Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24200 del 02/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 02/11/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 02/11/2020), n.24200

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1720/2016 proposto da:

V.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI

n. 123, presso lo studio dell’avvocato BENEDETTO SPINOSA, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CASSA DEPOSITI E PRESTITI S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

L. G. FARAVELLI 22, presso lo studio degli avvocati ARTURO MARESCA,

MONICA GRASSI, che la rappresentano e difendono unitamente

all’avvocato STEFANO GIANNUNZIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6670/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/10/2015 R.G.N. 1033/2012.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 6670 del 2015, ha confermato il rigetto della domanda proposta da V.F., dipendente della soc. Rotoclass, nei confronti della s.p.a. Cassa Depositi e Prestiti, avente ad oggetto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della convenuta, quale effetto della declaratoria di illegittima interposizione di manodopera.

2. La Corte di appello ha dato atto che il Giudice di primo grado, con un ampio e approfondito esame delle risultanze istruttorie, aveva escluso l’illegittimità dell’appalto stipulato tra la Rotoclass e la Cassa Depositi e Prestiti, valutando la fattispecie alla luce sia del D.Lgs. n. 276 nel 2003, sia della L. n. 1369 del 1960, ed applicando i principi comuni a entrambe le normative. Ha poi disatteso le singole censure svolte dall’appellante, argomentando in sintesi come segue:

– in merito alla doglianza per cui non sarebbe stata verificata l’estraneità delle mansioni concretamente espletate dal ricorrente all’oggetto del contratto di appalto, si tratta di censura in parte generica, non essendo stato precisato in che modo l’esame dei contratti potesse far pervenire ad una diversa decisione, e in parte tardiva, mancando nel ricorso originario l’allegazione relativa alla prospettata estraneità delle mansioni al contenuto del contratto; il fatto che la società Cassa Depositi e Prestiti non avesse contestato specificamente i fatti e la documentazione prodotta è irrilevante a fronte della tardività della suddetta allegazione;

– infondata è la censura relativa alla riduzione della lista testimoniale e alla mancata ammissione di documenti, stante il carattere discrezionale delle scelte sulle modalità istruttorie, tanto più in assenza di contraddittorietà tra le prove già acquisite e in mancanza di un chiarimento circa le ragioni per le quali la documentazione non era stata prodotta con l’atto introduttivo;

– circa il fatto che la società appaltatrice avrebbe utilizzato strumenti della società appaltante con conseguente presunzione assoluta di illiceità dell’appalto in base alla L. n. 1369 del 1960, il motivo è inammissibile per tardività delle relative allegazioni, assenti nel ricorso originario, il quale peraltro lamentava la violazione del D.Lgs. n. 276 del 2003;

– la censura per cui il giudice di primo grado non avrebbe valutato che il corrispettivo dell’appalto era predeterminato, da cui l’assenza di rischio di impresa in capo alla società appaltatrice Rotoclass, non considera che i costi del servizio dipendevano dalle modalità di utilizzo delle risorse deciso dalla appaltatrice, come risulta dalla prova testimoniale;

– dall’istruttoria è emerso che erano i responsabili della Rotoclass a gestire il rapporto di lavoro dei dipendenti dell’appaltatrice, pur essendo presenti i preposti della committente nei luoghi dove gli appellanti effettuavano la propria prestazione; i responsabili della Rotoclass provvedevano alla selezione del personale da assegnare l’appalto, al riconoscimento di ferie e permessi, alla corretta esecuzione della prestazione; la Rotoclass era dotata di un’autonoma organizzazione, certamente non di mera intermediazione tra i lavoratori e la committente;

– non ha formato oggetto di censure l’ulteriore considerazione del primo giudice secondo cui l’esistenza del rischio di impresa era desumibile anche dal fatto che era l’appaltatrice ad affrontare i costi fissi connessi all’utilizzo del personale e alla fornitura dei macchinari, a fronte di ricavi predeterminati, con la conseguenza che eventuali oneri relativi alla assenza o riduzione delle prestazioni lavorative o dalla sostituzione degli strumenti gravavano esclusivamente sulla Rotoclass s.p.a..

