Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24177 del 27/09/2019

Cassazione civile sez. II, 27/09/2019, (ud. 11/12/2018, dep. 27/09/2019), n.24177

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2375/2015 proposto da:

M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO D’ITALIA

45, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO GUCCIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato SUSANNA SANTINI;

– ricorrente e c/ricorrente all’incidentale –

contro

C.E., M.M., MO.MA.,

C.F., P.M.L., M.B., in proprio e quale

esercente la patria potestà sul minore M.L.,

elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 287,

presso lo studio dell’avvocato MARIA CAMPOLUNGHI, rappresentati e

difesi dall’avvocato ROBERTO GAETANI;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

e contro

C.A., DITTA PO.GU. & C SRL, in persona del

legale rappresentante pro tempore;

– intimati –

avverso la sentenza n. 876/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 27/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/12/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per ricorso principale: parziale

inammissibilità o comunque rigetto; ricorso incidentale: per

l’accoglimento per quanto di ragione in particolare primo motivo;

udito l’Avvocato SANTINI Susanna, difensore della ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso principale;

udito l’Avvocato GAETANI Roberto, difensore dei resistenti che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso incidentale ed il rigetto del

ricorso principale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La signora M.L., proprietaria di un fabbricato in (OMISSIS) sul quale aveva effettuato lavori di demolizione e ricostruzione, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza con cui la corte di appello di Ancona, confermando la sentenza del tribunale di Macerata, la ha condannata a risarcire ai signori C.F., C.E., C.A. e P.M.L., proprietari di un fabbricato limitrofo, i danni a quest’ultimo provocati dall’esecuzione dei lavori suddetti; ad arretrare la costruzione da lei eseguita in elevazione sul preesistente magazzino fino alla distanza di m. 3 dall’edificio dei signori C. – P.; a risarcire a questi ultimi i danni loro derivati dalla violazione di norme edilizie ed urbanistiche diverse da quelle relative alle distanze legali (realizzazione di una costruzione di superficie eccedente quella massima realizzabile in base all’indice di utilizzazione fondiaria previsto dalla disciplina locale).

Gli intimati C.F., C.E. e P.M.L., nonchè gli eredi dell’intimata C.A. (frattanto deceduta) – M.B., M.M., Mo.Ma. e M.L. – hanno depositato controricorso ed hanno altresì proposto ricorso incidentale sulla scorta di un solo motivo, con il quale lamentano che la corte territoriale abbia confermato la statuizione della sentenza di primo grado che aveva imposto l’arretramento del fabbricato di controparte alla distanza (di mt. 3 dal fabbricato della famiglia C.) prevista dalla L.R. Marche n. 31 del 1979, art. 2, comma 2 (che recita “in ogni caso gli edifici, a seguito dell’ampliamento volumetrico, non potranno essere superiori a 3 piani e le distanze minime fra fabbricati, eccettuate le soluzioni a schiera e fatti salvi i diritti dei terzi, non potranno essere inferiori a metri lineari 3”).

Al riguardo i ricorrenti incidentali – i quali tanto in primo grado quanto in appello avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale della L.R. Marche n. 31 del 1979, giudicata irrilevante dal primo giudice e non trattata dal secondo giudice – evidenziano che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 6/2013 (pubblicata dopo che la corte dorica aveva trattenuto in decisione la presente causa ma prima del deposito della sentenza di appello) ha dichiarato la illegittimità costituzionale della L.R. Marche n. 31 del 1979, art. 1, comma 2 (che consentiva che gli edifici aventi impianto edilizio preesistente, con evidenti caratteristiche di non completezza, compresi nelle zone di completamento con destinazione residenziale previste dagli strumenti urbanistici generali comunali approvati, fossero ampliati anche in deroga alle distanze e/o al volume stabiliti dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444); ciò avrebbe imposto alla corte territoriale, si argomenta nel ricorso incidentale, di non tenere conto delle facoltà derogatorie concessa dalla suddetta legge regionale e, conseguentemente, di disapplicare gli atti amministrativi che avevano consentito i lavori di demolizione e ricostruzione della sig.ra M. i contrasto con i diritti dei vicini.

