Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24165 del 28/11/2016


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Cassazione civile sez. VI, 28/11/2016, (ud. 06/10/2016, dep. 28/11/2016), n.24165

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17379-2015 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCO ATTILIO

5, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE MILIZIANO, rappresentato

e difeso, unicamente e disgiuntamente, dagli avvocati VINCENZO

VENEZIA e GIUSEPPE STASSI, giusta procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI AGRIGENTO, C.F. (OMISSIS), in

persona del Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 78, presso lo

studio dell’avvocato ANTONIO IELO, rappresentata e difesa dagli

avvocati PIETRO DE LUCA e DOMENICO CANTAVENERA, giusta procura

speciale in calce al ricorso e giusta Delib. 16 luglio 2015, n.

1120;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2474/2014 della CORTE D’APPELLO DI PALERMO,

emessa il 18/12/2014 e depositata il 14/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/10/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito l’Avvocato Rossella De Angelis (delega Avvocato Vincenzo

Venezia), per la ricorrente, che si riporta ai motivi del ricorso;

udito l’Avvocato Antonio Ielo (delega Avvocato Domenico Cantavenera),

per la controricorrente, che si riporta ai motivi del controricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con sentenza n. 2474 depositata il 14.1.2015 la Corte di appello di Palermo, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto la domanda con la quale C.G. aveva chiesto la condanna della Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo al pagamento delle differenze retributive, tra quanto percepito in relazione alla qualifica di formale inquadramento, nel periodo dedotto, e quelle connesse allo svolgimento della qualifica superiore di Dirigente amministrativo.

Il giudice di appello, ritenuta prescritta la pretesa alle differenze retributive maturate fino al 22.9.2000, in relazione al periodo successivo ha affermato che la prova orale e documentale non aveva offerto elementi di riscontro al dedotto svolgimento da parte della C., delle superiori mansioni di Direttore amministrativo, con carattere di continuità e prevalenza, come richiesto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5. In particolare ha sottolineato la genericità delle deposizioni testimoniali, inidonee a dare contezza del livello di autonomia e responsabilità della lavoratrice, del carattere di prevalenza delle superiori mansioni asseritamente svolte, prive di riferimenti temporali precisi; analogamente la documentazione depositata non poteva dirsi dimostrativa delle “funzioni di sostituzione de Dirigente” circoscritte dalla Delib. n. 35 del 1999 ai “casi di assenza”, senza ulteriori precisazioni in ordine agli effettivi periodi di sostituzione; a diverse conclusioni non poteva pervenirsi neppure sulla base dei restanti documenti, rappresentativi solo di singoli atti e non della pienezza delle Funzioni dirigenziali e, comunque, in gran parte solo controfirmati dalla C. nella qualità di “Collaboratore Amministrativo Professionale”.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso C.G. sulla base di tre motivi: la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.

Il Consigliere relatore, nella relazione depositata ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Ritiene il Collegio di condividere la proposta del relatore, la quale non risulta inficiata dalle deduzioni difensive formulata dalla parte ricorrente in memoria.

Si premette che con il primo motivo ha dedotto omesso esame circa più fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, censurando, in sintesi la decisione, per avere omesso di tenere conto delle deposizioni testimoniali che ha analiticamente riparino in ricorso e della richiamata produzione documentale.

Con il secondo motivo ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, censurando la decisione per avere escluso il diritto della lavoratrice al trattamento economico contemplato dalla richiamata previsione, sulla base della inadeguata valutazione delle emergenze istruttorie.

Con il terzo motivo ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 2 ccnl Sanità 1999. Ha sostenuto che in base a tale previsione la sostituzione del Dirigente T. sarebbe potuta avvenire solo mediante un altro Dirigente e che, pertanto, correttamente il primo giudice aveva ritenuto inammissibile la sostituzione di un Dirigente impedito con un Collaboratore amministrativo, conseguendone la fondatezza della pretesa avanzata dalla C..

Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Con riferimento alla nuova configurazione del motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”. (Cass. ss.uu. n. 8053 del 2014).

In particolare è stato precisato che il controllo previsto dall’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5 concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In conseguenza la parte ricorrente sarà tenuta ad indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.

Parte ricorrente non ha sviluppato il motivo di ricorso in termini coerenti con tali prescrizioni, in quanto, pur deducendo formalmente omesso esame di più fatti decisivi, ha incentrato, in realtà, le proprie censure sulla valutazione del materiale probatorio, che asserisce non correttamente effettuata dal giudice di appello.

Tale modalità di articolazione del motivo di ricorso risulta inidonea alla valida censura della decisione sotto un duplice profilo. In primo luogo, non è configurabile l’omesso esame delle deposizioni testimoniali richiamate nè della documentazione evocata in ricorso, avendo la Corte di appello espressamente dato atto di avere analizzato la prova orale e documentale e di averla ritenuta inidonea a suffragare i presupposti della pretesa azionata dalla C.. In secondo luogo con il motivo in esame parte ricorrente tende a sollecitare un diverso e più favorevole apprezzamento delle risultanze probatorie, attività preclusa al giudice di legittimità, in quanto secondo l’insegnamento costante di questa Corte, la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonchè scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le altre, v. Cass. n. 18119 del 2008, n.5189 del 2007, n. 20455 del 2006, n. 20322 del 2005, n. 2537 del 2001). In conseguenza, il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito quale risulta dalla sentenza impugnata e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza ira valore e significato diversi che, agli stessi elementi siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti (v., per tutte Cass. S.U. n. 10345 del 1997). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata in quanto siffatta revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Parimenti da respingere è il secondo motivo di ricorso con il quale è denunziata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52. Si premette che secondo l’insegnamento di questa Corte, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche tediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie, diversamente impedendosi alla Corte di Cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione. (Cass. n. 5353de1 2007, n. 11501 del 2006). Parte ricorrente si è sottratta a tale onere in quanto nella illustrazione del motivo non ha individuato alcuna affermazioni in diritto della sentenza impugnata in contrasto con la disposizione richiamata, ma ha incentrato le proprie doglianze esclusivamente sulla ritenuta inadeguata valutazione delle emergenze probatorie da parte del giudice di appello, questione già investita con il primo motivo di ricorso.

Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per una pluralità di profili. Questa Corte ha ripetutamente affermato (cfr., tra le altre, Cass. n. 20518 del 2008) che ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa.

E’ stato, inoltre precisato che al fine di ritenere integrato il requisito della cosiddetta autosufficienza del motivo di ricorso per Cassazione, quando esso concerna la valutazione da parte del giudice di merito di atti processuali o di documenti, è necessario specificare la sede in cui nel fascicolo d’ufficio o in quelli di parte essi siano rinvenibili, sicchè, in mancanza, il ricorso è inammissibile per l’omessa osservanza del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), (v. tra le altre Cass. n. 22607 del 2014).

Parte ricorrente non ha articolato il ricorso con modalità conformi a tali prescrizioni.

Invero, premesso che la questione relativa alla corretta interpretazione del contratto collettivo – art. 18 – non è stata affrontata dalla sentenza impugnata, al fine della valida censura della decisione occorreva l’indicazione degli atti del giudizio di merito con i quali tale questione era stata sollevata e riproposta in seconde cure. Al di là di tale assorbente considerazione occorre ancora rilevare che il motivo di ricorso risulta fondato (tra l’altro) sulla Delib. n. 35 del 1999, documento della quale non è specificato la sede processuale nella quale esso era reperibile.

In conclusione, in base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto.

Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.

La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 4.500,00 per compensi professionali, Euro 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrerne dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2016

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