Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2416 del 04/02/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 2416 Anno 2014
Presidente: MASSERA MAURIZIO
Relatore: FRASCA RAFFAELE

SENTENZA
sul ricorso 7451-2008 proposto da:
ISTITUTO MUTUI S.R.L. 03762731002 in persona del
Presidente legale rappresentante pro tempore Sig.
BRUNO RUGGERI, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIALE LIEGI 42, presso lo studio dell’avvocato ALOISIO
ROBERTO GIOVANNI, che lo rappresenta e difende giusta
delega in atti;
– ricorrente contro

UNICREDIT CORPORATE BANKING S.P.A.

(già UNICREDIT

BANCA D’IMPRESA S.P.A.) che aveva acquisito il ramo

Data pubblicazione: 04/02/2014

d’azienda BANKING della UNICREDIT BANCA MEDIOCREDITO
S.P.A. 03126570013 (già BANCA MEDIOCREDITO S.P.A.) in
persona del suo Legale Rappresentante e Direttore
Generale Dott. GIANNI CORIANI, domiciliata ex lege in
ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

giusta delega in atti;
BELLASSAI

MAURO

BLLMRA5OLO5H501J,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 84, presso lo
studio dell’avvocato VALSECCHI FRANCESCO, che lo
rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrenti

avverso la sentenza n. 5012/2007 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 29/11/2007, R.G.N. 11521/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. RAFFAELE
FRASCA;
udito l’Avvomtn ROBERTO ALOI2ICI,
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. TOMMASO BASILE che ha concluso per il
rigetto del ricorso;

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rappresentata e difesa dall’avvocato MANFREDI GIORGIO

R.g.n. 7451-08 (ud. 26.11.2013)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

§1. La s.r.l. Istituto Mutui ha proposto ricorso per cassazione contro la s.p.a.
Unicredit Banca Mediocredito e la s.p.a. Unicredit Banca D’Impresa, nonché contro Mauro
Bellassai avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma del 29 novembre 2007, con la
quale è stato accolto l’appello proposto dalla s.p.a. Unicredit Banca Mediocredito ed è
stato revocato il decreto ingiuntivo che detta s.r.l. aveva ottenuto il 22 febbraio 2000 dal

Presidente del Tribunale di Roma per il pagamento della somma di £. 240.000.000 quale
residuo dovuto a titolo di provvigioni per alcune intermediazioni, svolte negli anni dal
1995 al 1996 sulla base di un accordo di collaborazione per la raccolta e l’istruttoria di
domande di mutui, sottoscritto fra le parti il 7 ottobre 1993.
La sentenza impugnata ha anche considerato ammissibile ai sensi dell’art. 344 c.p.c.
l’intervento nel giudizio di appello del Bellassai, quale titolare, in qualità di già
amministratore unico della s.r.l. Istituto Mutui, di un rapporto pregiudicato dalla
controversia fra le parti originarie, mentre ha dichiarato inammissibile una domanda da lui
proposta.
§2. Al ricorso hanno resistito con separati controricorsi la Unicredit Corporate
Banking s.p.a. (già Unicredit Banca d’Impresa) ed il Bellassai.
§3. Parte ricorrente ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

§1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia “violazione delle norme di diritto in
tema di litisconsorzio necessario ed in particolare violazione dell’art. 102-107 e 354 c.p.c.,
in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c., nonché violazione dell’art. 102 c.p.c. e 1394-1395
cod. civ., in relazione al’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.”.
L’illustrazione del motivo è conclusa dai seguenti due quesiti di diritto: <>.
§1.1. I due quesiti non sono idonei ad assolvere al requisito dei cui all’art. 366-bis
c.p.c., in quanto risultano del tutto generici ed astratti e, dunque, privi del carattere della
conclusività.
Essi, infatti, non contengono alcun riferimento, pur sommario alla vicenda oggetto
del giudizio ed alla motivazione della sentenza impugnata.

