Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24087 del 17/11/2011

Cassazione civile sez. III, 17/11/2011, (ud. 14/10/2011, dep. 17/11/2011), n.24087

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.S. (OMISSIS), S.A.

(OMISSIS), BE.FL. (OMISSIS), A.

G.R. (OMISSIS), P.M.

(OMISSIS), R.S. (OMISSIS), G.

G.A. (OMISSIS), S.C.

(OMISSIS), M.M. (OMISSIS),

domiciliati in ROMA, Via Sistina 121, rappresentati e difesi

dall’Avv. FERRANTE MARIA con studio in 80036 PALMA CAMPANIA (NA),Via

Parrocchia 10, giusto mandato in atti;

– ricorrenti –

contro

UNIVERSITA’ STUDI NAPOLI FEDERICO II in persona del Rettore pro

tempore, MINISTERO UNIVERSITA’ RICERCA SCIENTIFICA & TECNOLOGICA

in

persona del Ministro pro tempore, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI

MINISTRI in persona del Presidente del Consiglio, MINISTERO SALUTE in

persona del Ministro in carica, elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

li rappresenta e difende per legge;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4618/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/11/2009 R.G.N. 4615/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/10/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato BEATRICE FIDUCCIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo che ha concluso con l’inammissibilità del ricorso per

difetto di sopravvenuta carenza di interesse per BE.,

A., S., P. e M.; accoglimento nel

resto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. B.S., Be.Fl., A.G.R., S.A., S.C., R.S., P. M. (o P., per come indicata nella sentenza impugnata e nell’atto di rinuncia), M.M. e G.G. A., tutti medici specializzatisi presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, hanno proposto ricorso per cassazione contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il Ministero della Salute e la detta Università, avverso la sentenza del 23 novembre 2009, con la quale la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello da loro proposto avverso la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Roma, che aveva rigettato la domanda da loro proposta contro i detti enti nel dicembre del 2002 per sentirli condannare alla corresponsione delle somme corrispondenti alla remunerazione di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6 per ciascuno degli anni di corso specialistico da loro frequentati presso l’Università.

La Corte d’Appello, per quanto interessa in questa sede, ha rigettato l’appello motivando che la prescrizione applicabile al diritto fatto valere dai ricorrenti sarebbe stata quella decennale, nel presupposto della qualificazione dell’azione alla stregua di quanto ritenuto dalle Sezioni Unite della Corte nella sentenza n. 9147 del 2009 (cioè come basata sull’inadempimento dello Stato Italiano alla direttiva n. 82/76/CEE, che coordinava due direttive del 1975), ma, tuttavia, essa era ormai decorsa, dovendosi il relativo dies a quo individuare nella data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991.

Gli intimati hanno resistito con congiunto controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente va rilevato che i ricorrenti Be., A., S., P. o P.) e M. con separati atti, datati 27 dicembre 2010 e sottoscritti dal loro comune difensore, Avvocato Maria Ferrante, notificati alle parti intimate e depositati nella cancelleria della Corte, hanno rinunciato al ricorso.

La rinuncia, pur non sottoscritta dalle parti personalmente, è efficace, giacchè nella procura speciale a margine del ricorso il detto legale risulta non solo abilitato a rinunciare a singoli atti (il che potrebbe implicare che non lo sia alla rinuncia al ricorso), ma anche transigere e conciliare, onde viene in rilievo il principio di diritto secondo cui La rinunzia al ricorso sottoscritta solo dal difensore dei ricorrente e non anche da quest’ultimo, produce tutti gli effetti di cui all’art. 391 cod. proc. civ., in quanto il difensore – ove la procura rilasciatagli preveda la facoltà di transigere e conciliare – ben può ritenersi munito del mandato speciale richiesto dall’ert. 390 cod. proc. civ., comma 2 configurandosi la rinunzia al ricorso come effetto ultimo e “naturale” dell’accordo transattivo o conciliativo. (Cass. n. 15016 del 2005).

