Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24073 del 26/09/2019

Cassazione civile sez. II, 26/09/2019, (ud. 18/01/2019, dep. 26/09/2019), n.24073

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6761/2015 proposto da:

N.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FAA’ DI

BRUNO EMILIO 4, presso lo studio dell’avvocato MARIA RAFFAELLA

TALOTTA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

CARMELA SALVO;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, V. DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso gli Uffici

dell’Avvocatura Capitolina, rappresentata e difesa dall’avvocato

DOMENICO ROSSI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5315/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 03/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/01/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

Fatto

RAGIONI IN FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE

Rilevato:

che in data 8 luglio 1982 il sig. N.C. – nell’ambito di una procedura di esproprio intrapresa nei suoi confronti dal Comune di Roma in relazione ad un terreno con sovrastante fabbricato ad uso abitativo sito in (OMISSIS) (già via (OMISSIS)) stipulava un atto di cessione volontaria di detto compendio immobiliare ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 12;

che, anche dopo la menzionata cessione, N.C. continuava ad abitare nel compendio immobiliare da lui ceduto;

che il Comune di Roma, dopo aver notificato all’espropriato un’intimazione al rilascio in data 3 aprile 1984, si asteneva da coltivare alcuna azione volta a liberare il cespite;

che con citazione notificata al Comune di Roma in data 19 gennaio 2007 N.V., figlio di C., conveniva il Comune davanti al tribunale di Roma per sentir dichiarare il suo acquisto per usucapione del suddetto cespite, deducendo di essere nato in tale immobile e di avervi sempre abitato dapprima con il padre e poi, dal novembre 1984 (epoca in cui N.C. si era trasferito in via (OMISSIS)), da solo, effettuandovi le necessarie opere di manutenzione e possedendolo uti dominus;

che, nel contraddittorio del Comune di Roma, il tribunale di Roma rigettava la domanda di usucapione dell’attore, accogliendo altresì la domanda riconvenzionale di rilascio proposta dal Comune, affermando che l’attore non poteva vantare alcun possesso utile all’usucapione in quanto, per effetto dell’espropriazione, la perdurante disponibilità dell’immobile da parte dell’espropriato andrebbe qualificata come detenzione e non come possesso;

che la corte di appello di Roma, decidendo sull’impugnazione proposta da N.V., si discostava dalla argomentazione del primo giudice (facendo proprio il diverso orientamento alla cui stregua il provvedimento ablativo non determina di per sè, in capo all’espropriato, il mutamento dell’animus rem sibi habendi in animus detinendi, ma, tuttavia, rigettava egualmente l’appello sulla scorta di una diversa motivazione;

che la motivazione della sentenza qui impugnata si fonda su una progressione che si sviluppa, in primo luogo, nel rilievo della mancata impugnazione dell’affermazione del primo giudice secondo cui l’espropriazione (più precisamente: la cessione volontaria nell’ambito della procedura espropriativa) aveva implicitamente trasformato in detenzione il possesso dell’originario proprietario N.C. e, in secondo luogo, nel rilievo che N.V. non “aveva assolto all’onere su di lui incombente di provare di aver esercitato sull’immobile un possesso valido ai fini dell’usucapione”, giacchè “nè nell’atto di citazione nè nell’atto di appello N.V. allega il compimento di atti costituenti espressione della volontà di godere del bene uti dominus, in via esclusiva, con esclusione di ogni altro soggetto” (pag. 5, ultimo capoverso, della sentenza), non essendo a tal fine sufficiente “abitare per oltre vent’anni nel medesimo immobile” (pag. 6, terzo capoverso, della sentenza);

che la sentenza di secondo grado è stata impugnata per cassazione da N.V. sulla scorta di due motivi;

che con il primo motivo, promiscuamente riferito ai vizi di violazione e falsa applicazione di legge (artt. 1141,1158 e 2697 c.c.) e omesso esame di fatto decisivo, si denuncia l’errore in cui la corte territoriale sarebbe incorsa trascurando che, ai sensi dell’art. 1141 c.c., “il possesso si presume in colui che esercita il potere di fatto quando non si prova che ha cominciato ad esercitarlo semplicemente come detenzione”;

