Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24087 del 13/10/2017


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Cassazione civile, sez. III, 13/10/2017, (ud. 21/04/2017, dep.13/10/2017),  n. 24087

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. CIRILLO Francesco M. – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25783-2014 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 55,

presso lo studio dell’avvocato NICOLA DI PIERRO, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO ACERBONI giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ATA ITALIA SRL, in persona del Presidente e legale rappresentante

Dott. S.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO

CESARE 21/23, presso lo studio dell’avvocato CARLO BOURSIER NIUTTA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO

ARMENTANO giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

ATA HANDLING SRL IN LIQUIDAZIONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1417/2013 del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata

il 19/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/04/2017 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO;

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione notificato l’11 luglio 2012, M.M. ha evocato in giudizio la società di Handling Aeroportuale SAV SpA, oggi Ata Handling, davanti al Tribunale di Venezia, chiedendo accertarsi la responsabilità della stessa per la denunzia presentata il 19 gennaio 2006 nei confronti dell’attore con la quale la società sosteneva che il M. avesse truffato la pubblica amministrazione, allegando patologie inesistenti, mentre nei giorni di malattia, giustificati con certificazione medica, prestava la propria attività lavorativa presso altra società. Appresa l’esistenza di tale denunzia-querela M. aveva proposto una denunzia per calunnia. Entrambe erano state archiviate nell’anno 2011. In sede civile, M. ha lamentato la lesione dell’onore e della reputazione per il fatto che era stata presentata una denunzia contenente espressioni false ed offensive, senza verificare l’attendibilità delle comunicazioni del terzo, nella consapevolezza che i fatti addebitati non fossero veri, soprattutto per quanto riguardava l’inesistenza delle patologie;

il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 1417 del 2013, rigettava la domanda proposta da M.M., condannandolo al pagamento delle spese, escludendo che la denunzia fosse stata proposta con dolo o con colpa, in quanto il legale rappresentante della convenuta SAV aveva sostenuto la violazione da parte di M. degli obblighi contrattuali, sulla base delle positive rassicurazioni della S.r.l. Oasi, con riferimento all’episodio del 26 giugno 2005 e ritenendo che la denunzia non presentasse espressioni sconvenienti o offensive;

avverso tale decisione proponeva appello M.M. con atto notificato il 4 marzo 2014 ritenendo errata la decisione nella parte in cui il Tribunale aveva ritenuto “positivamente dimostrato che il convenuto avesse giustificatamente affermato la violazione da parte di M. degli obblighi contrattuali”, nonchè la ritenuta inesistenza di espressioni sconvenienti; con ordinanza del 2 luglio 2014 la Corte d’Appello di Venezia dichiarava inammissibile, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c.l’appello proposto da M.M. avverso la sentenza del 19 luglio 2013 del Tribunale di Venezia condannandolo al pagamento delle spese in favore di ATA Italia S.r.L.;

avverso la sentenza del Tribunale di Venezia del 19 luglio 2013 propone ricorso per cassazione N.M. sulla base di due motivi. Resiste in giudizio Ata Italia S.r.l. con controricorso e M. deposita memoria sensi dell’art. 380 bis c.p.c.

Diritto

CONSIDERATO

che:

la motivazione viene redatta in forma semplificata in adempimento di quanto previsto dal decreto n. 136-2016 del Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione, non avendo il presente provvedimento alcun valore nomofilattico;

con il primo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. in ordine all’errata insussistenza del dolo o della colpa del denunciante, quale presupposto per il risarcimento dei danni, ribadendo che il diritto di denuncia si accompagna ad un onere di verifica dei fatti e ribadendo che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, ricorreva sia l’elemento soggettivo del dolo, che quello della colpa; con riferimento al primo, trascrivendo interamente buona parte degli atti difensivi di primo grado (da pagina 34 a pagina 40 del ricorso) e riportando, successivamente, gli elementi di fatto della vicenda processuale e, con riferimento all’elemento della colpa grave argomentandone la concreta sussistenza;

il primo motivo presenta evidenti profili di inammissibilità perchè, per quanto sopra precisato, è costituito quasi interamente dalla riproduzione degli atti processuali di merito, assolutamente sovrabbondanti e relativi a tutti i profili di fatto esaminati nel giudizio. Va richiamato a riguardo l’indirizzo di questa Corte secondo cui il ricorso per cassazione redatto per assemblaggio, attraverso la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali, è carente del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3), che non può, a fronte dell’utilizzo di tale tecnica, neppure essere desunto, per estrapolazione, dall’illustrazione del o dei motivi (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 3385 del 22/02/2016 (Rv. 638771 – 01). Il motivo è, comunque, inammissibile poichè il ricorrente chiede alla Corte un riesame nel merito della intera complessa vicenda prospettando, formalmente, l’ipotesi di violazione di legge. A rigore il ricorrente sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in realtà intende censurare la motivazione adottata dai giudici di merito (“appare evidente come il Tribunale di Venezia prima, e la Corte, poi, abbiano errato, sia nel non ravvisare una responsabilità dell’odierna resistente, ai sensi dell’art. 2043, sia nel valutare i fatti ricostruiti”) ritenendola inadeguata e lacunosa, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Tale censura, però, è del tutto inibita dall’art. 348 ter c.p.c., comma 4 in presenza di una doppia conforme e cioè nel caso di inammissibilità fondata sulle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata;

con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e art. 598 c.p. in ordine all’errata insussistenza di espressioni sconvenienti nella denuncia, rilevando che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, tali espressioni sussistevano perchè “nessuno ha obbligato SAV a scrivere che il M. ha ingannato i sanitari e che ha truffato la pubblica amministrazione”, potendosi limitare a una mera indicazione dei fatti;

rilievi analoghi a quelli riferiti al primo motivo riguardano il secondo motivo, che si traduce in una censura della motivazione, poichè il vizio di violazione di legge, formalmente dedotto dal ricorrente, consiste nella censura di una errata ricognizione della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della norma. Al contrario, nel caso di specie ricorre l’allegazione di una errata ricognizione della fattispecie concreta, che è estranea all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, atteso che il ricorrente censura proprio la valutazione concreta “del giudice di prime cure (che avrebbe dovuto) non ravvisare la sconvenienza delle espressioni utilizzate da SAV nella denuncia in oggetto e, quindi, il diritto del ricorrente al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della lesione dell’immagine, dignità e l’onore” (pagina 49 del ricorso);

le considerazioni che precedono consentono di prescindere dall’esame della questione posta con il controricorso e relativa alla dedotta carenza di legittimazione passiva di ATA Italia S.r.l;

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17: “Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

PQM

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2017

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