Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24193 del 02/11/2020

Cassazione civile sez. III, 02/11/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 02/11/2020), n.24193

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28793/2019 proposto da:

E.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MUZIO

CLEMENTI 51, presso lo studio dell’avvocato VALERIO SANTAGATA,

rappresentato e difeso dall’avvocato RAFFAELE MIRAGLIA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1202/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 10/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

08/07/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- E.E. propone ricorso, articolato in cinque motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno – Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bologna, avverso la sentenza n. 1202/2019 della Corte d’Appello di Brescia, pubblicata in data 10.4.2019, non notificata, con la quale si è confermato il diniego di tutte le varie forme di protezione internazionale richieste.

2. – Il Ministero deposita atto con il quale manifesta la disponibilità a partecipare alla discussione, ove sia fissata udienza pubblica.

3. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

4. – Il ricorrente, proveniente dalla Nigeria, regione dell’EDO STATE, riporta nel ricorso la sua vicenda personale, esposta dettagliatamente nella sentenza impugnata: di essere nato a (OMISSIS), di avere una numerosa famiglia in Nigeria, di aver studiato, e poi lavorato come imbianchino e piastrellista, di aver concluso un contratto per la costruzione di una scuola con una persona che non lo aveva pagato e, alle sue rimostranze, lo aveva fatto picchiare e aveva fatto devastare il suo alloggio, che vane erano state le sue denunce alla polizia perchè si trattava di un uomo potente, il che lo avrebbe indotto a lasciare il paese. Fa presente di aver chiesto in origine sia il riconoscimento dello status di rifugiato che la protezione sussidiaria che la protezione umanitaria, concentrando poi le domande sulla protezione sussidiaria e sulla umanitaria.

5. – Il tribunale riteneva poco credibile la vicenda personale riferita dal ricorrente.

6. – La corte d’appello, con motivazione sintetica, concorda con la valutazione del primo giudice, e ritiene che la narrazione rivelasse un allontanamento dal paese di origine determinato da ragioni di ordine economico, non atte ad integrare i presupposti i nè della protezione sussidiaria, nè della umanitaria. Esclude che nello Stato di provenienza del giovane esista una situazione di violenza indiscriminata. Sul grado di integrazione raggiunto in Italia, si limita a richiamare i principi enunciati da Cass. n. 4455 del 2018. L’appello proposto è stato quindi rigettato.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nonchè dell’art. 116 c.p.c., per non aver la corte d’appello tenuto in conto che la predetta norma introduce un onere probatorio attenuato in materia di immigrazione e consente di ritenere veritiere le affermazioni dei ricorrenti, anche se non suffragate da prove, qualora rientrino nei cinque parametri previsti dalla legge, ovvero purchè il narrato abbia una sua coerenza intrinseca ed esterna, relativa cioè alle condizioni del paese di provenienza.

Lamenta che la corte d’appello abbia aderito alla valutazione di non credibilità del ricorrente formulata dal tribunale, senza motivare e senza valutare autonomamente. Sulla situazione esistente nel paese, rileva che non avrebbe motivato affatto sulle numerose fonti citate nell’atto di appello nè avrebbe fatto riferimento ad informazioni precise ed aggiornate per contrastarle.

Il motivo è infondato.

La motivazione richiama i criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, ripercorre il racconto del ricorrente, riproduce la conclusione nel senso della scarsa credibilità di esso già espressa dal primo giudice e ne richiama i passaggi, esprime infine una propria autonoma valutazione, sebbene concordante negli esiti.

Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3 e 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per aver la corte d’appello violato il dovere di cooperazione istruttoria; denuncia che la corte d’appello abbia escluso la configurabilità di una situazione di rischio effettivo di subire un grave danno alla persona, sulla base delle ipotesi enucleate dall’art. 14, lett. a) e b), con una motivazione meramente di stile e non analitica.

Anche in riferimento a questo punto, il giudice di merito, sebbene in modo molto sintetico, ha motivato autonomamente, non limitandosi a recepire supinamente le precedenti valutazioni della Commissione e del tribunale, ritenendo che il racconto del ricorrente fosse poco credibile e comunque evidenziasse una situazione in cui il migrante avesse in patria i mezzi per mantenersi adeguatamente, ritenendo la storia raccontata poco credibile.