Ne consegue che il giudizio di cassazione dev’essere dichiarato estinto quanto al rapporto processuale fra ciascuno degli indicati ricorrenti e gli enti intimati.

Il carattere annoso della questione oggetto della vicenda di cui è processo e le alterne vicende giurisprudenziali che l’hanno caratterizzata induce a compensare le spese riguardo ai rapporti processuali in discorso.

2. Il merito del ricorso dev’essere esaminato nei confronti dei ricorrenti B., C., R. e G..

Il ricorso prospetta sostanzialmente (atteso che per il resto si svolgono considerazioni sul quantum debeatur che non è stato oggetto di decisione da parte della Corte territoriale e che dovranno svolgersi nel giudizio di rinvio) un unico motivo, con cui si assume, nella condivisione della qualificazione dell’azione alla stregua della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 9147 del 2009, l’erroneità dell’individuazione del decorso del termine di prescrizione con riferimento all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 10991 quanto ai ricorrenti C., R. e G., nel presupposto che per essi il termine decennale decorresse dalla data di conseguimento del diploma di specializzazione, avvenuta successivamente al D.Lgs. n. 257 del 1991, avendo essi frequentato i corsi di specializzazione rispettivamente negli anni accademici dal 1990 al 1993, dal 1990 al 1995 e dal 1991 al 1993. Quanto, poi, al ricorrente B., frequentante il corso di specializzazione negli anni dal 1983 al 1987, viceversa, la prospettazione – pur nella scarna esposizione del ricorso – è che la prescrizione decorresse effettivamente dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, che il suo corso fosse stato interrotto con lettera raccomandata con avviso di ricevimento inviata il 19 gennaio 2001.

3. Ciò premesso, il motivo è fondato, sia pure per ragioni che questa Corte rileva d’ufficio, nell’esatta individuazione del diritto applicabile nella fattispecie riguardo al problema del dies a quo del decorso del termine di prescrizione.

3.1. Tale questione è stata esaminata di recente dalle sentenze (sostanzialmente gemelle) nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011 ed il Collegio intende dare continuità ai principi con esse affermati, peraltro seguiti dalle altre sentenze su questioni simili successivamente depositate e relative a ricorsi decisi nella stessa udienza del 18 aprile 2011.

Nelle dette decisioni si è anzitutto inteso condividere l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte circa la natura dell’azione esercitata per pretese come quella del ricorrente e circa il termine di prescrizione applicabile. Tale insegnamento, al quale, peraltro, ha fatto riferimento anche la sentenza impugnata si è espresso nel seguente principio di diritto: In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione “ex lege” riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione.

A precisazione del riportato principio di diritto le citate sentenze hanno precisato che il concetto di responsabilità contrattuale è stato usato dalle Sezioni Unite palesemente nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale – di responsabilità che nasce dal l’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, considerato dall’ordinamento interno, per come esso deve atteggiarsi secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, come fonte dell’obbligo risarcitorio, secondo la prospettiva scritta nell’art. 1173 c.c..

3.1.1. Le dette sentenza si sono soffermate sul problema del dies a quo del termine di prescrizione decennale.

Sulla base di un’ampia ricognizione dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria a partire dalla invocata sentenza sul caso Emmott, si è esclusa la necessità di un rinvio pregiudiziale nei termini richiesti dal ricorrente e sono sanciti i seguenti principi di diritto: la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in tema di azione risarcitoria di diritto interno, da inadempimento di direttiva sufficientemente specifica nell’attribuire ai singoli diritti, ma non self-executing, evidenzia conclusioni certe nel senso: a) la regolamentazione delle modalità, anche quoad termini di decadenza o prescrizione, dell’azione risarcitoria da inadempimento di direttiva attributiva di diritti ai singoli compete agli ordinamenti interni;

