Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24083 del 26/09/2019

Cassazione civile sez. II, 26/09/2019, (ud. 06/03/2019, dep. 26/09/2019), n.24083

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 3597/2015 proposto da:

CASSA DI RISPARMIO DELL’UMBRIA s.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.

Giovanni Tarantini e Donato Antonucci, con domicilio eletto in Roma,

via G.B. Morgagni n. 2/a, presso lo studio dell’Avv. Umberto

Segarelli;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso la

medesima Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA PERUGIA s.p.a. e Ministero dell’economia e delle finanze;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte di appello di Perugia n. 650

depositata l’11 novembre 2014;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 6

marzo 2019 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

udito l’Avv. Donato Antonucci, per parte ricorrente.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Perugia – Sezione distaccata di Foligno, con sentenza n. 273 del 2012, decidendo sull’opposizione proposta da Casse di Risparmio dell’Umbria s.p.a. avverso l’ordinanza ingiunzione emessa dall’Agenzia delle entrate, con la quale le veniva comminata la sanzione di Euro 751.390,81 per avere conferito nel periodo 2003/2006 l’incarico di presidente del Consiglio di Amministrazione all’ing. D.D., direttore generale dell’ASL n. (OMISSIS) di Terni, senza previa autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza, la respingeva.

In virtù di rituale impugnazione interposta dalla medesima Casse di Risparmio dell’Umbria, la Corte di appello di Perugia, nella resistenza dell’appellata Agenzia, rimasti contumaci il Ministero e la concessionaria, respingeva l’impugnazione e per l’effetto confermava la decisione impugnata.

A sostegno della decisione impugnata la corte territoriale osservava che sebbene il rapporto di lavoro instaurato con il direttore generale fosse qualificato dalla legge come di diritto privato, la scelta dello stesso traeva origine da un procedimento amministrativo; inoltre, il regime previdenziale e retributivo era simile a quello degli altri pubblici dipendenti, prevedendo la legge un obbligo di esclusiva da parte del direttore, violato nella specie dal professionista (tanto che era stato instaurato a suo carico un giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei Conti conclusosi con la condanna dello stesso per danno erariale). Aggiungeva, infine, che il direttore era soggetto alla stessa normativa di disciplina del pubblico impiego, attribuendo alla p.a. tutti quei poteri volti al perseguimento dell’interesse pubblico, caratterizzanti detto rapporto, a nulla rilevando che al momento della nomina dell’Ing. D. a direttore generale egli fosse un dipendente pubblico in quiescenza.

Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Perugia ha proposto ricorso per cassazione la Casse di Risparmio dell’Umbria, sulla base di due motivi, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Sono rimasti intimati il Ministero e la concessionaria.

Fissata adunanza camerale per il 14 settembre 2018, la causa è stata rinviata alla pubblica udienza per i profili di novità e di rilevanza nomofilattica che ponevano le censure.

In prossimità dell’udienza pubblica entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa, il ricorrente vi aveva provveduto anche in vista dell’adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o errata applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 1, 2 e 53, D.L. n. 97 del 1997, art. 6, D.Lgs. n. 502 del 1992, artt. 3 e 3-bis, D.P.C.M. n. 502 del 1995, giacchè trattandosi di norme che si riferirebbero esclusivamente ai rapporti di lavoro subordinato con la p.a., ne rimarrebbero estranei i rapporti di lavoro subordinato part-time e i rapporti di lavoro non dipendente instaurati con le pubbliche amministrazioni, quali le collaborazioni coordinate e continuative e quelli di natura libero-professionale, retti da un differente regime giuridico e contrattuale, come nel caso del direttore generale di una ASL.