3. Per la cassazione di tale sentenza V.F. ha proposto ricorso affidato ad un motivo. Cassa Depositi e Prestiti s.p.a. ha resistito con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

5. Con unico motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,414,416 e 434 c.p.c., violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 20-29, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Si sostiene che:

– nell’atto introduttivo erano state prospettate quattro diverse modalità di esecuzione del rapporto di lavoro, con specifica indicazione dei singoli periodi, delle diverse mansioni espletate e della loro riconducibilità a diversi profili professionali; per il primo e il terzo periodo (rispettivamente dal 12 novembre 2004 al novembre 2004 e dall’ottobre 2005 al dicembre 2007) il giudice di primo grado non aveva ammesso la prova per testi, con grave lacuna nell’accertamento istruttorio;

– nell’atto di appello era stato evidenziato che i compiti svolti non erano relativi alla movimentazione dei fascicoli, ma all’esecuzione di compiti di commesso e di archivista, svolti sotto la direzione e il controllo della committente, e che tali compiti erano estranei al contratto di appalto;

– sempre nell’atto di appello era stata evidenziata l’indeterminatezza dell’oggetto del contratto di appalto (“contratto di manutenzione e gestione impianti di archiviazione e movimentazione cartacea”), che non consentiva di comprendere se le diverse mansioni effettivamente espletate fossero o meno riconducibili nell’ambito di tale oggetto;

– l’affermazione secondo cui facevano capo alla Rotoclass la selezione del personale da assegnare all’appalto, il rilascio di permessi e ferie non è dirimente, trattandosi di attività che attengono alla fase amministrativa del rapporto di lavoro e non alla fase della sua esecuzione;

– dalle deposizioni era invece emerso che le mansioni svolte dal ricorrente appartenevano al medesimo processo produttivo di quelle svolte dal personale dipendente della Cassa, come si legge anche dai documenti prodotti; dunque il ricorrente era incardinato nella organizzazione della società convenuta.

6. Il ricorso è infondato.

7. Occorre premettere che il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, pur nella ridefinizione dei confini del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro;

– che, originariamente previsto ex art. 2127 c.c., soltanto per i lavori a cottimo, era stato poi esteso ad ogni attività di lavoro subordinato dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1 (poi abrogata del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 85, comma 1, lett. c) – ha ribadito la sostanza del divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, dettando la disciplina degli strumenti leciti all’interno della vicenda interpositoria (appalti, somministrazione, distacco), nonchè quella sanzionatoria nelle ipotesi di somministrazione irregolare e appalto non genuino. L’impianto sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, consente al lavoratore, sia nelle ipotesi di somministrazione irregolare (stipulata “al di fuori dai limiti e delle condizioni” previste, art. 27), sia nelle ipotesi di appalto fittizio (“stipulato in violazione” di legge, art. 29, comma 3-bis), la proposizione di un ricorso giudiziale, notificato anche soltanto nei confronti del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, con cui richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione o dell’appalto non genuini (Cass. S.U. n. 2990 del 2018, in motivazione). Pertanto, pur a seguito dell’abrogazione espressa della L. n. 1369 del 1960, ad opera del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 85, che ha introdotto una regolamentazione dettagliata della somministrazione di lavoro, permane l’impianto fondamentale del divieto di interposizione al di fuori dei casi consentiti.

8. Il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 1, nel definire il contratto di appalto (genuino) rispetto a quello di somministrazione di lavoro, disciplinato dagli artt. 20-28 dello stesso Decreto, richiama i due principali elementi che per la disciplina di cui all’art. 1655 c.c., caratterizzano il contratto di appalto, ossia la permanenza in capo all’appaltatore dell’esercizio del potere direttivo e organizzativo nei confronti dei dipendenti utilizzati nell’appalto e l’assunzione del rischio di impresa. Requisiti questi che, con accertamento di merito, la Corte di appello ha ritenuto sussistenti nella specie.