b) in mancanza di apposita disciplina da parte degli Stati membri, che dev’essere ispirata ai principi di equivalenza ed effettività, il giudice nazionale può ricercare analogicamente la regolamentazione dell’azione, ivi compresi eventuali termini di decadenza o prescrizione, in discipline di azioni già regolate dall’ordinamento, purchè esse rispettino i principi suddetti e, particolarmente, non rendano impossibile o eccessivamente gravosa l’azione; c) l’applicazione di un termine di prescrizione che così ne risulti, cioè che derivi dal riferimento che il giudice nazionale fa ad una disciplina interna regolamentante altra azione, è possibile comunque solo se essa può considerarsi sufficientemente prevedibile da parte dei soggetti interessati, dovendo, dunque, il giudice nazionale procedere necessariamente a tale apprezzamento; d) l’eventuale termine di prescrizione può decorrere anche prima della corretta trasposizione della direttiva nell’ordinamento nazionale, se il danno, anche solo in parte (è questo il significato del riferimento ai primi effetti lesivi contenuto nella sentenza nella sentenza Danske Slagterier) per questo soggetto si è verificato anteriormente; e) l’applicazione del termine di prescrizione decennale, della quale sopra si è data giustificazione, ove sia apprezzata sotto il profilo della prevedibilità da parte dei soggetti interessati, appare prevedibile, tenuto conto che il termine di prescrizione decennale (di cui all’art. 2946 c.c.) è quello generale e certamente più favorevole rispetto ai termini speciali, più brevi. Risponde, quindi, al principio comunitario di effettività.

3.1.2. La sentenza n. 17868 del 2011, deliberata sempre nella udienza del 18 aprile 2011, ma depositata il 31 agosto successivo, ha precisato che la ricostruzione dello stato della giurisprudenza comunitaria fatta dalle citate sentenze gemelle risultava conforme a quanto, successivamente al loro deposito, aveva deliberato la Corte di Giustizia con la sentenza 19 maggio 2011, resa sulla causa C-452, su un rinvio pregiudiziale simile a quello richiesto dal ricorrente, operato dal Tribunale di Firenze (e considerato dalla dette sentenze, le quali avevano escluso, invece, ch’esso fosse necessario ed erano state, peraltro, depositate senza che le parti avessero fatto presente l’imminenza della discussione davanti a quella Corte il 19 maggio 2011 ed in situazione nella quale nel sito della Corte di Giustizia non risultava all’epoca della camera di consiglio e del deposito delle decisioni la calendarizzazione dell’udienza).

3.1.3. Le citate sentenze gemelle e le altre che vi si sono accodate, dopo la ricognizione della giurisprudenza comunitaria e le conclusioni sulle sue implicazioni, hanno, quindi, affrontato il tema del dies a quo del termine prescrizionale e sono pervenute all’affermazione del seguente principio di diritto: il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11.

3.1.4. Ora, nel caso di specie, va considerato che mentre il ricorrente B. ha seguito il corso di specializzazione negli anni 1983-1987, viceversa gli altri tre ricorrenti hanno seguito in parte il corso in anni successivi all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991.

Ne discende che si deve a questo punto di stabilire se i principi sopra richiamati siano applicabili alla situazione di questi altri tre ricorrenti per tutta la durata del corso di specializzazione oppure se lo siano solo per il periodo che non si colloca sotto la vigenza del D.Lgs. n. 257 del 1991.

Ora, ai sensi dell’art. 8, comma 2, di tale D.Lgs. le disposizioni di cui all’art. 6 di esso, che aveva attuato tardivamente il diritto comunitario in parte qua le disposizioni del decreto si applicavano a decorrere dall’anno accademico 1991-92, il che comportava che esse fossero applicabili soltanto agli specializzandi che avessero iniziato il corso di specializzazione a decorrere dall’anno accademico de quo e non anche, sia pure per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs., a coloro che avessero iniziato la specializzazione prima di quell’anno accademico e non l’avessero ancora terminata. In pratica la situazione di costoro rimase priva di disciplina statuale attuativa del diritto comunitario non diversamente da quella degli specializzandi che avessero frequentato corsi terminati nell’anno accademico 1990-1991.

Ne deriva che il principio di diritto di cui alle sentenze gemelle sopra va così riespresso: il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica iniziati negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11.