I ricorrenti incidentali hanno altresì dedotto la responsabilità aggravata della ricorrente nella proposizione del ricorso per cassazione, chiedendone la condanna al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c..

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 11.12.2018, per la quale entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo del ricorso principale, rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., così come modificato dalla recente novella (decreto sviluppo)” la sig.ra M. lamenta l’omesso esame del punto decisivo per il giudizio concernente “l’incidenza a livello economico della vetustà dell’immobile danneggiato di proprietà dei signori C. e P., di cui non si fa alcun cenno in sentenza” (pag. 14 del ricorso, penultimo capoverso).

Il motivo è inammissibile perchè non individua un fatto storico, dotato del requisito della decisività (ossia tale che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, cfr. SSUU 8053/14), che sia stato trascurato dal giudice territoriale (la “vetustà” di un immobile non è un fatto, bensì un giudizio), ma sviluppa considerazioni di puro merito, notoriamente inammissibili in sede di legittimità, attingendo il giudizio di fatto che la corte d’appello ha motivatamente operato in ordine all’entità del danno patito dai signori C. (vedi pag. 3, terzo capoverso, della sentenza: “ben due consulenze, ampiamente e correttamente motivate, hanno verificato nel contraddittorio tra le parti l’ammontare del danno, danno che, come giustamente rilevano gli appellanti, fu concordato tra i periti di parte il c.t.u….. l’appello sul punto è peraltro totalmente generico, posto che il consulente, effettuati i dovuti sopralluoghi, ha quantificato i danni tenendo conto della situazione direttamente e personalmente accertata”).

Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente attinge l’affermazione della sentenza gravata che ha escluso che la distanza minima tra fabbricati (di mt. 3) di cui alla L.R. Marche n. 31 del 1979, art. 2, comma 2, potesse essere derogata, nella specie, in forza della specifica eccezione prevista nel medesimo comma per le “soluzioni a schiera”. Nella sentenza gravata si legge (pag. 3, penultimo capoverso,) che “la locuzione “soluzione a schiera” si riferisce a progetti unitari, a soluzioni che sin dall’origine riguardino diverse unità immobiliari similari, mentre nella fattispecie l’attività edificatoria è stata attuata del tutto autonomamente, sulla sua proprietà, dalla sola M.”. Secondo la ricorrente, per contro, la nozione di soluzione a schiera sarebbe integrata in tutti i casi di “edifici costituiti dall’accostamento di più unità abitative” (pag. 8, sesto capoverso, del ricorso).

Il motivo non può trovare accoglimento.

Il Collegio infatti condivide l’interpretazione dell’espressione “soluzioni a schiera”, contenuta nella L.R. Marche n. 31 del 1979, art. 2, comma 2, offerta dalla corte territoriale; l’assunto che detta espressione vada riferita a “soluzioni che sin dall’origine riguardino diverse unità immobiliari similari”, concepite in un progetto unitario, risulta, infatti, coerente con l’uso corrente dell’espressione nel linguaggio tecnico-architettonico e, del resto, se così non fosse, non si spiegherebbe la possibilità, costantemente riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte, di configurare le abitazioni a schiera, nel ricorrere di determinate condizioni, come condominio orizzontale (cfr., tra le molte, Cass. 27360/16).

Può peraltro, altresì, aggiungersi che, come più ampiamente si illustrerà con riferimento all’unico motivo di ricorso incidentale, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 6/2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L.R. Marche n. 31 del 1979, art. 1, comma 2, l’applicabilità dell’intero comma 2 dell’art. 2 della stessa legge – sia dove si prescrive una distanza minima tra fabbricati di mt. 3, sia dove si eccettuano le soluzioni a schiera da tale previsione – postula la verifica che nella fattispecie non risultino applicabili le distanze minime fissate nel D.M. n. 1444 del 1968.