Con il terzo motivo, denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 8 e 27, in relazione al riconoscimento della protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. C); censura la sentenza impugnata laddove ha negato la protezione sussidiaria sostenendo apoditticamente che nella regione di provenienza del ricorrente, l’Edo State, non fosse in atto una situazione di violenza indiscriminata, senza citare alcuna fonte dalla quale emerga un riscontro obiettivo di tale situazione e non tenendo conto delle numerose pronunce richiamate dal ricorrente, sia di merito che di legittimità, che avrebbero riconosciuto il diritto alla protezione per cittadini provenienti dall’Edo State. Sostiene che, in riferimento alla protezione sussidiaria il potere-dovere di indagine d’ufficio del giudice circa la situazione esistente nel paese d’origine del richiedente debba essere esercitato dando conto delle fonti informative attinte, per verificarne anche l’aggiornamento, e non trova ostacolo nella non credibilità delle dichiarazioni del richiedente, cioè il dovere del giudice di verificare la pericolosità della situazione sussiste a prescindere dal giudizio di non credibilità dell’interessato rispetto alla sua vicenda personale, a meno che il giudizio di non credibilità non investa il fatto stesso della provenienza dell’istante da area geografica interessata alla violenza indiscriminata (richiama Cass. n. 14283 del 2019, la cui massima così recita. “In tema di protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2017, ex art. 14, lett. c), il potere-dovere di indagine d’ufficio del giudice circa la situazione generale esistente nel paese d’origine del richiedente, che va esercitato dando conto, nel provvedimento emesso, delle fonti informative attinte, in modo da verificarne anche l’aggiornamento, non trova ostacolo nella non credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente stesso riguardo alla propria vicenda personale, sempre che il giudizio di non credibilità non investa il fatto stesso della provenienza dell’istante dall’area geografica interessata alla violenza indiscriminata che fonda tale forma di protezione”.

Il motivo è fondato, sotto entrambi i prospettati profili.

Preliminarmente, va detto che in tema di protezione internazionale, il principio in virtù del quale quando le dichiarazioni dello straniero sono inattendibili non è necessario un approfondimento istruttorio officioso, se è applicabile ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello “status” di rifugiato o di quelli per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), che presuppongono l’esposizione ad un rischio determinato dall’appartenenza del richiedente ad una particolare condizione o formazione sociale, non può invece essere invocato nell’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c), del medesimo Decreto, poichè in quest’ultimo caso il dovere del giudice di cooperazione istruttoria sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione non credibile dei fatti attinenti alla vicenda personale del richiedente, purchè egli abbia assolto il proprio dovere di allegazione (in questo senso, da ultimo, Cass. n. 10286 del 2020), in quanto il giudice deve comunque verificare, con gli strumenti della cooperazione istruttoria, la sussistenza di un rischio indiscriminato alla sicurezza delle persone nel territorio di provenienza del ricorrente.

Si aggiunga poi che nei giudizi di protezione internazionale, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione; il giudice del merito non può, pertanto, limitarsi a considerazioni solo generiche, nè può omettere di indicare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo in tale ipotesi la pronuncia, ove impugnata, incorrere nel vizio di motivazione apparente (Cass. n. 9230 del 2020).

Nel caso di specie, l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale l’Edo State non sarebbe una regione a rischio nell’accezione di cui all’art. 14, lett. C), non è giustificata da alcun riferimento a fonte informativa, sia essa o meno aggiornata.

Il terzo motivo va quindi accolto e la sentenza cassata sul punto e rimessa al giudice di merito affinchè rinnovi la valutazione sulla situazione di pericolosità di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. C), sulla base di informazioni aggiornate ed ufficiali delle quali si indichi la fonte di provenienza.

Con il quarto motivo, in relazione alla domanda volta alla concessione della protezione umanitaria, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 4, ovvero la nullità della sentenza in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonchè del D.P.R. n. 349 del 1999, artt. 11 e 29 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 bis.

Sostiene la nullità della sentenza perchè la corte d’appello non avrebbe affatto valutato la situazione del ricorrente, nè quanto alla sua vulnerabilità in caso di ritorno in patria, nè quanto al percorso di integrazione compiuto in Italia.

Denuncia quindi la mancanza di una valutazione autonoma rispetto a quella che ha condotto alla negazione delle protezioni maggiori, e la mancanza del giudizio di comparazione.

Segnala che la corte d’appello, nelle ultime due pagine della sentenza impugnata, si sia limitata a richiamare la massima della sentenza di legittimità che ha dettato il principio di diritto generalmente condiviso in ordine alla necessità e al contenuto della valutazione comparativa da effettuare ai fini del riconoscimento o meno del diritto al permesso di soggiorno (Cass. n. 4455 del 2018).

Effettivamente, dopo aver richiamato il corretto criterio di giudizio, la motivazione si arresta: non contiene alcuna valutazione, in concreto, sulla sussistenza o meno dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria.

L’accoglimento del terzo motivo tuttavia assorbe il quarto, in quanto la sentenza dovrà essere cassata per una nuova, integrale rivalutazione della sussistenza o meno dei presupposti per la concessione della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c) e della protezione umanitaria, una volta accertata la consistenza del primo termine di paragone, la condizione di vita in cui sarebbe proiettato il ricorrente ove reinserito nel paese di provenienza, accertamento necessario per poter procedere al giudizio di comparazione sulla configurabilità o meno di una condizione di vulnerabilità del ricorrente.

Infine, con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, in combinato disposto con l’art. 5, comma 6 e con l’art. 19, comma 1, n. 1, del TUIM nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, costituito dai traumi subiti dal ricorrente nel corso del suo percorso migratorio, in particolare in Libia. Invoca inoltre il principio del non refoulement.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie, la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, manca di decisività ai fini della decisione (v. Cass. n. 29875 del 2018).

Il ricorso va pertanto accolto quanto al terzo motivo, assorbito il quarto motivo, rigettati gli altri. La sentenza deve essere cassata in relazione e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo, assorbito il quarto, rigettati il primo, il secondo e il quinto, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2020

 

 

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