Ed anzi il primo è inidoneo ad individuare un quesito giuridico anche in astratto,
atteso che pretenderebbe di domandare se sia configurabile una situazione di litisconsorzio
necessario con riferimento alla figura della delegatio promittenti senza dire alcunché,
nemmeno in astratto, sul tipo di azione riguardo alla quale si dovrebbe configurare il
litisconsorzio, che è figura che riguarda la proposizione di un domanda giudiziale ed il non
potere il giudice pronunciare la decisione su di essa se non nei confronti di una pluralità di
soggetti.
Il secondo, viceversa, pone un interrogativo giuridico che contiene, pur nella sua
astrattezza, la risposta in se stesso, posto che, se il delegato, convenuto in giudizio dal
delegatario, “eccepisca in via riconvenzionale l’annullamento”, rectius l’annullabilità del
“rapporto delegatorio ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1394-1395 cod. civ.”, è palese
che, restando la sua difesa sul piano della c.d. eccezione sia pure riconvenzionale e non
concretandosi in una domanda riconvenzionale e, dunque, non postulando l’accertamento
con efficacia di giudicato del rapporto di delegazione, su di essa il giudice si pronuncerà
con efficacia limitata al rapporto fra i litiganti e, quindi senza coinvolgimento della
posizione del delegante e necessità di garantirne il contraddittorio.
§1.2. In ogni caso, in disparte la loro astrattezza e comunque incongruenza già sul
piano astratto, i due quesiti mancano di conclusività.
Tale requisito era necessario perché un quesito di diritto, secondo i principi generali
delle nullità degli atti processuali, fosse idoneo allo scopo previsto dal legislatore, cioè di
far percepire alla Corte di cassazione il problema giuridico posto dal motivo non già come
astratta quaestio iuris, bensì come quaestio iuris relativa al caso concreto. Poiché il caso
concreto che perviene alla Corte di cassazione è necessariamente individuato dalle
coordinate che si muovono tra la fattispecie concreta oggetto del giudizio di merito e la
motivazione della decisione impugnata, è palese che il quesito doveva essere articolato
evidenziando dette coordinate.

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Est. Cons. RafeFrasca

R.g.n. 7451-08 (ud. 26.11.2013)

L’art. 366-bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di diritto dovesse
concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la
prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del
procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva
concludere l’illustrazione del motivo ed il motivo si risolveva (come si risolve) in una
critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è
stata decisa sul punto oggetto dell’impugnazione e che appunto dev’essere criticato dal

motivo, appare evidente che il quesito, per concludere l’illustrazione del motivo, doveva
necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto, cioè
al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse
evidenziato — ancorché succintamente – perché l’interrogativo giuridico astratto era
giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un
quesito che non presentasse questa contenuto era, pertanto, un non-quesito (si veda, in
termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonché n. 6420 del 2008).
D’altro canto, se si fosse avallata l’idea che un quesito potesse non essere articolato
in modo conclusivo nel senso appena indicato, ne sarebbe derivata che al ricorrente in
cassazione sarebbe bastato per ottemperare al requisito dell’art. 366-bis prospettare alla
fine dell’illustrazione del motivo un quesito purchessia per adempiere al detto requisito,
salvo poi constatare solo a posteriori, cioè tramite la lettura dell’illustrazione che se il
quesito nella sua astrattezza risultava pertinente. Il risultato di una simile interpretazione
dell’art. 366-bis sarebbe stato allora quello di vanificare il profilo funzionale della
previsione del quesito, che era rappresentato dall’assicurazione alla Corte di cassazione di
un’immediata percezione, pur riassuntiva, della questione proposta dal motivo e, in ragione
dello sforzo tecnico riassuntivo così imposto al ricorrente, di assicurare che effettivamente
il motivo prospettasse una quaestio iuris nella logica dei nn. 1, 2, 3, e 4 dell’art. 360 c.p.c.
E’ da avvertire che l’utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per valutare
se la formulazione del quesito fosse idonea all’assolvimento della sua funzione appare
perfettamente giustificato dalla soggezione di tale formulazione, costituente requisito di
contenuto-forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla
regola dell’art. 156, secondo comma, c.p.c., per cui all’assolvimento del requisito non
poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche
privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano
funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da tanto l’esigenza
che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati. Esigenza, del resto, che non s concretava
5
Est. Cons. Rffa