4. Applicando questo principio al ricorso in esame il primo motivo dev’essere accolto con riferimento a tutti i ricorrenti, perchè per tutti il corso della prescrizione decennale ebbe a decorrere dalla data indicata e, dunque, all’atto della proposizione della domanda giudiziale non si era consumato. E ciò indipendentemente dal rilievo dei precedenti atti interruttivi indicati per ciascuno dei ricorrenti nel ricorso, ma non nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

La sentenza impugnata riguardo ai quattro ricorrenti in questione va, conseguentemente, cassata, perchè il diritto da loro fatto valere non si era consumato per prescrizione al momento in cui venne fatto valere con la domanda giudiziale.

5. Tuttavia, la cassazione con rinvio può riguardare la sentenza impugnata soltanto con riferimento alla domanda proposta nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei due Ministeri resistenti, in quanto la Corte deve rilevare d’ufficio che il diritto oggetto di giudizio, qualificato – già dalla sentenza impugnata – alla stregua della citata sentenza delle Sezioni Unite, è configurabile, al livello della fattispecie normativa astratta, esclusivamente nei riguardi dello Stato Italiano, dei quali la Presidenza del Consiglio ed i Ministeri sono articolazioni. Non lo è, invece, nei confronti dell’Università qui resistente.

E’ vero che l’Università non ha svolto una contestazione riguardo alla sua legittimazione passiva in senso sostanziale in iure con riferimento all’esatta qualificazione della fattispecie astratta cui la vicenda è riconducibile. Non ha cioè dedotto che l’ordinamento non prevede a livello di fattispecie normativa astratta che la pretesa fatta valere dal ricorrente si configuri nei confronti delle università. L’assenza di tale contestazione non è, però, di ostacolo alla rilevazione d’ufficio di tale mancata previsione in questa sede di legittimità.

Invero, la questione di difetto della legittimazione attiva o passiva secondo lo schema normativo astratto al quale si riconduce il diritto fatto valere in giudizio è questione che, pur essendo decisiva per l’esistenza della titolarità attiva o passiva di tale diritto e, quindi, afferendo in senso lato al “merito”, è rilevabile anche in sede di legittimità, con il solo doppio limite: a) che non si sia formata sulla sua esistenza la cosa giudicata interna, per essere stato il punto ad essa relativo oggetto di discussione e decisione e per essere rimasta quest’ultima priva di impugnazione; b) che la questione emerga sulla base dei fatti per come legittimamente prospettati davanti alla Corte di cassazione, cioè nel rispetto dei limiti entro i quali deve contenersi l’attività deduttiva delle parti negli atti introduttivi del giudizio di cassazione.

In presenza di queste due condizioni, la rilevazione da parte della Corte che la fattispecie normativa alla quale va ricondotto il diritto oggetto del giudizio non giustifica essa stessa su un piano astratto, cioè proprio secondo il paradigma previsto dalle norme regolatrici, l’individuazione dell’attore o del convenuto come soggetti attivo e passivo del diritto stesso, perchè essi non appartengono alla categoria soggettiva cui a fattispecie riferisce la legittimazione, rappresenta esercizio da parte della Corte del potere di individuazione dell’esatto diritto applicabile e, quindi, è attività di rilevazione di una quaestio iuris inerente l’astratta riferibilità sul piano normativo, cioè secondo lo schema normativo regolatore del diritto oggetto del giudizio, a colui dal quale o contro il quale è stato esercitato.

