Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24115 del 28/11/2016

Cassazione civile sez. lav., 28/11/2016, (ud. 14/09/2016, dep. 28/11/2016), n.24115

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso 26311-2013 proposto da:

BANCO DI NAPOLI S.P.A., c.f. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO

VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio degli avvocati RENATO

SCOGNAMIGLIO, CLAUDIO SCOGNAMIGLIO, che la rappresentano e

difendono, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.M., C.F. (OMISSIS), domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR

presso LA CANCEITER1A DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE MARZIALE, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6361/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 15/11/2012 R.G.N. 5713/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/09/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO;

udito l’Avvocato SCOGNAMIGLIO CLAUDIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- M.M., dal 1999 dipendente del Banco di Napoli S.p.A. dapprima presso l’agenzia di (OMISSIS) e, in seguito, presso le agenzie di (OMISSIS), inquadrata all’atto della cessazione del rapporto nel terzo livello con qualifica di vice capufficio, è stata licenziata in data 17 dicembre 2007 a seguito di una contestazione disciplinare ricevuta il (OMISSIS) e riguardante irregolarità operative e comportamenti anomali.

Le irregolarità descritte nella lettera di contestazione consistevano nell’aver operato con password o userid di altro dipendente, contabilizzato prelievi per contanti su depositi al portatore non supportati da alcuna distinta di prelievo o quietanza e disconosciuti dai clienti.

2.- Il licenziamento è stato impugnato dinanzi al Tribunale di Napoli, il quale in accoglimento della domanda, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento e ha ordinato alla società resistente la reintegrazione della lavoratrice nei posto di lavoro, con le consequenziali pronunce di condanna.

– La sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello di Napoli che, con la sentenza qui impugnata, depositata in data 15 novembre 2012, ha rigettato l’appello del Banco di Napoli. La Corte ha confermato il giudizio del Tribunale in ordine alla tardività della contestazione disciplinare; ha comunque esaminato il merito della vicenda, ritenendo che non vi fosse prova della ascrivibilità alla lavoratrice degli addebiti contestati, essendo certo solo l’unico dato della presenza della stessa in entrambe le filiali di Aversa e di Pignataro Maggiore nei giorni in cui le operazioni oggetto della contestazione erano state commesse.

4. – Contro la sentenza, la Banca ricorre per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso la M..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Rileva che il giudizio della Corte territoriale sulla tardività della contestazione disciplinare si pone in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale anche di questa Corte, secondo cui il momento al quale deve aversi riguardo ai fini di valutare la tempestività o tardività della contestazione non è quello dell’astratta conoscibilità dei fatti ma quello della avvenuta la conoscenza degli stessi da parte del datore di lavoro. Nel caso in esame, il momento dell’effettiva conoscenza doveva ancorarsi alla data di ultimazione della relazione ispettiva che aveva accertato i fatti. Inoltre, la Corte non aveva dato rilievo alla sospensione cautelare disposta dall’Istituto in data 21 giugno 2007, a distanza di sole tre settimane dalla relazione ispettiva e sintomatica della volontà della Banca di non soprassedere alle irregolarità rilevate. Nè assumeva importanza il fatto che nel provvedimento di sospensione non fosse contenuta la contestazione, visto che in essa si faceva riferimento alle “circostanze emerse presso le filiali di (OMISSIS)”, ossia agli stessi fatti che sarebbero stati poi oggetto di contestazione e che, inoltre, nessuna norma prevede che la sospensione debba essere contestuale alla contestazione disciplinare.

2. – Con il secondo motivo la Banca censura la sentenza per l’omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla complessità degli accertamenti che il Banco di Napoli aveva dovuto espletare al fine di riscontrare i fatti oggetto di addebito disciplinare. La banca deduce infatti che, a fronte di una pluralità di ragioni addotte a giustificare il lasso di tempo intercorso tra la conoscenza dei fatti e la contestazione, pur puntualmente indicati in sentenza, la Corte d’appello non le aveva esaminate, soffermandosi esclusivamente solo sulla complessità dell’organizzazione aziendale ed escludendone la rilevanza. In realtà i fatti commessi erano numerosi e complessi, si erano verificati in due distinte filiali con una pluralità di operazioni anomale, eseguite con modalità callide e tali da ostacolare la ricerca dell’effettiva paternità delle stesse.

