Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24192 del 02/11/2020

Cassazione civile sez. III, 02/11/2020, (ud. 08/07/2020, dep. 02/11/2020), n.24192

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28712/2019 proposto da:

S.R., rappresentato e difeso per procura speciale spillata in

calce dall’avv. PAOLO RIGHINI, con studio in Parma, via Petrarca 28,

elettivamente domiciliato presso la casella pec di quest’ultimo;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– resistente –

avverso la sentenza n. 962/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 20/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

08/07/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- S.R. propone ricorso, articolato in quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno – Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bologna, avverso la sentenza n. 962/2019 della Corte d’Appello di Bologna, pubblicata in data 20.3.2019, non notificata, con la quale si è confermato il diniego di tutte le varie forme di protezione internazionale richieste.

2. – Il Ministero deposita atto con il quale manifesta la disponibilità a partecipare alla discussione, ove sia fissata udienza pubblica.

3. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

4. – Il ricorrente, proveniente dal (OMISSIS), riporta nel ricorso la sua vicenda personale, richiamata nella sentenza impugnata: di essere nato in (OMISSIS) e di aver abbandonato il suo paese perchè, a causa dell’estrema povertà, non riusciva a mantenere la sua famiglia, contraendo un prestito con un usuraio per le spese di viaggio, e di non poter rientrare in patria anche perchè non in grado di rimborsare il prestito. Espone di temere, in caso di ritorno in patria, di poter essere sottoposto a procedimento penale e condannato ad una pena detentiva per debiti, e quindi sottoposto a trattamenti inumani o degradanti stanti le condizioni delle prigioni.

5. – La corte d’appello rigetta l’appello ritenendolo totalmente infondato. Concorda con le valutazioni effettuate prima dalla Commissione territoriale, e poi dal tribunale, secondo le quali ” i motivi che hanno condotto lo straniero a lasciare il suo paese di origine non rientrano in nessuna delle ipotesi legislativamente previste per accordare la protezione internazionale”. Esamina tutte le dichiarazioni del richiedente, dalle quali emerge la denuncia delle condizioni di estrema povertà in cui viveva la famiglia, l’indebitamento contratto per sopravvivere e per aiutarlo nella fuga e alla fine ritiene eccessivamente generico il suo racconto, non emergendo se questo debito fosse stato contratto prima della decisione di fuggire, per sopravvivere, o dopo, per consentirgli la fuga, e neppure l’entità del debito stesso e troppo astratto il pericolo paventato. Quanto alla protezione sussidiaria, la sentenza impugnata afferma che dal rapporto EASO 2017 (la pronuncia è di marzo 2019) e dalle altre Coi emerge nel paese di provenienza una situazione di obiettivo pericolo circoscritta però agli oppositori o a categorie invise al regime, categorie nelle quali non rientra il ricorrente.

E infine afferma recisamente che in ogni caso non è sufficiente alla concessione della protezione richiesta la semplice plausibilità e coerenza del racconto, laddove esso appaia come nel caso in esame meramente strumentale all’ottenimento della misura. In relazione alla protezione umanitaria, la sentenza impugnata afferma molto sbrigativamente che non è sufficiente alla concessione della protezione umanitaria la sola circostanza che il ricorrente lavori in Italia, in assenza di profili di vulnerabilità che non risultano provati e neppure dedotti.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3.

Lamenta che la corte d’appello, confermando il provvedimento del tribunale, non lo abbia ammesso a godere di nessuna delle protezioni richieste non perchè abbia dubitato della sua credibilità, ma perchè ha ritenuto – erroneamente, nella ricostruzione del ricorrente – che la sua pur dolorosa vicenda personale non rientrerebbe tra le fattispecie suscettibili della tutela richiesta.

Ovvero, la corte non avrebbe indagato, dando corso alla necessaria cooperazione istruttoria, sul fatto che in Bangladesh esiste il carcere per debiti, e che chi viene imprigionato viene sottoposto ad un trattamento inumano.

Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in particolare in relazione alla lett. b), dove si fa riferimento alla tortura: si riferisce sempre al fatto che, ove rimpatriato, rischierebbe di essere tradotto in carcere per debiti, ed ivi sottoposto a trattamenti inumani o degradanti.

I due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi e devono essere rigettati, perchè la corte d’appello, nella sua pur sbrigativa motivazione, non si è attivata ad indagare le condizioni delle carceri del paese di provenienza, cioè non ha attivato la cooperazione istruttoria, perchè ha ritenuto carente l’onere di allegazione, sul quale la parte non è sostituibile, ovvero perchè ha ritenuto che la prospettazione stessa della situazione di pericolo fosse eccessivamente generica, non essendo precisato nè a conoscenza del ricorrente neppure l’ammontare del debito, e quindi tale da non poter essere presa in considerazione cioè da non poter integrare per la sua vacuità una situazione di potenziale pericolo a fronte della quale la corte si dovesse attivare, con la cooperazione istruttoria, per verificare le effettive condizioni di detenzione in Bangladesh e, a monte, se in effetti in Bangladesh sia prevista la detenzione per debiti.

Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla mancata concessione della protezione umanitaria, benchè avesse allegato e perfino documentato il proprio stato di indigenza in patria. Sottolinea che la sua domanda è stata rigettata senza compiere una autonoma valutazione sulla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, fondata su presupposti diversi rispetto alle protezioni maggiori e che il giudice di merito abbia negato la sua vulnerabilità senza effettuare il giudizio di comparazione, tralasciando completamente di considerare la sua integrazione in Italia, ove lavorava con contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Infine, con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la esistenza di una motivazione apparente, in relazione ad un fatto controverso e decisivo ai fini del giudizio non avendo la corte d’appello, una volta negata la sussistenza del diritto alle protezioni maggiori, elaborato una distinta motivazione per quanto concerne la concessione o meno del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

Il terzo ed il quarto motivo, relativi alla protezione umanitaria, sono fondati e vanno accolti.

Deve essere in questa sede ribadito che l’eventuale giudizio negativo sulla credibilità della narrazione del richiedente ai fini della richiesta delle protezioni maggiori, o la sua ritenuta genericità a quello scopo, in sè non esclude automaticamente che la vicenda personale del ricorrente e la situazione obiettiva del paese di provenienza debbano essere autonomamente considerate, integrando ove possibile le lacune nella ricostruzione a mezzo della cooperazione istruttoria, unitamente alla necessaria considerazione del livello di integrazione conseguito nel paese di arrivo, ai fini della diversa ed autonoma valutazione dei distinti presupposti fondanti il riconoscimento della protezione umanitaria ed in particolare della sussistenza della condizione di “vulnerabilità”.

Il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, in particolare, dev’essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti e dovendo il relativo accertamento fondarsi su uno scrutinio circa l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti (cfr. Cass. 28990/2018; Cass. n. 10922 del 2019).

Il giudizio deve necessariamente procedere attraverso il giudizio di comparazione, ovvero deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018).

Ha violato questi principi la sentenza di merito che dopo aver illustrato le allegazioni del richiedente connesse alla situazione di indigenza sua personale e diffusa nel paese di origine in virtù delle quali chiedeva l’accesso alle protezioni maggiori, e pur dando atto della allegazione e della prova di una compiuta integrazione, attestata da un contratto di lavoro a tempo indeterminato, non ha provveduto al giudizio di comparazione negando che il ricorrente avesse allegato profili di vulnerabilità e quindi non ha valutato se avesse o meno diritto alla protezione umanitaria.

Il terzo e il quarto motivo vanno quindi accolti e la sentenza cassata e rinviata alla corte d’appello di Bologna in diversa composizione affinchè sulla base dei principi enunciati, valuti se il ricorrente ha o meno diritto alla concessione della protezione umanitaria.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo e il quarto motivo, rigetta il primo e il secondo, cassa e rinvia alla corte d’appello di Bologna in diversa composizione perchè decida anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2020

 

 

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