che, in particolare, nel mezzo di ricorso in esame si lamenta che la corte territoriale abbia addossato all’attore l’onere di provare il proprio animus possidendi, nonostante che egli pacificamente abitasse fin dalla nascita nell’immobile de quo, lo possedesse uti dominus da oltre vent’anni e fosse terzo rispetto al rapporto tra suo padre C. e l’Amministrazione municipale e nonostante che il Comune di Roma non avesse offerto alcuna prova del fatto che esso attore avesse cominciato ad esercitare quale mero detentore il proprio potere di fatto sul detto immobile;

che con il secondo motivo di ricorso, riferito alla violazione dell’art. 132 c.p.c., si lamenta l’assoluta carenza di motivazione dell’impugnata sentenza in ordine alle attività che l’odierno ricorrente – che, si sottolinea nel motivo di impugnazione, abitava nell’immobile e, pertanto, doveva presumersi compisse tutta la necessaria attività manutentiva avrebbe dovuto dimostrare di aver svolto per provare il proprio possesso; che Roma Capitale ha presentato controricorso;

che la causa è stata chiamata all’adunanza di Camera di consiglio del 18.1.19, per la quale entrambe le parti hanno depositato una memoria illustrativa;

ritenuto:

che il primo motivo si fonda su un presupposto fattuale – ossia che l’odierno ricorrente avrebbe esercitato “il potere di fatto sul bene oggetto di contestazione a prescindere dall’immissione fondata su un titolo ad effetti reali o obbligatori” (pagina 8, primo capoverso, del ricorso) – che non risulta dalla sentenza gravata e contrasta con la circostanza (pacifica ed implicitamente posta dalla corte territoriale a fondamento della propria decisione) che l’attore era nato nell’immobile in questione e vi aveva vissuto con il proprio padre, N.C., fino a quando quest’ultimo si trasferì in via (OMISSIS);

che quindi la doglianza del ricorrente non attinge adeguatamente l’impianto argomentativo della sentenza impugnata, il quale si fonda sul presupposto che il potere di fatto esercitato da N.V. sull’immobile non nasca come possesso autonomo, bensì come detenzione dipendente dalla permissio domini implicita nel rapporto di filiazione di costui con il proprietario N.C.; con la conseguenza che – essendo passata in giudicato, per difetto di impugnazione, la statuizione del primo giudice secondo cui nel 1982 il possesso dell’immobile era passato da N.C. al Comune di Roma – la situazione detentiva di N.V., fino a quella data qualificabile come detenzione autorizzata dal proprietario, dopo tale data doveva qualificarsi come sub detenzione autorizzata dal detentore; sub detenzione la cui interversione in possesso doveva essere provata dall’attore mediante la dimostrazione di “atti costituenti espressione della volontà di godere del bene uti dominus, in via esclusiva, con esclusione di ogni altro soggetto” (pag. 5, ultimo rigo, della sentenza), vale a dire, in sostanza, atti di interversione della detenzione in possesso ossia, ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2, atti di opposizione al possessore (il padre, fino al 1982 o, il Comune di Roma, secondo il giudicato formatosi sulla sentenza di primo grado, dopo quella data);

che pertanto il primo motivo di ricorso va disatteso;

che anche il secondo motivo di ricorso va disatteso, non potendosi ritenere meramente apparente la motivazione della sentenza gravata, giacchè essa manifesta chiaramente la ratio decidendi, fondata sul difetto di prova, da parte dell’attore, di fatti idonei manifestare il mutamento in possesso della detenzione dell’immobile a lui concessa dal padre C. in ragione del rapporto familiare;

che pertanto il ricorso va rigettato;

che le spese seguono la soccombenza;

che deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere al contro ricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 4.000, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019

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