, dell’istanza medesima (ovvero circa gli eventuali dubbi interpretativi in ordine a questa).

Esclusa la prima ipotesi, restava da valutare la seconda.

Tale valutazione viene bensì operata in sentenza, con esito negativo, ma risulta sostanzialmente immotivata.

La Corte veneta assume infatti resistenza di dubbi interpretativi circa la necessità, perchè potesse validamente proporsi istanza di definizione agevolata ex lege n. 413 del 1991, della proposizione dell’appello e l’insufficienza a tal fine della mera pendenza della controversia, alla data di presentazione dell’istanza (nel caso in esame successiva a quella di entrata in vigore della legge sul condono).

Motiva tale convincimento assumendo che lo stesso troverebbe riscontro in alcune pronunce della Suprema Corte (Cass. n. 11235 del 2002; n. 15475 del 2003; n. 17371 del 2009; n. 25760 del 2014), in nessuna delle quali però è dato rinvenire una siffatta, neppure implicita, interpretazione del dato normativo (occupandosi le stesse di questioni affatto diverse).

Omette invece di considerare il principio, evidentemente conforme alla tesi sostenuta dal professionista e incontrastato della giurisprudenza di questa Corte, affermato da Cass. 16/06/2006, n. 14059, secondo il quale “in tema di condono fiscale, la L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 53, comma 1, ha previsto la definizione agevolata delle controversie pendenti alla data del 30 settembre 1991, ossia iniziate prima di tale data, e che alla data del 1 gennaio 1992, di entrata in vigore della legge, fossero ancora pendenti (come si evince dal successivo comma 8): delle controversie, quindi, per le quali alla detta data del 1 gennaio 1992 non fosse stata emessa alcuna decisione, o, se giudizialmente definite, fosse stata proposta impugnazione avverso la relativa decisione ovvero pendesse il termine per proporla (enfasi aggiunta); in ogni caso, delle controversie il cui giudizio potesse essere sospeso per effetto della domanda di condono (comma 12), e non anche, conseguentemente, delle controversie di cui non fosse più possibile la sospensione dei termini di impugnazione (peraltro prevista solo in un momento successivo, in sede di conversione del D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, avvenuta con la L. 24 marzo 1993, n. 75, inapplicabile alla fattispecie), per le quali, cioè, alla data di presentazione della domanda stessa la decisione fosse divenuta definitiva, perchè passata in giudicato per omessa impugnazione nel termine prescritto”.

6. Per completezza mette conto a questo punto rilevare che la giurisprudenza tributaria ha pure per vero affermato, con riferimento attiva, in conformità con la sentenza della Corte di Giustizia CE 17 luglio 2008, in causa C-132/06, l’incompatibilità con gli obblighi di cui agli arti. 2 e 22 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388 CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative all’I.V.A di tutte le misure condonistiche, compresa quella di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 44 che comportino “una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie ci periodi di imposta” (v. Cass. 24/07/2009, n. 17371; 18/09/2009, n. 20068; 09/12/2009, n. 25701; 30/12/2009, n. 28018).

Si tratta però di circostanza che – sebbene avrebbe potuto comportare l’insuccesso della domanda di definizione agevolata de qua – non può comunque assumere rilievo ai fini che occupano, atteso che:

– rileva, come detto, solo per la parte della pendenza tributaria riferita all’Iva;

– trattasi di principio affermato dalla Corte di Giustizia Europea oltre dieci anni dopo i fatti di che trattasi e che pertanto non poteva ovviamente essere conosciuto dal professionista;

– ove fosse stato possibile tenerlo presente offriva comunque al contribuente (e al suo professionista), la sola alternativa di proporre appello avverso la decisione sfavorevole della commissione di primo grado;

– è accertato in sentenza che il cliente non diede incarico per proporre appello, nè che tale eventualità fu in alcun modo presa in considerazione;

– in ogni caso nè in sentenza nè in ricorso v’è un solo accenno ai termini sostanziali della controversia tributaria, nè alle chance che la proposizione dell’appello avrebbe potuto offrire al cliente per una soluzione più favorevole della controversia; il tema, anzi, può dirsi esula del tutto dall’oggetto del giudizio, riferito sole al quesito se, al fine di proporre istanza di condono, bastasse la pendenza del termine per impugnare o fosse invece necessario anche proporre comunque appello e mantenere la lite pendente fino alla determinazione dell’Ufficio sull’istanza di condono e se il professionista sia o meno incorso in responsabilità professionale per avere interpretato le norme nel primo senso e improntato di conseguenza la propria condotta nel rapporto col cliente.

7. Il ricorso merita pertanto accoglimento.

La sentenza impugnata va conseguentemente cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda introduttiva.

Avuto riguardo allo svolgimento del processo si ravvisano giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito.

Alla soccombenza segue la condanna dei controricorrenti al Pagamento, in favore del ricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza; decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le parti le spese del giudizio di merito. Condanna le controricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di entrambi i giudizi di legittimità, liquidate in Euro 5.000 per quello concluso con la sentenza rescindente n. 10189 del 2014 e in Euro 3.000 per il presente giudizio di legittimità, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2018

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