Si tratta di un’attività di rilevazione che in questo caso si estrinseca esclusivamente sulla base del confronto fra le categorie dei soggetti contemplati dalla fattispecie normativa astratta e le parti che stanno in giudizio. Da tale confronto emerge che uno di essi non è riconducibile alla categoria soggettiva astratta individuata dalla fattispecie normativa. Onde non si tratta di verificare se la fattispecie astratta trova riscontro nel caso concreto e, quindi, di accertare se i fatti per come pervenuti davanti alla Corte, evidenziano quella verificazione. Peraltro anche una simile verifica, ove non involgesse alcun accertamento di fatto estraneo alla logica del giudizio di cassazione, ma soltanto la rilevazione che la fattispecie concreta come pervenuta davanti alla Corte per il tramite degli atti introduttivi e della stessa decisione impugnata non è riconducibile sotto il profilo soggettivo alla fattispecie astratta alla quale è stata ricondotta e nel cui presupposto risulta articolato il motivo di ricorso per cassazione con cui la Corte è stata investita, sarebbe attività consentita alla Corte (sempre con i due limiti innanzi indicati).

5.1. Il Collegio non ignora che nell’uno come nell’altro caso ciò che viene in rilievo è l’esistenza del diritto sotto l’aspetto della titolarità, nel primo caso perchè la stessa norma regolatrice della fattispecie attribuisce il diritto ad una categoria di soggetti o contro una categoria di soggetti alla cui figura è estraneo il soggetto attivo o passivo, nel secondo caso perchè, pur essendo tale soggetto riconducibile alla categoria di soggetti contemplata dalla fattispecie astratta, in concreto a suo favore o nei suoi confronti i fatti per come pervenuti in cassazione nei limiti segnati alle attività che le parti possono svolgere negli atti introdottivi del relativo giudizio, palesano che la fattispecie astratta non si è, in realtà, verificata a favore o contro il soggetto stesso.

Ed il Collegio è, altresì, consapevole che una consistente giurisprudenza di questa Corte sottolinea sovente che la questione della titolarità del rapporto dedotto in giudizio è questione di “merito” non rilevabile d’ufficio in sede di legittimità.

5.2. Senonchè, questa giurisprudenza, in realtà, fa queste affermazioni con riguardo ad ipotesi nelle quali la prospettazione della questione di legitimatio ad causam in sede di legittimità avviene ad iniziativa della parte resistente in cassazione, ma sulla base della introduzione di fatti nuovi, in precedenza non dedotti nel giudizio di merito entro i termini di preclusione previsti, e, quindi, a maggior ragione non introducibili nel giudizio di legittimità, oppure addirittura di fatti rilevabili solo ad eccezione di parte: si riferisce, dunque, innanzitutto alla seconda delle due ipotesi appena indicate e non al caso nel quale, alla stregua della stessa fattispecie normativa astratta prospettata, difetta la legittimazione.

Si vedano, a titolo di esempio: Cass. n. 14177 del 2011 (secondo la quale: La legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione diretta all’ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza. Ne consegue che, a differenza della legitimatio ad causam (il cui eventuale difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio), intesa come il diritto potestativo di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, l’eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non è rilevabile d’ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti e, dunque, deve essere tempestivamente formulata. (Nella specie, la S.C. ha escluso che potesse rilevare come questione di legittimazione ad causam la deduzione, mai effettuata in precedenza dal ricorrente nel corso del giudizio di divisione, dell’avvenuta cessione della quota indivisa dei beni ereditari, da farsi valere, invece, nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte).; Cass. n. 11824 del 2010; Cass. n. 2049 del 2000 (secondo la quale: La legittimazione ad causam consiste nella titolarità del potere e del dovere – rispettivamente per la legittimazione attiva e per quella passiva – di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, secondo la prospettazione offerta dall’attore, indipendentemente dalla effettiva titolarità, dal lato attivo o passivo, del rapporto stesso. Quando, invece, le parti controvertono sulla effettiva titolarità, in capo al convenuto, della situazione dedotta in giudizio, ossia sull’accertamento di una situazione di fatto favorevole all’accoglimento o al rigetto della domanda attrice, la relativa questione non attiene, alla legitimatio ad causam, ma al merito della controversia, con la conseguenza che il difetto di titolarità deve essere provato da chi lo eccepisce e deve formare oggetto di specifica e tempestiva deduzione in sede di merito. Al contrario il difetto di legittimazione ad causam deve essere oggetto di verifica, preliminare al merito,da parte del giudice, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio); Cass. n. 20819 del 2006; Cass. n. 13403 del 2005 (secondo cui: La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito alcun esame d’ufficio, poichè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Fondandosi, quindi, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione all’azione, sulla mera allegazione fatta in domanda, una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea solo quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che trattavasi di questione non attinente alla dedotta legitimatio ad causam bensì concernente l’accertamento in concreto dell’effettiva titolarità del rapporto fatto valere in giudizio, sostenendo la ricorrente essere di proprietà pubblica e non appartenente alla titolarità della controricorrente e di una delle intimate gli immobili oggetti del contratto di locazione di cui si discuteva in causa); Cass. n. 14468 del 2008 (secondo la quale. La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito l’esame d’ufficio, poichè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. (Nella specie, la S.C., rigettando il ricorso avverso la sentenza impugnata, ha ritenuto sufficiente, ai fini della legittimazione passiva dei convenuti, che nella domanda attorea essi fossero indicati quali autori di illeciti anticoncorrenziali rientranti nella previsione della disciplina dettata dalla L. n. 287 del 1990, la quale regola le azioni di nullità e di risarcimento dei danni nascenti dall’illecito anticoncorrenziale, attenendo invece al merito la questione se gli stessi convenuti fossero in concreto esonerati dall’applicazione della normativa antitrust per avere agito nell’ambito di una delle ipotesi di esenzione disciplinate dalla legge); Cass. n. 355 del 2008.

