Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24109 del 28/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 28/11/2016, (ud. 25/05/2016, dep. 28/11/2016), n.24109

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13364-2015 proposto da:

A.S., C.F. (OMISSIS), R.S. C.f. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CATONE 3, presso lo studio

dell’avvocato TIZIANA COLAMONICO, rappresentati e difesi

dall’avvocato MASSIMO LUPI, giusta delega in atti;

– ricorrenti-

contro

BANCO DI NAPOLI S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LEONE IV 99, presso lo studio dell’avvocato CARLO FERZI, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati CESARE POZZOLI,

ANGELO GIUSEPPE CHIELLO, giusta delega in atti;

INTESA SANPAOLO S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LEONE IV 99, presso lo studio dell’avvocato CARLO FERZI, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati CESARE POZZOL1,

ANGELO GIUSEPPE CHIELLO, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2340/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 17/03/2015 R.G.N. 5694/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/05/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito l’Avvocato PANARITI PAOLO per delega Avvocato LUPI MASSIMO;

udito l’Avvocato FERZI CARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza 17 marzo 2015, la Corte d’appello di Napoli rigettava il reclamo proposto da A.S. e da R.S. avverso la sentenza di primo grado, che, in esito a procedimento ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1 ne aveva respinto le domande di impugnazione del licenziamento loro intimato il 21 giugno 2013, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 4,comma 9 dalla datrice Banco di Napoli s.p.a. (del “gruppo Intesa”, a capo del quale Intesa Sanpaolo s.p.a.), compensando le spese tra le parti.

Preliminarmente esclusa l’inammissibilità del reclamo per genericità dei motivi, in violazione della prescrizione dell’art. 342 c.p.c. e ritenuta l’applicabilità della disciplina prevista dalla L. n. 223 del 1991 (anzichè dal t.u. n. 3 del 1957) non rientrando i licenziamenti suddetti nei “diritti quesiti, gli effetti di leggi speciali e quelli rivenienti dalla originaria natura pubblica dell’ente di appartenenza” (Banco di Napoli) fatti salvi dalla L. n. 218 del 1990, art. 3 (di privatizzazione dell’istituto di credito), la Corte territoriale negava la natura discriminatoria del licenziamento per ragioni di età, avendo piuttosto la banca adottato il criterio, coerente con finalità legittime di politica del lavoro, del possesso dei requisiti per il diritto alla pensione o comunque di maggiore prossimità alla sua maturazione, in esito ad accordo sindacale aziendale, con erogazione dal Fondo di solidarietà di assegni straordinari per il sostegno del reddito, a norma della L. n. 449 del 1997, art. 59,D.M. n. 158 del 2000, artt. 7 e 8.

Con argomentata e critica illustrazione dei principi in materia nella consolidata interpretazione giurisprudenziale di legittimità richiamata, essa riteneva la correttezza ed incensurabilità (per insindacabilità delle scelte imprenditoriali) della procedura (preceduta dall’accordo sindacale 11 aprile 2013 attivato con missiva 20 marzo 2013 della capogruppo Intesa Sanpaolo s.p.a., individuante quale improcrastinabile obiettivo del gruppo, in tutte le sue articolazioni, il miglioramento di efficienza organizzativa attraverso interventi di semplificazione societaria e di riorganizzazione, comportante l’emersione di seicento esuberi, per riduzione strutturale del costo del lavoro riguardante tutte le aziende del gruppo e quindi anche il Banco di Napoli) avviata dalla banca datrice con la comunicazione 10 giugno 2013 e con accordo, all’esito del relativo confronto sindacale, del 17 giugno 2013, per riduzione di centodiciotto unità in esubero in base al possesso dei requisiti per il diritto alla pensione entro il 31 dicembre 2013 o comunque maturando entro il 31 dicembre 2017 e aderenti all’offerta al pubblico dell’accordo 11 aprile 2013 di accesso al Fondo di Solidarietà: nella piena adeguatezza del criterio concordato, senza necessità di comparazione alcuna; pure inadottabili misure alternative e irrilevante il successivo accordo di solidarietà del 2 luglio 2013 in sede di verifica dell’accordo quadro 11 aprile 2013; infine esclusa la fondatezza delle residue ragioni di doglianza scrutinate. Con atto notificato il 15 maggio 2015, A.S. e R.S. ricorrono per cassazione con tre motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resistono Banco di Napoli s.p.a. e Intesa Sanpaolo s.p.a. con controricorso: quest’ultima anche con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, i ricorrenti deducono violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15 e D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la natura discriminatoria dei licenziamenti subiti, per ragioni indirettamente fondate sull’età, in assenza di un’effettiva finalità di politica del lavoro (da valutare in riferimento alle ragioni e non già agli effetti della procedura di licenziamento), ma di semplice maggior proficuità economica dell’attività di impresa, per il dichiarato scopo di una riduzione dei costi in difetto di crisi aziendale: con subordinata istanza di rimessione alla Corte di Giustizia U.E. dei quesiti pregiudiziali sul rispetto del principio di non discriminazione (in ragione dell’età) della procedura di licenziamento collettivo adottata dalla banca.