3. – Il terzo motivo è incentrato sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., anche in relazione agli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e riguarda il merito degli addebiti. La ricorrente rileva come la Corte non aveva preso in considerazione le risultanze del sistema informatico, già depositate in primo grado e pienamente utilizzabili come fonti di prova. La situazione di uso promiscuo delle postazioni di lavoro e delle relative chiavi di accesso non dovevano condurre la Corte ad escludere la riferibilità delle operazioni alla lavoratrice ma deponevano nel senso opposto ove tali circostanze fossero state lette alla luce di altri elementi di carattere presuntivo: i clienti oggetto dell’addebito erano stati gestiti direttamente dalla M.; la M. era sostituto del direttore ed in quella qualità faceva spesso operazioni dalla postazione della collega Mu., anche in considerazione della modesta esperienza di questa; all’inizio della giornata lavorativa la M. aveva chiesto proprio la movimentazione del rapporto in questione; ad esempio, con riguardo alle operazioni eseguite sul conto di tale C.F. (prelevamento di Euro 4600,00 non sorretto da alcuna documentazione), esse erano state eseguite con userid della Mu. e precedute dalla variazione dell’indirizzo postale del rapporto, questa volta con la userid del direttore, in un momento in cui in filiale era presente, oltre alla Mu. e al direttore, solo la M.. Analogo meccanismo era stato adottato per il prelievo di Euro 3000,00 dal conto di deposito di S.R., eseguito con userid di altro dipendente, P.M., ma su di un terminale diverso da quello usato da questo. Gli elementi di giudizio offerti, complessivamente valutati, avrebbero dovuto condurre ad un giudizio di riferibilità sicura delle operazioni anomale alla lavoratrice.

4. I primi due motivi, che si affrontano congiuntamente per la connessione che li lega, sono infondati oltre a presentare profili di inammissibilità.

Come si è già esposto nella parte narrativa di questa sentenza, la Corte territoriale ha rigettato l’appello della Banca sulla base di una doppia ratio decidendi, costituita, la prima, dalla tardività della contestazione e, la seconda, dalla mancanza di prova della ascrivibilità delle condotte alla lavoratrice licenziata.

In ordine alla prima delle due rationes decidendi, la ricorrente deduce i primi due motivi di ricorso, costituiti rispettivamente dalla violazione di legge e dal vizio di motivazione.

Il vizio di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è inammissibile perchè esso deve essere dedotto, a pena di inammissibilità giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., ord. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass., 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 19 gennaio 2005, n. 1063; Cass., 6 aprile 2006, n. 8106).

Nel caso di specie, la ricorrente non trascrive nè riassume (nè in ogni caso sono rinvenibili in sentenza) le asserzioni della Corte territoriale in contrasto con il principio dell’immediatezza della contestazione come elaborato nella giurisprudenza di legittimità. Al contrario, i giudici dell’appello hanno ampiamente richiamato i principi fondamentali in materia, rammentando che l’immediatezza della contestazione è da intendersi in senso elastico e relativo, deve decorrere dall’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi, è in concreto compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, allorchè l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore con l’unico limite che l’esercizio del potere sanzionatorio non può essere protratto indefinitivamente nel tempo, dovendosi tutelare il diritto di difesa del lavoratore e non potendosi consentire un suo inammissibile assoggettamento ai poteri datoriali (pag. 4 e 5 della sentenza: e, in tal senso, Cass. 13 febbraio 2012, n. 1995; Cass., 8 giugno 2009, n. 13167, citata in sentenza).

Il giudice del merito ha quindi fatto corretta applicazione di questi principi ancorando il momento di piena conoscenza dei fatti da parte della banca alla data della relazione ispettiva conclusiva delle indagini e ritenendo non giustificati da “precise e circostanziate motivazioni” gli oltre quattro mesi trascorsi dalla conclusione dell’indagine (maggio 2007) alla contestazione disciplinare (v. Pag. 6 della sentenza).

Si è di fronte ad un ragionamento che non solo è coerente con le premesse giuridiche da cui muove – giacchè in nessuna parte della sentenza si parla di “astratta conoscibilità” dei fatti, ma solo di effettiva conoscenza – ma è anche esaustivo e strettamente ancorato ad elementi probatori oggettivi, quali la chiusura delle indagini nel maggio 2007, la mancanza di ragioni offerte dalla banca a sostegno della necessità di un ulteriore spazio temporale prima della contestazione, l’irrilevanza della sospensione cautelare in ragione della genericità del riferimento a “circostanze emerse presso le filiali di (OMISSIS)”, considerato altresì che è incontestato negli atti di causa che la ricorrente non è mai stata ascoltata dagli ispettori e quindi non vi sono elementi per ritenere che ella fosse al corrente del contenuto degli addebiti.