In queste decisioni il riferimento eccettuativo al caso del riscontro dell’esistenza della legittimazione esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, evidenzia che esse non si discostano dai principi sopra affermati a proposito del caso nel quale la stessa fattispecie normativa prospettata evidenzi che il soggetto attore o il soggetto convenuto non sono ad essa riconducibili. Dette decisioni concernono invece ipotesi nelle quali la pretesa di ridiscutere in sede di legittimità la titolarità del rapporto si sorreggeva sulla negazione della titolarità in concreto e, quindi, della riconducibilità della posizione del soggetto attivo o passivo ad una fattispecie concreta di verificazione della fattispecie astratta dedotta in giudizio. Non solo: tale pretesa si basava – come conferma anche la lettura delle decisioni – sulla deduzione di circostanze di fatto non emergenti in sede di legittimità, come fa manifesto il riferimento all’onere probatorio o deduttivo o all’eccezione o al formare oggetto di specifica e tempestiva deduzione in sede di merito verificabili. E dunque l’affermazione che la questione della legitimatio non è suscettibile di rilievo d’ufficio è, in realtà, giustificata dal divieto di introducibilità di fatti nuovi o dello svolgimento di un’attività di contestazione di fatti prima rimasti incontestati nelle fasi di merito, connaturato alle preclusioni formatesi nelle fasi di merito e determinativa dei limiti del potere di allegazione nel giudizio di legittimità. Là dove, invece, fermo il limite del giudicato interno, la contestazione dell’efficacia giuridica dei fatti storici acquisiti nel giudizio di merito sulla base di meri ragionamenti in iure rimane, invece, attività meramente argomentativa e, quindi, consentita alle parti, non diversamente da come la qualificazione degli stessi è possibile per la Corte.

5.3. L’affermazione che il difetto di legitimatio ad causam, sia intesa – per quello che qui interessa – come titolarità attiva o passiva in astratto del diritto fatto valere con l’atto introduttivo del giudizio, sia nel senso della titolarità in concreto, possa essere rilevato d’ufficio in sede di legittimità, d’altro canto, non trova ostacolo nei limiti entro i quali il giudizio di cassazione si deve svolgere quale giudizio introdotto da un mezzo impugnazione a motivi limitati, perchè, una volta che il mezzo di impugnazione sia stato introdotto attraverso la prospettazione di un motivo di impugnazione esperibile, l’unica circostanza che potrebbe precludere alla Corte di cassazione il rilievo del difetto di legittimazione si può rinvenire nella circostanza che la relativa questione sia rimasta coperta da cosa giudicata interna.