Frasca

R.g.n. 7451-08 (ud. 26.11.2013)

in una richiesta al ricorrente di assolvere ad un requisito di contenuto forma dai caratteri
indefiniti e, quindi, in una incidenza sull’effettività del mezzo di impugnazione costituito
dal ricorso alla Corte (anche nei termini del c.d principio di effettività, di cui all’art. 6 della
CEDU, che in no diversa guisa è amminicolo del diritto di azione e di difesa
costituzionalmente garantito dall’art. 24 e specificato dall’art. 111 Cost.), atteso che
all’effettivo dispiegarsi della difesa tecnica particolarmente qualificata di cui necessita il
ricorrente in Cassazione non poteva essere d’ostacolo l’onere di formulare quesiti

asseritamente conclusivi nei detti sensi.
§1.2.1. Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del
ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui al
terzo comma dell’art. 156 c.p.c., posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un
certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto
escludere che il giudice possa apprezzare l’idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo
sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all’atto: il che escludeva che il quesito
potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che
l’inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell’atto complesso rappresentante
il ricorso, ivi compresa l’illustrazione del motivo (si veda, in termini, già Cass. (ord.) n.
16002 del 2007; (ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all’art. 366 n. 6
c.p.c.).
§1.2.2. E’, altresì, da avvertire, che l’intervenuta abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c.
non può determinare — in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha
mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro
provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell’abrogazione per i ricorsi
proposti antecedentemente e non ancora decisi — l’adozione di un criterio interpretativo
della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della
nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche
con numerosi arresti delle Sezioni Unite.
L’adozione di un criterio di lettura dei quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c.
dopo il 4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era fatto dalla giurisprudenza della
Corte anteriormente si risolverebbe, infatti, in una patente violazione dell’art. 12, primo
comma, delle preleggi, posto che si tratterebbe di criterio contrario all’intenzione del
legislatore, il quale, quando abroga una norma, tanto più processuale, e la lascia ultrattiva o
comunque non assegna effetti retroattivi all’abrogazione, manifesta non solo una voluntas
nel senso di preservare l’efficacia della norma per la fattispecie compiutesi anteriormente
6
Est. ConsXRaflàcle Frasca

R.g.n. 7451-08 (ud. 26.11.2013)

all’abrogazione e di assicurarne l’efficacia regolatrice rispetto a quelle per cui prevede
l’ultrattività, ma anche una implicita voluntas che l’esegesi della norma abrogata continui a
dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente è stata compiuta. Per cui l’interprete e,
quindi, anche la Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 65 dell’Ordinamento Giudiziario,
debbono conformarsi a tale doppia voluntas e ciò ancorché, in ipotesi, l’eco dei lavori
preparatori della legge abrogativa riveli che l’abrogazione possa essere stata motivata
anche e proprio dall’esegesi che della norma sia stata data. Invero, anche l’adozione di un

criterio esegetico che tenga conto della ragione in mente legislatoris dell’abrogazione
impone di considerare che l’esclusione dell’abrogazione in via retroattiva ed anzi la
previsione di una certa ultrattività per determinate fattispecie sempre in mente legislatoris
significhino voluntas di permanenza dell’esegesi affermatasi, perché il contrario interesse
non è stato ritenuto degno di tutela.
§1.3. Il Collegio, in ogni caso, rileva che, se si potesse procedere alla lettura
dell’illustrazione del motivo, si evidenzierebbe un un’ulteriore ragione di inammissibilità,
rappresentata dall’inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c.
Infatti, in detta illustrazione si fa riferimento ai documenti relativi alla delegazione,
ma senza riprodurne il contenuto e soprattutto senza indicare se e dove sarebbero stati
prodotti in questa sede. La prima omissione potrebbe essere superata dato che nel secondo
motivo i due documenti sono trascritti in parte e nel terzo – a quel che sembra – in modo
completo, ma la seconda omissione resta irrimediabile, perché nemmeno nella illustrazione
del motivo od in altra parte del ricorso si fornisce l’indicazione nei detti termini.
I documenti de quibus, che sono la delegazione e l’accettazione di essa sono, infatti,
indicati come “doc. avv. n. 5” e “doc. avv. n. 6” e, quindi, sono indicati – se mal non si
intende l’espressione “doc.avv.” – come documenti prodotti dall’avversario. Senonché, in
disparte che non si sa chi sia l’avversario cui si intende fare riferimento, supponendo che si
tratti dell’istituto bancario (come rivela il secondo motivo), non è dato sapere se il numero
di produzione sia correlato al suo fascicolo e nemmeno a quale, cioè quello di primo grado
o di secondo grado.
Inoltre, non si sa se, ai fini della ottemperanza al requisito di procedibilità di cui
all’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c. si sia inteso fare riferimento alla produzione
eventualmente avvenuta in questo giudizio di legittimità da parte dell’avversario.
Nella descritta situazione risulta inosservato il requisito della indicazione specifica di
cui alla citata norma dell’art. 366 n. 6 c.p.c., nei termini in cui è stato ricostruito dalla

