Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24196 del 25/10/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 24196 Anno 2013
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 19592-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

2621

DAMA PASQUALINA;
– intimata –

e sul ricorso 20736-2008 proposto da:

Data pubblicazione: 25/10/2013

DAMA

PASQUALINA

DMAPQL71S54E472R,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio
dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che la rappresenta e
difende, giusta delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale –

POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585;
– intimata –

avverso la sentenza n. 8758/2006 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/07/2007 R.G.N.
3773/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/09/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato BONFRATE FRANCESCA per delega Aalt>
FIORILLO LUIGI;
udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto di entrambi i ricorsi.

contro

R.G. 19592+20736/2008
FATTO E DIRITTO
Con sentenza del 25-10/30-12-2002 il Giudice del lavoro del Tribunale di
Roma respingeva la domanda proposta da Pasqualina Dama nei confronti della

finale apposto ai contratti di lavoro conclusi tra le parti (per il periodo 20-71998/30-9-1998 per “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di
assenze per ferie” e per il periodo 1-4-1999/31-5-1999 per “esigenze
eccezionali…” ex art.8 ceni 1994 come integrato dall’accordo 25-9-1997 e
succ.) con le pronunce consequenziali.
La Dama proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la
riforma con raccoglimento della domanda.
La società si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 13-7-2007, in
parziale accoglimento dell’appello, dichiarava la nullità del termine apposto al
contratto a tempo determinato stipulato in data 31-3-1999 e, per l’effetto,
dichiarava che tra le parti sussisteva un rapporto a tempo indeterminato dal 14-1999 e ancora in atto; condannava altresì la s.p.a. Poste Italiane al pagamento
in favore della Dama di un importo pari alle retribuzioni maturate a far tempo
dalla data di costituzione in mora (10-10-2000) nel limiti del triennio
decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con quattro
motivi.

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s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine

La Dama ha resistito con controricorso ed ha avanzato ricorso incidentale
con nove motivi, depositando anche, da ultimo, memoria ex art. 378 c.p.c..
Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.
Ciò posto, riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c., il

censura, sotto vari profili, la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato
la nullità del termine apposto al secondo contratto.
In particolare la ricorrente principale: con il primo motivo contesta la
effettiva sussistenza del limite temporale del 30-4-1998, fissato dalle parti
collettive per la conclusione dei contratti a termine per “esigenze eccezionali”
ai sensi dell’acc. 25-9-97 e dei successivi accordi attuativi, sostenendo la
natura meramente ricognitiva di tali accordi; con il secondo motivo lamenta
vizio di motivazione sul punto; con il terzo motivo denuncia violazione degli
artt. 421, 425 e 437 c.p.c., in relazione alle informazioni assunte dai
rappresentanti sindacali, che avevano evidenziato che in sostanza, “vi era un
tavolo negoziale continuo”.
I motivi sono infondati in base all’indirizzo ormai consolidato in materia
dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente, ratione temporis,
anteriormente al ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro

Collegio rileva che con i primi tre motivi del ricorso principale la società

diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a

contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di
procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.
anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste
dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,
Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia
stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto
collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la
sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
3

condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare

dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo

contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio vanno quindi respinti i detti primi tre
motivi, avendo la Corte di merito chiaramente e correttamente affermato che
fino al 30-4-1998 la società poteva concludere validamente contratti a termine
per le dette “esigenze eccezionali”, essendo a ciò stata autorizzata dagli accordi
collettivi, mentre al di fuori di tale limite temporale difettava la contrattazione
autorizzatoria con conseguente invalidità dei contratti conclusi oltre il limite
stesso.
Peraltro correttamente la sentenza impugnata ha rilevato che non può
ostare a tale conclusione il fatto che le parti collettive hanno anche
successivamente convenuto la necessità di ricorrere a contratti a termine,
giacché ciò è avvenuto soltanto con il contratto collettivo del 2001 e con
l’accordo del 18-1-2001, con effetto ex nunc e senza alcun effetto sanante delle
situazioni pregresse. (v. Cass. 12-3-2004 n. 5141 e successive).
Del resto anche la permanenza di “un tavolo negoziale continuo”, invocata
dalla società con il terzo motivo, per nulla appare decisiva in senso contrario
alla detta conclusione.

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derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi

Con il quarto motivo, poi, la ricorrente principale lamenta che la Corte di
merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine alla effettiva messa in mora
del datore di lavoro e non avrebbe tenuto conto della possibilità che il
lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta

richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del
lavoratore.
La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto:

“Dica la

Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il
lavoratore — a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del
contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni
soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in
mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel
rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. cod. civ. “.
Tale quesito non riguarda il tema dell’ aliunde perceptum e comunque,
anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e
non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione
in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di
conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di
merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80). Il quesito di diritto,
richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla
giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in
maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in
giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendo in sostanza integrare (in

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cessato il rapporto di lavoro con la società resistente, disattendendo, peraltro, le

base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica
sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).
Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione
del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si

in mora, senza considerare lo specifico

decisum sul punto e senza

minimamente riportare il contenuto della lettera del 10-10-2000 che, secondo
la ricorrente, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non
avrebbe integrato un atto di messa in mora.
Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum (in relazione al quale
manca del tutto il quesito) alcunché di specifico viene poi indicato dalla
ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale
acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente
proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n.
17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099 -).
Così risultato inammissibile il quarto motivo, riguardante le conseguenze
economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche
modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art. 32,
commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di
principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di
legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in
qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso,
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incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica effettiva della messa

in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 272-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe,

essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v.
fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).
Orbene tale condizione non sussiste nel ricorso della società.
Così respinto il ricorso principale va, poi, dichiarato inammissibile, per
sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso incidentale con il quale la Dama
censura, sotto vari profili sviluppati in nove motivi, la determinazione del
quantum del risarcimento del danno nei soli limiti del periodo che va dalla
messa in mora (10-10-2000) fino al compimento del triennio dalla cessazione
del rapporto a termine (31-5-2002).
Al riguardo, infatti, pur essendo validi i motivi, corredati da idonei quesiti
ex art. 366 bis c.p.c., va rilevato che, alla luce del citato ius superveniens

a

prescindere dalla correttezza o meno della statuizione impugnata in base alla
disciplina previgente -, comunque il ricorso della lavoratrice non potrebbe
trovare accoglimento in considerazione del divieto di reformatio in peius, non
potendo in ogni caso la ricorrente incidentale ottenere, in base alla nuova
disciplina, più di quanto le è stato già riconosciuto dalla Corte di Appello (v.
Cass. n. 2044/2013, Cass. n. 8305- 8852 -11159- 11464- 11787/2012).
Infine, in ragione della sostanziale soccombenza prevalente della
ricorrente principale, quest’ultima va condannata al pagamento delle spese.
P. Q.M.
7

anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara
inammissibile il ricorso incidentale; condanna la s.p.a. Poste Italiane a pagare
alla Dama le spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per
compensi, oltre accessori di legge.

Roma 19 settembre 2013

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