Con il terzo motivo di ricorso, rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c. n. 2-5 e falsa applicazione della L. n. 31 del 1979, per diverso aspetto”, la ricorrente lamenta che la corte d’appello non abbia considerato che ella non aveva sfruttato le reali potenzialità edificatorie concesse, da un punto di vista volumetrico ed altimetrico, dalla L.R. n. 31 del 1979; nel mezzo di gravame si sostiene che il giudice territoriale avrebbe errato nel ritenere sussistente “un superamento seppur minimo delle potenzialità edificatorie consentite dalla Legge” (pag. 16, penultimo capoverso del ricorso), giacchè la sig.ra M., pur potendo “ampliare di molto il proprio edificio in base agli indici riportati atto d’appello risultanti anche dalla CTU” aveva “quasi solamente demolito e ricostruito con modestissimo ampliamento dell’edificio preesistente” (pag. 16, terzultimo capoverso del ricorso).

Il motivo è inammissibile perchè formulato in termini totalmente privi di specificità.

Nel motivo, infatti, rubricato con promiscuo riferimento dell’art. 360 c.p.c., nn. 2,3, 4 e 5, non viene chiarito se la doglianza intenda denunciare un vizio di violazione di legge o un vizio di omesso esame di fatto decisivo.

Sotto il primo profilo, è sufficiente considerare che nel mezzo di impugnazione non si indica quale specifica norma, tra quelle stabilite dalle disposizioni della L.R. Marche n. 31 del 1979, sarebbe stata violata dalla sentenza gravata, nè si indica quale sarebbe la regola di diritto concretamente applicata nella sentenza gravata in contrasto con una norma fissata nella suddetta legge; la doglianza risulta dunque inammissibilmente formulata, giacchè, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire (sent. n. 24298/16), il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. Sotto il secondo profilo, è poi sufficiente rilevare che nel mezzo di impugnazione manca l’indicazione di un fatto storico, che abbia formato oggetto di discussione tra le parti e non sia stato esaminato dal giudice territoriale, dotato del requisito della decisività.

Il ricorso principale va quindi, in definitiva, rigettato in relazione a tutti i motivi nei quali esso si articola.

Passando all’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale, il Collegio rileva che, come accennato in narrativa, con tale motivo si censura l’impugnata sentenza per aver ritenuto applicabile nella specie la distanza tra fabbricati (di mt. 3) di cui alla L.R. Marche n. 31 del 1979, art. 2, comma 2, nonostante la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della stessa legge, pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 6/2013, anteriore alla pubblicazione della sentenza di appello.

Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.

La corte territoriale, pronunciandosi sulla domanda di arretramento del manufatto della sig.ra sig.ra M., ha basato la propria decisione sul disposto della L.R. Marche n. 31 del 1979, art. 2, comma 2, già posto a fondamento della sentenza di primo grado. L’ambito applicativo di detta disposizione – che, come già si è riferito, fissa in mt. 3 la distanza minima tra fabbricati (salva la deroga, di cui sopra si è già trattato, delle “soluzioni a schiera”) – è definito dell’art. 1, nel comma 1, della stessa Legge Regionale e concerne gli edifici aventi impianto edilizio preesistente, compresi nelle zone di completamento con destinazione residenziale previste dagli strumenti urbanistici generali comunali approvati, e, specificamente, gli ampliamenti consentiti alle case a un piano fuori terra e alle costruzioni che, avuto riguardo alla struttura edilizia esistente e agli edifici circostanti, presentano evidenti caratteristiche di non completezza.