Non sussiste pertanto neppure il difetto motivazionale, siccome non riconducibile al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo vigente a seguito della sua riformulazione ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, ed applicabile ratione temporis nel presente giudizio. Ciò in quanto, secondo l’interpretazione resane dalle Sezioni Unite di questa Corte, da un lato è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, cosicchè tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione; e, dall’altro, che l’omesso esame di elementi istruttori (necessità di verifiche della regolarità di tutti prelevamenti superiore ad un certo importo su depositi al portatore, esame dei giri di contante eseguiti dalla lavoratrice; controlli a campione della regolarità delle variazioni anagrafiche dei conti; verifica delle transazioni non traciabili sul giornale di fondo; audizione di dipendenti, attività tutte pacificamente espletate prima del deposito della relazione ispettiva e, dunque, non rilevanti nel giudizio della Corte la quale ha posto l’accento essenzialmente sull’arco temporale successivo alla chiusura delle indagini) non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr, Cass., SU, 7 aprile 2014, n. 8053/8054). Ne discende la correttezza della ritenuta violazione del principio di immediatezza della contestazione e, pertanto, sotto tale profilo, l’illegittimità e la conseguente inefficacia del licenziamento (cfr. in senso analogo, Cass., 9 luglio 2015, n. 14324).

5.- Il terzo motivo è del pari infondato. Nonostante esso sia stato prospettato come violazione di legge, dalla sua intera illustrazione si evince come, con esso, la ricorrente intenda ottenere una rivisitazione dell’intero materiale probatorio, inammissibile in questa sede, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte, e di cui si è dato conto nell’analisi dei motivi che precedono.

Per completezza, deve ricordarsi che a) la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che d medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass., 10 giugno 2016, n. 11892): è nel potere del giudice, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, ammettere esclusivamente le prove che ritenga motivatamente rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 cod. proc. civ.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie (Cass. 7 dicembre 1974, n. 4090; Cass. 20 aprile 1973, n. 1141; Cass. 24 ottobre 1970, n. 2141); b) la deduzione della violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ne consegue l’inammissibilità della doglianza prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi del n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ. (Cass. 19 giugno 2014, n. 13960; Cass., 20 dicembre 2007, n. 26965);

Conclusivamente, la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione è rimessa all’apprezzamento discrezionale, ancorchè motivato, del giudice di merito, ed è censurabile, quindi, in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione e non della violazione di legge (Cass., 20 settembre 2013, n. 21603).

6. – Alla luce di questi chiari principi, seguiti da numerose decisioni di questa Corte (v. da ultimo, Cass., 10 giugno 2016, n. 11892; Cass., 21 ottobre 2015, n. 21439; Cass., 9 luglio 2015, n. 14324; Cass., 27 novembre 2014, n. 252161), emerge evidente l’insussistenza del vizio denunciato, dal momento che la stessa ricorrente non evidenzia nè in quale parte della sentenza risultino affermazioni in contrasto con l’art. 115 nel senso su indicato, nè che in che modo la Corte abbia violato l’art. 116 c.p.c. attribuendo valore di prova legale a prove che non l’avevano o negandolo a prove che lo avevano. Neppure è ravvisabile una inesistenza della motivazione nei sensi di cui ai citati arresti delle Sezioni Unite, dovendosi per contro rilevare che la Corte territoriale ha esaminato in modo diffuso e pertinente i motivi di gravame valutando singolarmente e poi complessivamente i singoli elementi istruttori raccolti in giudizio, spiegando le ragioni per le quali ha condiviso il ragionamento del primo giudice circa la insufficienza del materiale istruttorio raccolto e giungendo ad un giudizio senz’altro esaustivo e coerente, in ogni caso privo di quelle macroscopiche contraddizioni necessarie, secondo quanto su si è evidenziato, per rendere la motivazione inesistente o meramente apparente.

7. – Il ricorso deve dunque essere rigettato. In applicazione del criterio della soccombenza, il Banco di Napoli deve essere condannato al pagamento delle spese processuali in favore della controricorrente. Poichè il ricorso è stato notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.100,00, di cui 100,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali e altri accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2016

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