Con il secondo motivo di ricorso è lamentata la violazione e/o l’errata applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 1,D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 1, 2 e 53, D.L. n. 79 del 1997, art. 6, D.Lgs. n. 502 del 1992, artt. 3 e 3-bis, D.P.C.M. n. 502 del 1995, per avere la corte operato una assimilazione del rapporto di lavoro del direttore generale con quello dei dipendenti pubblici, con conseguente violazione del principio di legalità contenuto soprattutto nella L. n. 689 del 1981, art. 1 e del divieto di applicazione analogica agli illeciti amministrativi; aggiunge la ricorrente che il carattere di esclusività del rapporto previsto dal D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 3-bis, comma 8, avrebbe rilevanza ad altri fini, potendo costituire motivo di risoluzione del contratto con la Regione, non certo determinare la irrogazione di una sanzione pecuniaria non prevista dall’ordinamento, dal momento che l’ingegnere incaricato quale dipendente pubblico era andato in pensione a far data dal 01.01.2003.

Preliminarmente va evidenziato che la società ricorrente è stata sanzionata ai sensi sia del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9, per essersi avvalsa dell’attività del D., senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, sia ai sensi del comma 11 dello stesso articolo, in relazione alla mancata comunicazione alla medesima amministrazione dei compensi elargiti.

Nelle more del presente giudizio di legittimità è intervenuta la sentenza del 10 giugno 2015 n. 98 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53, comma 15 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che “I soggetti di cui al comma 9, che omettono le comunicazioni di cui al comma 11, incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9”.

La Corte delle leggi, nel ritenere fondata la questione sollevata dal Tribunale di Ancona, ha evidenziato che in una direttiva intesa a conferire al legislatore delegato il compito di prevedere come obbligatoria una determinata condotta, non è ricompresa, sempre e comunque, anche la facoltà di stabilire eventuali correlative sanzioni per l’inosservanza dell’obbligo.

Ha aggiunto che la previsione contenuta nell’art. 53, comma 15, si risolve in una duplicazione della sanzione già prevista per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione, con un effetto moltiplicativo raccordato ad un inadempimento di carattere solo formale.

Com’è noto, le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, con l’unico limite costituito dalle situazioni consolidate ed in particolare dal giudicato, che, nella specie, non si è formato poichè il capo della decisione riguardante la legittimità della sanzione inflitta è stato fatto oggetto di specifici motivi di censura.

Ne discende che in parte qua la sentenza impugnata dovrebbe essere cassata (in senso conforme, si veda Cass. n. 14199 del 2016; Cass. n. 13474 del 2016), stante il venir meno della stessa norma sanzionatoria.

In relazione, invece, alla diversa ipotesi sanzionatoria non attinta dalla declaratoria di incostituzionalità, l’oggetto del contendere è focalizzato sulla possibilità di ritenere che la previsione che impone l’obbligo di preventiva autorizzazione per il conferimento di incarichi a dipendenti pubblici si applichi anche a colui che, come nella specie, rivesta l’incarico di direttore generale di una ASL.

Va, altresì, dato atto che nell’intervallo di tempo fra l’adunanza camerale e l’udienza pubblica di questo stesso giudizio è intervenuta decisione di questa Sezione (Cass. n. 22887 del 2018) relativa a contenzioso analogo a quello in esame, tuttavia il Collegio ritiene opportune talune precisazioni sulla natura del rapporto di lavoro nel caso di direttore generale ASL, nell’armonizzazione con la vigente disciplina delle incompatibilità, e per tale ragione, si anticipa, che la questione verrà rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite.

L’esame delle censure, infatti, richiede un breve richiamo del quadro normativo rilevante in materia, che è dato dalle disposizioni del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (modificate dal D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 299), e del D.L. 27 agosto 1994, n. 512, convertito in L. 17 ottobre 1994, n. 590.

