Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24139 del 03/10/2018

Cassazione civile sez. VI, 03/10/2018, (ud. 22/05/2018, dep. 03/10/2018), n.24139

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12985-2017 proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA XX

SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’avvocato DONATELLA ROSSI,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCA CASTELLETTI;

– ricorrente –

contro

RICAST SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE AVEZZANA 31, presso

lo studio dell’avvocato TOMMASO DE DOMINICIS, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIANLUCA OMIZZOLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 145/2017 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 28/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/05/2018 dal Consigliere Dott. ALDO ANGELO

DOLMETTA.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1.- S.M. ha convenuto avanti al Tribunale di Gorizia la s.r.l. Ricast, per sentirla condannare al pagamento delle somme dovutegli per avere ricoperto la carica di amministratore della società dal dicembre 2001 al maggio 2006. In esito allo svolgimento del giudizio, il Tribunale ha riconosciuto il diritto alla percezione dell’emolumento, liquidandolo peraltro in misura minore della richiesta.

La Corte di Appello di Trieste ha accolto invece l’impugnazione proposta dalla Ricast, rilevando in particolare che “lo S. ha rinunciato, per comportamento concludente, a qualsiasi compenso in relazione al ruolo di amministratore della Ricast. S.r.l. ricoperto dal 2001 al 2006”.

2.- Constatata in linea generale l’ammissibilità di una rinuncia al compenso da parte dell’amministratore di società, la Corte giuliana ha in specie rilevato che “per tutta la durata della sua permanenza in carica”, S. “non ha mai chiesto alcun compenso ed ha anche omesso di convocare l’assemblea dei soci per deliberare il compenso a lui spettante, sia nel periodo di durata della carica stabilito nell’atto costitutivo (fino al 30 aprile 2005), sia nel periodo successivo, in cui, scaduto tale termine, aveva continuato a rivestire il ruolo di amministratore”. Neanche quando aveva preannunciato le proprie dimissioni dalla carica, e neppure quando le aveva effettivamente rassegnate – ha soggiunto la Corte triestina – S. ha “avanzato alcuna pretesa a titolo di compenso per l’attività svolta in quegli anni”.

“Soltanto nell’agosto del 2007” – ha concluso la pronuncia “in occasione dell’approvazione del bilancio del 2006 lo S., che partecipava a tale assemblea in veste di mero socio, contestava per la prima volta il bilancio, pretendendo che fossero accantonati compensi ex art. 17 Statuto”.

3.- S.M. ricorre ora avverso questa pronuncia della Corte di Appello di Trieste, proponendo due motivi per la sua cassazione.

La s.r.l. Ricast resiste con controricorso. La stessa ha anche depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c..

4.- I motivi di ricorso denunziano i vizi che qui di seguito vengono richiamati.

Il primo motivo è intestato “errores in iudicando per violazione ed errata applicazione di legge (artt. 1236 e 2697 c.c., art. 2364 c.c., n. 3, artt. 2389 e 1708 c.c.) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Il secondo motivo risulta a sua volta intestato “errores in iudicando per violazione ed errata applicazione di legge (art. 2364 c.c., n. 3 e art. 2389 c.c.) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

In ragione della loro sostanziale contiguità, i due motivi vanno trattati in modo congiunto.

5.- Rileva dunque il ricorrente che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Cassazione, è vero che la remissione del debito può “ricavarsi anche da una manifestazione tacita di volontà”; in tal caso, tuttavia, “è indispensabile che la volontà abdicativa risulti da una serie di circostanze concludenti e non equivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di valersi del diritto di credito”: in altri termini, “la volontà di remissione, sia essa espressa sia essa tacita, deve essere inequivoca”. Tale orientamento, annota di seguito il ricorrente, appare pienamente conforme, del resto, al disposto dell’art. 1236 c.c..

Nel caso di specie, la sentenza della Corte territoriale non ha rispettato questi principi – continua il ricorrente -, perchè ha assegnato valore determinate a una “pluralità di comportamenti concludenti di fatto inesistenti”.