Con il secondo, i ricorrenti deducono violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per mancanza di alcuna connessione giustificativa della ripartizione degli esuberi individuati (in numero di seicento) a livello di gruppo tra le diverse società ad esso appartenenti, con attribuzione in particolare a Banco di Napoli s.p.a. di centodiciotto, senza pertanto nesso causale tra le ragioni della procedura di riduzione di personale e i licenziamenti intimati, neppure chiarita la natura degli esuberi. Con il terzo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1990, art. 3, commi 1 e 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inapplicabilità della L. n. 223 del 1991 ai licenziamenti di personale già dipendente del Banco di Napoli, quale istituto di credito di diritto pubblico, in quanto titolare di aspettativa giuridicamente tutelata e comunque, non già per diritto quesito, ma per appartenenza ad ente di originaria natura pubblica.

In via di evidente pregiudizialità logico – giuridica, occorre avviare l’esame dal terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1990, art. 3, commi 1 e 2 per inapplicabilità della L. n. 223 del 1991 ai licenziamenti di personale già dipendente del Banco di Napoli, quale istituto di credito di diritto pubblico.

Esso è infondato.

Come già affermato da questa Corte (con richiamo anche di precedenti nello stesso senso in punto salvezza dei soli diritti quesiti nel regime di diritto pubblico anteriore, e non già di mere aspettative, a garanzia dei dipendenti degli enti creditizi pubblici trasformati in società per azioni: Cass. 18 marzo 2005, n. 5936; Cass. s.u. 19 novembre 2001, n. 14538) in analoga vicenda pure riguardante il Banco di Napoli s.p.a., deve essere esclusa la configurabilità, nella pretesa del lavoratore di prosecuzione del rapporto cessato per licenziamento, di alcun diritto quesito, ai sensi della L. n. 218 del 1990, art. 3, comma 2 non sopravvivendo il regime di stabilità (nè la complessiva configurazione) di un rapporto di lavoro con un ente pubblico economico, previsto dal relativo regolamento, alla trasformazione dell’ente in società commerciale e alla sostituzione del regolamento con un contratto collettivo di lavoro: posto che la salvezza dei “diritti quesiti” riguarda le posizioni giuridiche soggettive già acquisite, sotto il profilo economico, al patrimonio del prestatore di lavoro e non riducibili, sotto il profilo giuridico, a mere aspettative, ovvero che possano già essere fatte valere in giudizio attraverso un’azione di condanna oppure costitutiva o anche di mero accertamento (Cass. 11 giugno 2015, n. 12122).

Sicchè, neppure in riferimento al licenziamento intimato ai due lavoratori ricorrenti il 21 giugno 2013 si erano verificati i presupposti di salvezza all’epoca della privatizzazione dell’ente di diritto pubblico per effetto della L. n. 218 del 1990(come esattamente ritenuto dalla Corte territoriale per le ragioni esposte al terzo capoverso di pg. 15 della sentenza), nè alcun effetto di deroga all’applicazione dell’ordinaria normativa legale e contrattuale, secondo il regime di diritto privato cui sono soggetti gli istituti di credito così trasformati (art. 3, comma 1 L. cit.), discende allo specifico riguardo dall’originaria natura pubblica del Banco di Napoli, per la cessazione di effetto della normativa previgente alla trasformazione (Cass. 30 aprile 2010, n. 10532), per le ragioni illustrate.