Il direttore generale dell’azienda sanitaria (persona giuridica pubblica) è organo che rappresenta l’azienda (ente strumentale della regione), con tutti i poteri di organizzazione (adotta l’atto aziendale) e di responsabilità della gestione, compresi quelli di nomina dei direttori sanitario e amministrativo, nonchè dei revisori; è nominato con provvedimento dell’ente di cui l’azienda è strumento, cioè della regione (salvi i poteri sostitutivi statali in caso di inerzia nel termine previsto), con esclusivo riferimento alla sussistenza dei requisiti del diploma di laurea e dell’esperienza dirigenziale come definita dalla legge, senza necessità di valutazioni comparative (allo scopo è formato un elenco di idonei, previo avviso pubblico diretto alla presentazione delle domande di conferimento dell’incarico); con il nominato è stipulato un contratto (secondo uno schema definito da un D.P.C.M.) di diritto privato e di lavoro autonomo esclusivo (D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 3, commi 1 – bis, 1 – quater, 1 – quinques, art. 6, art. 13; art. 3 – bis, commi 1, 2, 8; D.L. n. 512 del 1994, art. 1).

La giurisprudenza della Corte non dubita della coerenza tra la qualificazione legislativa del contratto regolante il rapporto di servizio tra azienda e direttore generale e la natura effettiva delle prestazioni, sul rilievo, assorbente di ogni altro, che l’organo di vertice dell’ente non può prestare servizio in condizione di subordinazione; quanto ai poteri di direttiva, controllo e di risoluzione del contratto (art. 3 – bis, commi 6 e 7), essi competono alla regione, ente diverso da quello nella cui organizzazione il direttore è inserito e per il quale le prestazioni sono rese (vedi Cass. S.U. 16 aprile 1998 n. 3882; 24 febbraio 1999, n. 100; 3 novembre 2005, n. 21286; Cass. 1 aprile 2004, n. 6450). La natura autonoma del rapporto, inoltre, costituisce il presupposto di tutte le decisioni delle Sezioni Unite (cfr Cass. Sez. un. 3882 del 1998; Cass. Sez. Un. 100 del 1999; Cass. Sez. Un. 6854 del 2003; Cass. Sez. Un. 14177 del 2004) che hanno operato il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo secondo il criterio generale del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo, escludendo, di conseguenza, la configurabilità di un rapporto di impiego pubblico.

La natura autonoma del rapporto di lavoro collocherebbe la controversia in ambito escludente l’applicazione delle norme raccolte nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.

Questo Giudice di legittimità, però, non ha mancato di affermare che il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 3, come modificato dal D.Lgs. 7 dicembre 1993, n. 517, ed in particolare i commi 8 e 10, i quali sanciscono, all’comma 8, rispettivamente che “Il rapporto di lavoro del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo….” e che “Il trattamento economico del direttore generale, del direttore sanitario e del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo ” ed, al comma 10, che “La carica di direttore generale è incompatibile con la sussistenza di altro rapporto di lavoro, dipendente o autonomo”, vadano interpretati nel senso che non è consentito alcuna deroga alla regola dell’esclusività, anche con riferimento all’ipotesi in cui l’altro rapporto di lavoro sia stato instaurato dall’azienda sanitaria nel cui interesse l’esclusività è prevista. Si tratta di norma imperativa non derogabile dalle parti (Cass. 8 maggio 2012 n. 6958), dove il plurimo richiamo all’esclusività è “logicamente da intendere volto a far sì che l’incarico sia totalmente assorbente dell’attività del direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera e ciò sia sotto il profilo quantitativo (tempo pieno) sia sotto il profilo della cura, in via esclusiva, degli interessi della preponente (impegno esclusivo)” così Cass. 12 luglio 2001 n. 9464, ripresa da Cass. 19 dicembre 2014 n. 26958).

Passando all’esame delle norme raccolte nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il comma 1 dell’art. 53 pone il principio generale relativo al tema delle incompatibilità assolute e, sostanzialmente, non apporta modifiche alle norme previgenti, affermando esplicitamente per tutti i dipendenti pubblici la perdurante vigenza del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. da 60 a 65.

Al fine di armonizzare tale affermazione con le proprie previsioni, il testo specifica che sono fatte salve le deroghe di cui all’art. 23 bis del medesimo D.Lgs. e le norme sul part time.

L’art. 23 bis prevede la possibilità che i dirigenti pubblici svolgano periodi di lavoro presso soggetti pubblici o privati, per un periodo massimo di 5 anni, in regime di aspettativa, senza perdere la qualifica e con possibilità di ricongiunzione previdenziale. La disposizione non risulta direttamente connessa al tema delle incompatibilità anche tenendo conto del fatto che, comunque, siamo in assenza sia di prestazione che di retribuzione.