Neppure può ritenersi, d’altro canto, che la pretesa al compenso dell’amministratore rimanga subordinata a una “previa richiesta di liquidazione da parte dell’assemblea in costanza di carica, come erroneamente ipotizzato dal giudicante di secondo grado”. In realtà, quello al compenso dell’amministratore di società è – puntualizza conclusivamente il ricorrente – un “diritto soggettivo perfetto… condizionato unicamente ai normali termini di prescrizione”.

6.- I motivi di ricorso sono fondati.

7.- Per entrare nel merito dell’argomento, è opportuno rilevare che, secondo i principi del sistema vigente, quello di amministratore di società è contratto che la legge presume oneroso (cfr., la norma dell’art. 1709 c.c. dettata con riferimento allo schema generale dell’agire gestorio e senz’altro applicabile anche alla materia societaria, come pure posta a presupposto delle previsioni dell’art. 2389 c.c., specificamente scritte per il tipo società per azioni).

Non v’è dunque ragione di ritenere che il diritto a percepire il compenso rimanga subordinato a una richiesta che l’amministratore rivolga alla società amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico. Come ha correttamente precisato la recente pronuncia di Cass., 21 giugno 2017, n. 15382, “con l’accettazione della carica, l’amministratore di società acquisisce il diritto a essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli”. Un’eventuale gratuità dell’incarico può procedere, di conseguenza, unicamente da una apposita previsione dello statuto della società interessata o da una apposita clausola del contratto di amministrazione.

8.- Ciò non toglie, naturalmente, che – una volta instaurato il rapporto – l’amministratore possa pure rinunciare al compenso spettantegli (sul carattere disponibile del diritto al compenso dell’amministratore v., da ultimo, la pronuncia di Cass., 22 giugno 2018, n. 16530).

L’effettivo esercizio di una simile facoltà viene, secondo i principi, a inquadrarsi nello schema generale della remissione del debito di cui alle norme degli artt. 1236 c.c. e ss., con l’applicazione delle relative regole.

9.- Nella specie, la Corte territoriale ha ravvisato la sussistenza di una rinuncia al compenso da parte dell’amministratore in ragione del suo “comportamento concludente” (c.d. rinuncia tacita).

Di per sè, una simile eventualità non è preclusa dalla normativa della remissione del debito, così come quest’ultima viene ricostruita dal consolidato orientamento di questa Corte. Come segnala anche il ricorrente, però, per leggere in termini di rinuncia un comportamento non sorretto da scritti o da parole o da altri codici semantici qualificati, occorre comunque che lo stesso faccia emergere una volontà oggettivamente e propriamente incompatibile con quella di mantenere in essere il diritto (cfr., tra le altre, Cass., 14 luglio 2006, n. 16125).

10.- Sennonchè, la Corte territoriale ha assegnato valore di rinuncia a un comportamento meramente omissivo, come contrassegnato dal fatto che l’amministratore S. non ha, nella specie, richiesto il pagamento del suo compenso durante lo svolgimento dell’incarico e neppure nell’anno successivo (cfr. sopra, nel n. 2).

Secondo l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, di contro, un comportamento solo omissivo non può integrare gli estremi di una rinuncia tacita, che sia valida ed efficace ex art. 1236 c.c. (cfr., così, Cass., 5 febbraio 2018, n. 2739, ove in specie si rimarca la regola che le rinunce non si presumono; Cass., 13 gennaio 2009, n. 460). Un comportamento meramente omissivo risulta, in sè stesso, tutt’altro che inequivoco e, anzi, particolarmente ambiguo.

Basta pensare cha la mera inerzia ben può esprimere una semplice tolleranza del creditore (come radicata nei più vari motivi) o anche riflettere una situazione di pura disattenzione. Sul piano oggettivo viene, del resto, a imporsi una constatazione comunque decisiva: annettere rilevanza alla mera inerzia del creditore significa, in buona sostanza, ridurre indebitamente il termine fissato dalla legge per la prescrizione del diritto.

11.- Il ricorso va dunque accolto e va cassata la sentenza impugnata con rinvio della controversia alla Corte di Appello di Trieste, che, in diversa composizione, giudicherà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la controversia alla Corte di Appello di Trieste che, in diversa composizione, giudicherà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione civile, il 22 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2018

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