Infine, appare assolutamente incomparabile al presente caso la salvaguardia delle aspettative dei pensionati in attesa di pensione, in virtù dell’attrazione degli iscritti alla gestione speciale che avessero perfezionato i requisiti di contribuzione richiesti per il diritto a pensione, in attesa del perfezionamento del requisito di età per il suo godimento, ossia dei c.d. pensionati differiti, nella tutela accordata ai titolari del diritto, all’entrata in vigore della legge, nell’effettivo godimento della pensione (Cass. 5 aprile 2004, n. 7964). Il primo motivo, relativo a violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15 e D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2 per la natura discriminatoria dei licenziamenti per ragioni indirettamente fondate sull’età, in assenza di un’effettiva finalità di politica del lavoro, è parimenti infondato.

Come noto il principio di non discrimazione in base all’età è considerato principio generale del diritto dell’Unione (CGUE 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold, punto 75) ed è esplicitamente prescritto dall’art. 21, n. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, avente lo stesso valore giuridico dei trattati, a mente dell’art. 6, n. 1, TUE (CGUE 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Kucukdeveci, punto 22). Ancora ciò è stato recentemente ribadito da un’ordinanza interlocutoria di questa Corte, di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E., della questione pregiudiziale relativa all’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età (Cass. 29 febbraio 2016, n. 3982, ord., con specifico riferimento alla limitazione, nella stipulazione di contratto di lavoro intermittente a norma del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34 delle prestazioni rese da soggetti infraventicinquenni).

Tuttavia, in talune circostanze, il venticinquesimo considerando e l’art. 6, comma 1 della predetta Direttiva 2000/78/CEescludono la discriminazione in presenza di “disparità di trattamento in ragione dell’età oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale” purchè “i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari” (CGUE 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold, punto 58).

Il nostro ordinamento si è adeguato alla Direttiva, facendo in particolare salve, nella regolazione di ipotesi di trattamenti differenziati in ragione dell’età dei lavoratori, le disposizioni relative alla definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, allo scopo di favorire l’inserimento professionale o di assicurare la protezione degli stessi” (D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 4bis, lett. a), purchè “oggettivamente e ragionevolmente giustificate da finalità legittime, quali giustificati obiettivi di politica del lavoro, del mercato del lavoro e della formazione professionale, qualora i mezzi per il conseguimento di tali finalità siano appropriati e necessari” (art. 3, comma 4ter D.Lgs. cit.).

Si comprende allora come l’obiettività della discriminazione (in particolare, per età) debba essere attentamente valutata nel contesto della concreta ricorrenza delle ragioni riorganizzative dell’impresa e degli strumenti adottati per farvi fronte, in relazione ai criteri selettivi utilizzati.

Le superiori argomentazioni escludono l’esigenza del rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E., subordinatamente richiesto alla C.G.U.E., nella valutazione della sua necessità dal giudice e non automaticamente dipendente dalla richiesta di parte (Cass. 10 settembre 2013, n. 20701), pure rilevato come i ricorrenti si dolgano nella sostanza di una mera conseguenza di fatto del consolidato indirizzo interpretativo in materia di esclusione di una discriminazione, secondo canoni conformi all’ordinamento eurounitario (Cass. 24 marzo 2014, n. 6862).

La discriminazione (infondatamente) denunciata non sussiste, in assenza di rilievo, nel licenziamento collettivo per riduzione del personale operato dalla banca datrice, del requisito di età (neppure in forma indiretta), ma piuttosto della possibilità di accesso alla pensione e nel perseguimento di finalità legittime di politica del lavoro e con mezzi appropriati e necessari, quale in particolare l’istituzione del Fondo di solidarietà ai sensi del D.M. 28 aprile 2000, n. 158.