Nel sistema della L.R. n. 31 del 1979, dunque, la regola sulle distanze dettata dell’art. 2, comma 2, costituiva l’unica regola a cui soggiacevano gli ampliamenti di cui dell’art. 1, comma 1 della stessa Legge, giacchè, per il medesimo art. 1, comma 2, detti ampliamenti erano “consentiti nei limiti di cui all’art. 2, anche in deroga alle distanze e/o al volume stabiliti per le

suddette zone territoriali omogenee dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444”. Tale comma è stato dichiarato illegittimo con la sentenza della Corte costituzionale n. 6/2013, in quanto eccedente la competenza regionale concorrente del “governo del territorio”, in violazione del limite dell'”ordinamento civile”, di competenza legislativa esclusiva dello Stato. In particolare la Corte costituzionale ha precisato che il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di “ordinamento civile” e quella regionale in materia di “governo del territorio” trova una sintesi normativa del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, u.c., il quale consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono dunque consentite, ha precisato il Giudice delle leggi, soltanto se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio e tra tali strumenti non rientra la procedura delineata nella L.R. Marche n. 31 del 1979; quest’ultima, infatti, autorizzando i Comuni ad “individuare gli edifici” dispensati dal rispetto delle distanze minime, “non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate”; donde la sua illegittimità costituzionale.

Alla luce della declaratoria di illegittimità costituzionale della L.R. Marche n. 31 del 1979, art. 1, comma 2, la corte dorica avrebbe dunque dovuto pronunciarsi sulla domanda di arretramento del fabbricato della sig.ra M. verificando se nella fattispecie non fosse applicabile la disciplina statale di cui al D.M. n. 1444 del 1969, non più derogata dalla disposizione legislativa regionale caducata dalla Corte costituzionale.

Non può condividersi, infatti, l’assunto, illustrato nel controricorso depositato dalla sig.ra M. in replica al ricorso incidentale, secondo il quale la sentenza della Corte costituzionale numero 6/2013 sarebbe irrilevante nell’odierno giudizio perchè l’efficacia retroattiva delle pronunce declaratorie della illegittimità costituzionale di norme di legge incontrerebbe il limite dei rapporti esauriti e, nella specie, tale limite discenderebbe dal rilievo che l’opera edificata dalla sig.ra M. era conforme ad una concessione a suo tempo rilasciata e mai impugnata. Al riguardo non può che ribadirsi quanto questa Corte ha già avuto modo di chiarire con la sentenza n. 19650/13, ossia che ciò che rileva non è la legittimità della concessione sulla cui base è stato realizzato l’intervento edilizio per cui è causa, bensì la pendenza di un giudizio, la cui decisione dipende dall’applicazione della disposizione dichiarata incostituzionale, avente ad oggetto la denunciata violazione delle norme sulle distanze e, quindi, l’accertamento della lesione del diritto soggettivo dei vicini alla osservanza delle distanze legali; e, sul punto, certamente non può ritenersi che sia intervenuto alcun accertamento irrevocabile, costituendo l’accertamento della violazione delle distanze, con conseguente lesione del diritto soggettivo degli odierni controricorrenti alla loro osservanza, l’oggetto del presente giudizio. D’altra parte, le concessioni edilizie sono rilasciate con salvezza dei diritti dei terzi, sicchè risulta del tutto irrilevante la circostanza che la concessione non sia stata impugnata: finchè sulla affermata lesione del diritto soggettivo lamentata dai sigg.ri C. non si sia formato il giudicato, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione di legge sulla cui base è stata rilasciata la concessione edilizia ed è stato eseguito l’intervento edilizio spiega tutta la sua efficacia e comporta l’accoglimento del motivo di ricorso per cassazione con il quale si lamenti la violazione della normativa in tema di distanze.

Il motivo di ricorso incidentale va pertanto accolto e l’impugnata sentenza va cassata in relazione a tale motivo, con rinvio alla corte d’appello di Ancona, in altra composizione, che si pronuncerà sulla domanda di arretramento del manufatto realizzato dalla sig.ra M. tenendo conto degli effetti retroattivi della sentenza della Corte costituzionale n. 6/2013 e, conseguentemente, verificando se nella fattispecie non sia applicabile la disciplina statale di cui al D.M. n. 1444 del 1969.