Ciò, tuttavia, può avvenire solo se nel giudizio di merito il punto relativo alla legittimazione intesa nei sensi indicati sia stato deciso e non vi sia stata al riguardo impugnazione. La decisione dev’essere stata, peraltro, esplicita, non potendosi ritenere che in mancanza di tale decisione un giudicato interno si sia formato in via implicita, semplicemente perchè la legittimazione (nel senso della fattispecie astratta o di quella concreta) abbia costituito la premessa logica per la decisione. Perchè una questione possa ritenersi decisa dal giudice di merito occorre, infatti, ch’essa sia stata oggetto di discussione tra le parti e così deve ritenersi per la legittimazione. Se il punto oggetto della questione non è stato discusso non può essere stato “deciso”, ma solo assunto come premessa della decisione che in concreto è stata adottata. Una quaestio iuris come la riconducibilità della posizione dell’attore o del convenuto alla fattispecie astratta o quella della riconducibilità della posizione dell’attore o del convenuto quale emergente in fatto a detta fattispecie deve, pertanto, perchè si formi giudicato interno in difetto di impugnazione, essere state discussa e decisa espressamente.

Ne consegue che, se tale decisione espressa non vi sia stata, ma la decisione vi sia stata solo su una questione rispetto alla quale la legittimazione si colloca logicamente prima, l’esercizio dell’impugnazione sulla decisione assunta riguardo a detta questione, è idoneo a porre in discussione l’intero procedimento logico seguito dal giudice e, nel caso di ricorso in cassazione, dal giudice di merito, per arrivare alla decisione della questione.

Per cui, se la Corte di cassazione rileva che in iure il procedimento logico si è fondato sulla premessa di una legittimazione sostanziale inesistente, senza che su questa vi sia stata espressa decisione, è abilitata a trame le conseguenze che sono nel senso che il diritto è stato esercitato da soggetto che non ne era titolare o contro un soggetto che non ne era titolare.

Per restare al caso di cui è processo, l’esercizio da parte del ricorrente del diritto di impugnazione contro la decisione di merito qui impugnata che ha ritenuto prescritto il diritto oggetto di giudizio abilita questa Corte a dover esaminare la correttezza dell’intero procedimento logico seguito per arrivare alla conclusione raggiunta e, quindi, anche la questione della legitimatio ad causam dell’Università, evidentemente ritenuta implicitamente sussistente dalla Corte territoriale. Solo se tale sussistenza fosse stata oggetto di discussione e la sentenza di merito avesse deciso sulla relativa questione affermando espressamente detta legitimatio, cioè avesse affermato che il diritto oggetto della lite, al livello della fattispecie normativa ritenuta ad essa adeguata, era configurabile contro l’Università, si sarebbe potuto formare giudicato interno in mancanza di impugnazione della decisione su tale punto. E solo in questo caso alla Corte sarebbe stato precluso di scrutinare il motivo valutando l’esistenza della legitimatio. In tal caso e solo in tal caso lo scrutino della fondatezza della decisione impugnata si sarebbe dovuto svolgere senza poter mettere in discussione detta esistenza, in mancanza di (necessaria) impugnazione incidentale dell’Università sul punto.

Quanto qui sostenuto trova conforto nell’orientamento recentemente affermato dalle sezioni Unite di questa Corte, le quali nella sentenza n. 26019 del 2008 hanno espressamente affermato che non è soggetta allo logica del ed. giudicato implicito (affermata dalle stesse Sezioni Unite per la questione di giurisdizione in presenza di decisione sul merito, da Cass. sez. un. n. 24483 del 2008) la questione del difetto di legitimatio ad causam e che, pertanto, essa resta rilevabile in sede di legittimità in mancanza di un giudicato interno espresso, con la conseguenza che la rilevazione di tale difetto comporta la nullità della sentenza impugnata e la sua cassazione senza rinvio perchè la domanda non poteva essere proposta, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