L’istituto di credito ha infatti avviato la procedura, in esito ad accordo sindacale 11 aprile 2013 attivato con missiva 20 marzo 2013 della capogruppo Intesa Sanpaolo s.p.a., con la comunicazione 10 giugno 2013 e con accordo, all’esito del relativo confronto sindacale, del 17 giugno 2013, per riduzione di centodiciotto unità in esubero.

Sicchè, la Corte territoriale ha correttamente accertato la legittimità della procedura di g licenziamento collettivo (per le ragioni illustrate a pgg. da 5 a 13 della sentenza), in esatta applicazione dei consolidati principi di legittimità (anche in riferimento a controversie aventi lo stesso oggetto, decise in senso favorevole all’azienda bancaria, come puntualizzato, con richiamo di precedenti, da: Cass. 10 novembre 2015, n. 22914), secondo i quali, qualora l’individuazione dei dipendenti da licenziare avvenga, previo accordo tra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali, mediante ricorso ai criteri per l’accesso al Fondo di solidarietà previsti dal D.M. 28 aprile 2000, n. 158, art. 8 il datore di lavoro può limitarsi a indicare, nella comunicazione scritta di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 9, l’elenco nominativo dei lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo, in quanto la natura oggettiva dei criteri fissati in sede di accordo sindacale rende possibile la verifica della concreta aderenza ad essi della scelta effettuata, nonchè superflua la comparazione dei lavoratori individuati con quelli privi dei requisiti indicati (Cass. 17 aprile 2014, n. 8971; Cass. 2 marzo 2015, n. 4177). E quando il criterio di scelta sia unico, il datore di lavoro deve, come ha fatto, in ogni caso specificarne le modalità di applicazione affinchè la comunicazione raggiunga un livello di adeguatezza idoneo a mettere in grado il lavoratore di comprendere per quale ragione lui, e non altri colleghi, sia stato posto in mobilità o licenziato e quindi di poter contestare il recesso datoriale; a tal fine, potendo essere idonea anche la comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati e del criterio di scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità o di vecchiaia, in quanto la natura oggettiva del criterio rende superflua la comparazione con i lavoratori privi del detto requisito (Cass. 10 novembre 2015, n. 22914; Cass. 26 agosto 2013, n. 19576).

Il secondo motivo, relativo a violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5 per mancanza di connessione giustificativa dell’attribuzione di una parte degli esuberi individuati a livello di gruppo al Banco di Napoli s.p.a., senza nesso causale tra le ragioni della procedura di riduzione di personale e licenziamenti intimati, è parimenti infondato.

Come già ribadito anche in riferimento a licenziamenti collettivi del “gruppo Intesa”, a capo del quale Intesa Sanpaolo s.p.a. e cui pure appartenente il Banco di Napoli s.p.a. (da ultimo: Cass. 5 marzo 2016, n. 9061; Cass. 10 novembre 2015, n. 22914), in tale materia, a seguito dell’entrata in vigore della L. 23 luglio 1991, n. 223, il controllo giudiziale non può avere ad oggetto i motivi specifici di riduzione del personale, ma soltanto la correttezza procedurale dell’operazione, nè possono formare oggetto di cognizione giudiziaria tutte le censure a mezzo delle quali – senza che siano fatte valere violazioni degli artt. 4 e 5 della detta legge e comunque senza che sia offerta prova della dolosa elusione dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle stesse procedure di mobilità al fine di effettuare discriminazioni tra i lavoratori – si intenda investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sull’effettiva esigenza di riduzione o trasformazione dell’attività.

In particolare, quanto al nesso causale ed al rispetto della L. n. 223 del 1991, art. 1 questa Corte ha già osservato (tra le numerose, oltre alle ultime due citate: Cass. 17 aprile 2014, n. 8971; Cass. 26 febbraio 2009, n. 4653) che, in tema di verifica del rispetto delle regole procedurali peri licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3 L. cit. deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicchè, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione (Cass. 2 marzo 2015, n. 4177; Cass. 29 aprile 2009, n. 9991).

Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso e condanna A.S. e R.S. in solido alla rifusione, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida per ciascuna parte in 100,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2016

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