I ricorrenti incidentali hanno altresì chiesto la condanna della ricorrente principale ai sensi dell’art. 96 c.p.c., ritenendo sussistente una responsabilità processuale aggravata di costei. La domanda non può trovare accoglimento, per una duplice ragione.

In primo luogo perchè gli istanti non hanno offerto la specifica allegazione dei danni loro causati dalla proposizione del ricorso per cassazione, essendosi limitati a sottolineare come detto ricorso li abbia costretti a sopportare “ulteriori spese legali, per difendersi da un nuovo giudizio” (pag. 23, penultimo capoverso, del controricorso); al riguardo – premesso che le spese legali non possono formare oggetto di risarcimento ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1, giacchè la relativa regolazione trova la sua specifica disciplina negli artt. 91 c.p.c e segg. – va qui ribadito l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 7583/04) secondo cui “la domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., non può trovare accoglimento tutte le volte in cui la parte istante non abbia assolto all’onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato”.

In secondo luogo va ulteriormente rilevato che le argomentazioni dispiegate nel ricorso principale, ancorchè infondate, non presentano le connotazioni della mala fede o colpa grave. Per tale ultimo motivo, va aggiunto, il Collegio non ritiene di dover esercitare il potere ufficioso di condannare la soccombente a versare alla controparte una somma non superiore al doppio dei massimi tariffari, secondo il disposto dell’art. 385 c.p.c., comma 4. A quest’ultimo riguardo giova precisare che il presente giudizio soggiace, ratione temporis, non al disposto dell’art. 96 c.p.c., comma 3, (introdotto dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 12), bensì al disposto dell’art. 385 c.p.c., comma 4 (introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 13); mentre, infatti, per il disposto del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2, l’art. 13 del medesimo D.lgs. si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006, le disposizione dalla L. n. 69 del 2009, che contengono modifiche al codice di procedura civile – tra le quali rientrano sia dell’art. 45, comma 12 1 (introduttivo, come sopra precisato, del l’art. 96 c.p.c., nuovo comma 3), sia dell’art. 46, comma 20 (abrogativo dell’art. 385 c.p.c., comma 4) – trovano applicazione, per il disposto dell’art. 58, comma 1, della ripetuta L. n. 69 del 2009, solo ai giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009, data di entrata in vigore di tale legge (cfr. Cass. n. 817/15, Cass. n. 15030/15, Cass. n. 28657/17).

La “colpa grave” contemplata dell’art. 385 c.p.c., comma 4, si risolve nel difetto del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda (cfr. Cass. 28657/17) e, nella specie, essa non può ritenersi sussistente, in ragione della notevole complessità della materia, oltre tutto interessata da una pronuncia di illegittimità costituzionale i cui effetti, al momento della proposizione del ricorso, non avevano formato oggetto di dibattito giurisprudenziale.

In definitiva si deve respingere il ricorso principale e accogliere quello incidentale, con conseguente cassazione dell’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvio alla corte territoriale perchè si pronunci sulla domanda di arretramento della fabbrica della sig.ra M. tenendo conto degli effetti retroattivi della sentenza della Corte costituzionale n. 6/2013 e, per l’effetto, verificando se, nella fattispecie, non risulti applicabile la disciplina statale di cui al D.M. n. 1444 del 1969.

Le spese del presente giudizio saranno regolate in sede di rinvio.

Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale, rigetta la domanda di condanna della ricorrente principale al risarcimento in favore dei contro ricorrenti dei danni ex art. 96 c.p.c., cassa la sentenza gravata in relazione al motivo accolto e rimette la causa alla corte di appello di Ancona in diversa composizione, che provvederà anche al regolamento delle spese per il giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2019

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