Venendo alle linee generali della disciplina delle incompatibilità disegnata dal legislatore delegato in attuazione della riforma, lo stesso richiama il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60, che impone ai pubblici dipendenti il divieto di esercitare il commercio, l’industria e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro. Il successivo art. 61 esclude dal divieto le società cooperative e prevede che sia autorizzabile lo svolgimento dell’incarico di arbitro o perito, mentre l’art. 62 ammette che il dipendente, previa previsione di legge o autorizzazione, “partecipi all’amministrazione o ai collegi sindacali di società o enti ai quali lo Stato partecipi o comunque contribuisca, in quelli che siano concessionari dell’amministrazione di cui l’impiegato fa parte o che siano sottoposti alla vigilanza di questa”.

Si tratta, dunque, di un sistema in cui, a fianco di un generale divieto del tutto inderogabile, si prevede che l’amministrazione datrice di lavoro possa autorizzare i propri dipendenti a svolgere alcune specifiche attività estranee a quanto da loro dovuto in base al rapporto lavorativo.

Il sistema, strettamente coerente con una definizione rigorosamente pubblicistica del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, prevedeva dunque una limitata possibilità di deroga da parte delle pubbliche amministrazioni (c.d. incompatibilità relative o superabili) a fronte di un generale divieto (c.d. incompatibilità assoluta) di svolgere attività extraistituzionali.

Il legislatore delegato ha trasportato la disciplina del 1957 nell’ambito del lavoro pubblico privatizzato e ha voluto conservarla invariata anche nel nuovo contesto.

Il testo dell’art. 53 ha, innanzitutto, fatto propri gli elementi del tradizionale sistema normativo (pubblicistico) recante divieti assoluti parzialmente derogabili. Ha poi individuato un ambito di attività che, seppure con qualche incertezza rispetto alla portata, si possono ritenere del tutto liberalizzate.

Il legislatore ha quindi preso in considerazione gli incarichi retribuiti, cioè quelle attività che il pubblico dipendente potrebbe svolgere dietro compenso a beneficio di un soggetto diverso dal proprio datore di lavoro ovvero quelle attività che lo stesso datore, al di fuori delle mansioni dedotte in contratto e dietro compenso ulteriore rispetto a quello ordinario, può decidere di assegnargli.

Con riferimento a tale categoria di attività il legislatore non ha provveduto a determinare una specifica e puntuale disciplina, ma ha costruito un sistema in base al quale lo stesso datore pubblico provvede ad autorizzare o meno l’assunzione/conferimento degli incarichi. Tale sistema delle autorizzazioni appare a prima vista una sorta di “espansione” del meccanismo previgente, ma presenta in realtà una enorme portata innovativa.

Infatti, essa non risponde ad una logica di tipo amministrativo nè, stanti i suoi legami con il rapporto (contrattuale) di lavoro, può ritenersi sottratto alla privatizzazione. Tuttavia esso conferisce al datore pubblico un controllo assai pregnante sulla vita e sul tempo extralavorativo dei propri dipendenti ed è evidente che un simile potere (di autorizzare o meno il lavoratore a utilizzare in modo remunerativo il proprio tempo, libero dalla prestazione di lavoro dedotta in contratto) è sconosciuto all’imprenditore privato.

L’art. 53, da un lato conserva alla legge, attraverso il rinvio al D.P.R. n. 3 del 1957 e ad altre norme speciali, la definizione delle incompatibilità assolute e delle relative eccezioni, dall’altro però attribuisce al datore di lavoro il potere di indicare singole e specifiche fattispecie di incompatibilità al di fuori del confine del vietato ex lege. Con riferimento a tale contesto, il legislatore delegato, pur confermando alcune indicazioni generali in merito ai limiti di tale potere, attribuisce alle determinazioni del singolo datore, ma non alla previsione normativa, la definizione del lecito e mantiene a quest’ultima soltanto la definizione degli aspetti procedurali e sanzionatori conseguenti.