E’ anzi appena il caso di rilevare che l’affermazione della necessità di un giudicato interno espresso per escludere il potere della Corte di cassazione di rilevare d’ufficio il difetto di legitimatio ad causam nello scrutinio di un motivo relativo a questione decisa dalla sentenza impugnata sulla sola premessa logica dell’esistenza di essa trova riscontro proprio nella norma ora citata. Poichè il potere di rilevare che la domanda non poteva essere proposta non è previsto come un espresso motivo di impugnazione dall’art. 360 c.p.c., deve, infatti, ritenersi che si tratti di un potere che la Corte, una volta investita del ricorso da una delle parti e, quindi, sollecitata ad annullare la sentenza impugnata, può esercitare d’ufficio. E, poichè, l’esercizio di un potere di ufficio in sede di impugnazione non potrebbe avvenire se la questione che ne è oggetto sia stata decisa dal giudice di merito e non vi sia stata impugnazione, è giocoforza ritenere che si tratti di potere che in tanto la Corte può esercitare in quanto tale decisione non vi sia stata e, quindi, non sia stata necessaria l’impugnazione.

Il che non era men vero nel tessuto originario del Codice per le ipotesi di riscontro della circostanza che la causa non poteva essere proseguita, posto che in quel contesto le ipotesi di mancata prosecuzione, le quali davano, come danno, luogo ad estinzione erano rilevabili d’ufficio dal giudice (come accade ora dopo la L. n. 69 del 2009) e, quindi, potevano esserlo da parte della Cassazione, sempre in difetto di decisione sul punto coperta da giudicato interno.

6. Deve, dunque, rilevarsi d’ufficio che la domanda del ricorrente, qualificata giuridicamente nell’unico modo consentito dall’ordinamento, per quanto concerne l’Università, appare proposta contro un soggetto che non è il titolare o il contitolare passivo della situazione giuridica fatta valere e, quindi, ricorre un’ipotesi nella quale, alla stregua dell’art. 382 c.p.c., comma 3 la domanda non poteva essere proposta nei confronti dell’Università qui resistente.

7. Le considerazioni svolte, impongono, dunque, quanto ai quattro ricorrenti riguardo ai quali il giudizio di cassazione non è stato rinunciato la cassazione con rinvio della sentenza impugnata nel rapporto fra essi da un lato e la Presidenza del Consiglio ed i Ministeri dall’altro. Mentre la cassazione dev’essere disposta senza rinvio, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, nel rapporto fra i detti ricorrenti e l’Università.

Quanto ai rapporti processuali rispetto ai quali è disposto il rinvio, il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Roma, comunque in diversa composizione dovrà, dunque, considerare non prescritta la pretesa del ricorrente e provvederà ad esaminarla considerando la qualificazione di essa emergente dalla giurisprudenza di questa Corte e segnatamente dalla più volte citata sentenza delle Sezioni Unite, secondo le implicazioni emergenti delle sentenze gemelle.

Il giudice di rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione riguardo a detti rapporti.

8. Nel rapporto fra gli indicati ricorrenti e l’Università, dovendo provvedersi sulle spese dell’intero giudizio, se ne dispone l’integrale compensazione, attesa la già segnalata oggettiva incertezza della vicenda nella quale si iscrive il giudizio.

P.Q.M.

La Corte dichiara estinto il giudizio di cassazione per intervenuta rinuncia quanto al ricorso proposto da Be.Fl., A. G.R., S.A., P.M. (o P.) e M.M.. Compensa le spese quanto ai rapporti processuali fra essi ricorrenti ed i resistenti. Provvedendo sul ricorso proposto da Saverio B., S.C., S. R. e G.G.A. cassa senza rinvio la sentenza impugnata nei rapporti fra costoro e l’Università degli Studi di Napoli Federico II, perchè la domanda non poteva essere proposta. Compensa le spese dell’intero giudizi quanto al relativo rapporto processuale. Accoglie il ricorso dei medesimi contro la Presidenza del Consiglio dei ministri ed i due Ministeri resistenti.

Cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma, comunque in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 14 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2011

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