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Est. Cons. Haffae1e Frasca

R.g.n. 7451-08 (ud. 26.11.2013)

consolidata giurisprudenza della Corte: in termini, ex multis, Cass. sez. un. nn. 28547 del
2008 e 7161 del 2010 e, da ultimo, ampiamente Cass. n. 7455 del 2013.
La Corte non è stata messa i grado di esaminare i documenti, onde riscontrare se
quanto su di essa si fonda trovi corrispondenza nel loro effettivo contenuto.
§2. Con il secondo motivo si denuncia “violazione delle norme e dei principi in tema
di opponibilità di scritture private con riferimento all’art. 2719 cod. cv . in relazione all’art.
360 n. 3 c.p.c.”.

L’illustrazione del motivo è conclusa dal seguente quesito di diritto: <>.
§3.1. Anche tale motivo presenta sempre le cause di inammissibilità derivanti dalla
inidoneità del quesito di diritto, attesa la sua astrattezza e mancanza di conclusività, sia
dall’inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c., atteso — sotto tale profilo — che nell’illustrazione
sono riprodotti — come s’è già detto – i due documenti inerenti la delegazione, ma
nuovamente si omette di fornire indicazione del se e dove essi siano esaminabili in questo
giudizio di legittimità.
§3.2. Il motivo, se ne fosse possibile l’esame, sarebbe anche privo di fondamento, in
quanto dalla sola circostanza che la delegazione contemplava il rapporto di provvista fra il
Bellassai quale delegante e la società ricorrente quale delegata, da lui stesso rappresentata,
e lo ravvisava nel rapporto in base al quale la stessa società avrebbe dovuto pagare al suo
amministratore i suoi emolumenti, fa discendere, in manifesto contrasto con quanto
prevede il primo inciso del secondo comma dell’art. 1271 c.c., che alla Banca sarebbe stato
opponibile l’annullabilità della delegazione per conflitto di interessi fra il Bellassai in
proprio e quale rappresentante della ricorrente. È sufficiente osservare che il detto secondo
comma esige — salvo il caso della nullità del rapporto fra delegante e delegatario — che le
parti abbiano pattuito l’opponibilità da parte del delegato delle eccezioni relative al
rapporto con il delegante. Pattuizione che dallo stesso tenore della delegazione per come
9
Est. Cons. Ra aele Frasca

R.g.n. 7451-08 (ud. 26.11.2013)

riprodotta non risulta in alcun modo, come, del resto, non ha mancato di rilevare la
sentenza impugnata.
§4. Con un quarto motivo si denuncia “violazione delle norme e dei principi in tema
di eccezioni opponibili al delegatario da parte del delegato (art. 1271 cod. civ. rimo comma
in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
L’illustrazione del motivo è conclusa dai seguenti due quesiti di diritto: <>.
Nella illustrazione del motivo si prospetta — con evidente contraddizione con la
prospettazione assunta nel motivo precedente – che la Corte territoriale non avrebbe
compreso che <> (Cass. n. 1435 del 2013; n. 23675 del 2013).
Nessuna indicazione al riguardo viceversa si fornisce nel ricorso. E’ appena il caso di

necessariamente dalle circostanze fattuali dello svolgimento della vicenda, onde non
potrebbe ritenersi che si sia in presenza soltanto di una quaestio iuris basata su elementi
fattuali certi in questa sede di legittimità.
Non solo: se effettivamente il ricorso avesse fornito tale indicazione avrebbe dovuto
prospettare un motivo di omessa pronuncia su di essa e non imputare alla Corte territoriale
di avere commesso un error in iure nell’escludere detta invalidità.
Il motivo è, pertanto, anch’esso inammissibile.
§5. Il ricorso, essendo inammissibili tutti i motivi, dev’essere, dunque,
inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n.
140 del 2012 a favore di ognuno dei resistenti.

P. Q. M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione alla
resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate a favore di ciascuno dei resistenti
in euro settemiladuecento, di cui duecento per esborsi, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 26
novem re 2013.

rilevare che nella specie l’esistenza o meno del conflitto di interessi dipendeva

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