Si può ritenere che la scelta del legislatore delegato sia legittima e non consenta la formulazione di censure relative alla mancata o eccessiva attuazione della delega. Infatti la definizione per legge delle incompatibilità assolute è di per sè sufficiente a integrare il precetto di cui alla L. n. 421 del 1992, art. 2.

Risulta piuttosto evidente che il fatto di avere sottratto alla regolazione legislativa la materia delle autorizzazioni relative agli incarichi retribuiti e di aver ricondotto la specificazione dei divieti ad un inedito potere del soggetto datoriale pubblico, pone il problema della sua eventuale disponibilità, in quanto egli agisce con i poteri del datore comune.

E’ cioè opportuno chiedersi se, nonostante la legge delega abbia voluto inequivocabilmente sottrarre alla contrattazione la disciplina delle materia in parola, in seguito alla scelta effettuata dal legislatore delegato di affidare la individuazione degli incarichi retribuiti leciti al datore di lavoro, sia possibile per quest’ultimo (che non è certamente obbligato in tal senso) definire contrattualmente la materia o, quantomeno, farne oggetto di confronto in sede sindacale. Infatti da un lato – stante la disponibilità del potere dell’imprenditore privato – parrebbe lecito che anche il datore pubblico possa decidere in tal senso, vincolandosi poi, ovviamente, nei termini eventualmente fatti oggetto di accordo sindacale. Dall’altro, tuttavia, una simile soluzione parrebbe allontanare un pò troppo gli esiti concreti e finali dello spirito e delle evidenti intenzioni del delegante che ha voluto inequivocabilmente sottrarre la materia alla contrattazione e che ha inteso conferire una certa unità alla disciplina delle incompatibilità in tutto il campo del pubblico impiego.

La tematica in parola si interseca in maniera significativa con un altro e differente problema, quello costituito dalla disciplina che regola l’assegnazione di incarichi di lavoro autonomo a soggetti ad esse estranei da parte della pubbliche amministrazioni.

La delicata tematica viene affrontata dal medesimo D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 6, che è stato oggetto di numerose riscritture e che, attualmente, definisce in maniera piuttosto rigorosa sia i presupposti oggettivi in presenza dei quali le amministrazioni possono attribuire a personale esterno incarichi lavorativi sia i requisiti soggettivi che debbono avere gli “esterni”, per poter essere destinatari di tali incarichi. E’ evidente che la disciplina di cui all’art. 7, richiamato risponde a necessità sia di contenimento sia di razionalizzazione della spesa pubblica, cui si affianca la volontà di garantire, attraverso una serie di rilevanti obblighi di pubblicità in merito agli incarichi attribuiti e alle somme per ciò impiegate, un buon livello di trasparenza dell’azione amministrativa.

Come si accennava, la disciplina in parola si potrebbe sovrapporre a quella delle incompatibilità di cui all’art. 53, non solo quando gli incarichi di cui all’art. 7, comma 6, vengano attribuiti a soggetti che siano dipendenti di amministrazione pubblica diversa rispetto a quella di appartenenza, ma anche a soggetti totalmente esterni.

Ferma la natura amministrativa dei provvedimenti in parola, occorre chiedersi se, con riferimento alle categorie di dipendenti i cui rapporti di lavoro sono stati privatizzati, ci si trovi di fronte a provvedimenti privatistici o meno. E’ tuttavia evidente che con tale tipo di autorizzazioni si pone un problema di coerenza del sistema e rimane possibile interpretare la previsione della L. n. 421 del 1992, art. 2, nel senso di sottrarre alla riforma la materia delle incompatibilità. Tuttavia si può ritenere che, sebbene siano ancora fortemente connotati in senso pubblicistico, gli atti in parola vadano comunque ricondotti alla privatizzazione del rapporto per esplicita previsione legislativa (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2).