9. Secondo la giurisprudenza formatasi nella vigenza della L. n. 1369 del 1960, qualora venga prospettata una intermediazione vietata di manodopera nei rapporti tra società dotate entrambe di propria genuina organizzazione d’impresa, il giudice del merito deve accertare se la società appaltante svolga un intervento direttamente dispositivo e di controllo sulle persone dipendenti dall’appaltatore del servizio, non essendo sufficiente a configurare la intermediazione vietata il mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto (Cass. n. 12664 del 2003). Sono leciti gli appalti di opere e servizi che, pur espletabili con mere prestazioni di manodopera, costituiscano un servizio in sè, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza diretti interventi dispositivi e di controllo dell’appaltante sulle persone dipendenti dall’altro soggetto (Cass. n. 8643 del 2001).

10. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha escluso che la Cassa Depositi e Prestiti esercitasse siffatto potere direttamente sulle persone assegnate all’appalto. Contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente, la sentenza non menziona solo attività di ordine amministrativo facenti capo alla società appaltatrice Rotoclass, datrice di lavoro del V., ma riferisce che ad essa faceva capo pure il controllo della “corretta esecuzione della prestazione”, pur essendo presenti sul posto di lavoro i preposti della committente. Precisa poi che i testi avevano “smentito che l’appellante ricevesse ordini e direttive dal personale della Cassa, essendo sempre presente un referente della Rotoclass, che gestiva e distribuiva i compiti e controllava il lavoro svolto” (pag. 4 sent.).

11. La Corte di appello ha altresì argomentato circa l’esistenza di un rischio di impresa facente capo alla società appaltatrice con ragionamento logicamente e giuridicamente corretto.

12. Il ricorso tende piuttosto ad una rivisitazione del merito relativamente all’esito delle risultanze istruttorie. Esso, pur denunciando un’erronea ricognizione della fattispecie legale, in realtà allude ad una erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta previa ricostruzione dei fatti secondo un diverso apprezzamento di merito e non secondo la ricostruzione fattuale posta a base della sentenza impugnata.

13. Il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

14. Il ricorso è altresì privo di specificità al decisum, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Esso denuncia l’incompleto esame della domanda in ragione dell’articolazione dei periodi e delle diverse modalità di svolgimento delle mansioni nell’arco temporale dedotto in giudizio. Tuttavia, omette di considerare la soluzione processuale che la Corte di appello ha dato alla questione, evidenziando che era mancata nell’atto introduttivo l’allegazione riguardante l’estraneità delle mansioni (in concreto svolte) al contenuto dell’appalto di servizi stipulato tra la Cassa Depositi e Prestiti e la Rotoclass, per cui era tardiva ex art. 434 c.p.c., l’allegazione introdotta in appello. Il ricorso non si confronta con tale questione processuale e sul punto ogni altra considerazione, peraltro riguardante il merito, è inammissibile.

15.L’attuale ricorrente per cassazione ha, inoltre, omesso completamente di riportare i motivi di appello, così incorrendo nella violazione degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, per cui non è dato conoscere in quali esatti termini le questioni di diritto (processuale o sostanziale) vertenti sulla integrazione e sulla valutazione delle prove fossero state devolute al giudice di appello, onde consentire di verificare che le questioni oggetto del ricorso – nei termini in cui sono state denunciate in sede di legittimità – fossero state, ciascuna di esse e in quali termini, già devolute al giudice di appello.

16. Inoltre, va osservato che l’omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’assenza di motivazione su un punto decisivo della controversia. Grava sulla parte ricorrente per cassazione l’onere di allegare che la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto fosse idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito (cfr. Cass. n. 27415 del 2018).

17. Nel caso in esame, il ricorrente per cassazione non ha chiarito in quali termini la prova non ammessa (rectius, il mancato prosieguo della prova testimoniale) avesse carattere concludente nel senso sopra indicato.

18. Nè una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., può, nella presente sede, porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (Cass. n. 27000 del 2016).

19. E’ poi da rilevare che la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (Cass. 17 giugno 2013, n. 7 15107): ciò che nel caso in esame non è avvenuto.

20.In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

21. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2020

 

 

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