L’art. 53, comma 1, infatti, prevede, esplicitamente, che mantengono vigore alcune discipline speciali relative a particolari categorie di dipendenti. Precisamente, del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 267, comma 1, artt. 273,274,508161; L. n. 498 del 1992, art. 9, commi 1 e 2; L. n. 412 del 1991, art. 4, comma 7. Tali previsioni si riferiscono a specifiche categorie di dipendenti pubblici.

In particolare, per il personale sanitario (L. n. 412 del 1991, art. 4, comma 7), la norma afferma il principio della unicità del rapporto di lavoro con il SSN e l’incompatibilità con altri rapporti di lavoro dipendente ovvero con ulteriori rapporti anche convenzionali con il medesimo SSN.

La norma afferma, quindi, l’incompatibilità “con l’esercizio di altre attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso”. Si specifica inoltre che l’avvio dell’accertamento può avvenire “su iniziativa di chiunque vi abbia interesse”.

Solo per completezza argomentativa, si osserva che nell’ambito della previsione in esame è intervenuto il legislatore che ha inserito, con il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 52, attuativo della L. n. 15 del 2009, un comma 1-bis nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, il quale prevede che siano preclusi gli incarichi “di direzione di strutture deputate alla gestione del personale a soggetti che rivestano o abbiano rivestito negli ultimi due anni cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano avuto negli ultimi due anni rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza con le predette organizzazioni”. Chiaramente la previsione non individua una incompatibilità in senso stretto, ma prevede un esplicito divieto in merito all’individuazione di soggetti cui attribuire specifici incarichi direttivi.

La ratio della previsione è espressione della preoccupazione del Legislatore che soggetti che assumono un ruolo di rilievo, in quanto svolgono funzioni direttive, e in un ambito di particolare delicatezza per l’efficienza dell’amministrazione (quale è la gestione del personale) possano essere influenzati nella loro azione da condizionamenti derivanti dalle proprie relazioni personali che trovano radici nella vita personale extralavorativa. La scelta non solo è pienamente rispondente al bisogno di assicurare all’azione amministrativa i requisiti individuati dall’art. 97 Cost., ma è anche idonea ad avviare un ripensamento generale sul tema delle incompatibilità nel pubblico impiego. Infatti, nonostante la sua apparente limitatezza, la disposizione ha una grande vastità di applicazione e incide su un aspetto della vita personale dei dipendenti, quale la vita politica e/o sindacale, da sempre oggetto di una tutela (giustamente) estesissima e non necessariamente di natura economica.

Quanto finora osservato mette in luce come la disciplina delle incompatibilità presenti problemi di coordinamento nell’armonizzarsi con la riforma dell’Ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e con la qualificazione dei rapporti di lavoro in termini esclusivamente privatistici, sistema che potrebbe essere ricondotto ad unità riferendo la “specialità” non già allo status di dipendente pubblico, ma alla diversità dei fini perseguiti dal datore pubblico rispetto al datore privato. In altri termini, l’applicazione dell’istituto delle incompatibilità dovrebbe tenere conto della diversità degli scopi dei datori di lavoro per spiegare e conseguentemente giustificare le diversità normative, senza che questo implichi in alcun modo (almeno in termini sistematici) una alterazione del rapporto contrattuale tra datori e lavoratori; sulla scorta della specificità soggettiva del datore pubblico andrebbe valutata la riconducibilità della materia al settore della pubblica amministrazione in ragione della interferenza delle prestazioni rese con i compiti istituzionali.

Per siffatte ragioni ritiene il Collegio che il più recente orientamento meriti di essere rimeditato nella sua portata, trattandosi di tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina delle incompatibilità con la diversa natura dei rapporti di lavoro che possono essere, allo stato, instaurati con la pubblica amministrazione, facendo convivere detta disciplina con gli specifici fini perseguiti dal datore di lavoro pubblico.

Poichè la questione investe un tema di notevole impatto pratico, tenuto conto dell’evoluzione che ha avuto e continua ad avere nel settore dell’impiego pubblico privatizzato e non solo, il Collegio ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

P.Q.M.

La Corte, dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 6 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019

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