Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2406 del 27/01/2022

Cassazione civile sez. lav., 27/01/2022, (ud. 16/09/2021, dep. 27/01/2022), n.2406

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28869-2016 proposto da:

D.A., T.T., T.V., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA AGRI, 1, presso lo studio dell’avvocato

MASSIMO NAPPI, rappresentati e difesi dall’avvocato VITTORIO DEL

MONTE;

– ricorrenti –

contro

AMIAT – AZIENDA MULTISERVIZI IGIENE AMBIENTALE TORINO S.P.A., in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio

dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende unitamente

agli avvocati CHIARA LUNARDI, GIOVANNA PACCHIANA PARRAVICINI;

– controricorrente –

e contro

M.ECO. S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, B.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 216/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 08/06/2016 R.G.N. 487/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/09/2021 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ STEFANO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCA LOLLI per delega verbale Avvocato VITTORIO

DEL MONTE;

udito l’Avvocato LEONARDO VESCI per delega verbale Avvocato GERARDO

VESCI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.A., T.V. e T.T. convennero in giudizio la M. ECO S.R.L. e la AMIAT-AZIENDA MULTISERVIZI IGIENE AMBIENTALE s.p.a. esponendo di aver lavorato alle dipendenze della prima nell’ambito dell’appalto del servizio di pulizia trasporto e conferimento rifiuti di AMIAT s.p.a. nel periodo dal gennaio 2008 al gennaio 2011 aderendo al Fondo Pensione PREVIAMBIENTE e delegando la M.ECO s.r.l. al prelievo dalle buste paga ed al versamento delle somme dovute a titolo di contribuzione. Dedussero che la società aveva trattenuto le somme ma non le aveva poi versate al Fondo.

Chiesero quindi la condanna delle società, in solido tra loro, al pagamento degli importi per ciascuno specificati precisando di aver revocato in data 22 marzo 2011 la delega di versamento in favore del Fondo.

2. Il Tribunale accolse le domande e condannò le società in solido al pagamento delle somme trattenute in busta paga e non versate al Fondo e la M.ECO s.r.l. a manlevare la AMIAT s.p.a..

3. La Corte di appello di Torino, investita del gravame della AMIAT s.p.a. lo accolse e, in riforma della sentenza di primo grado, rigettò le domande dei tre lavoratori.

3.1. Il giudice di secondo grado – dopo aver premesso che, anche dopo gli interventi di riforma dei D.Lgs. n. 193 del 1994, e D.Lgs. n. 252 del 2005, i versamenti al Fondo complementare avevano natura previdenziale e non retributiva – osservò che il D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 8, comma 1, aveva attribuito al versamento dei contributi ed al conferimento del T.F.R. la funzione di finanziamento del sistema pensionistico integrativo e sottolineò che, ai sensi del D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 3, u.c., l’adesione alla previdenza complementare era libera e che quella per il conferimento del T.F.R. poteva essere anche tacita, ai sensi del citato D.Lgs., art. 8, comma 7, e poteva intervenire anche in un momento successivo.

3.2. Evidenziò che il lavoratore acquisiva il diritto alle prestazioni complementari all’atto del conseguimento dei requisiti per la pensione, a condizione di aver maturato almeno cinque anni di versamenti (ai sensi del citato D.Lgs., art. 9). Precisò che a norma del successivo art. 14, la posizione maturata sul fondo poteva essere trasferita ad un diverso fondo di previdenza complementare solo dopo due anni dall’inizio dei versamenti e ritenne perciò che il Fondo fosse l’unico destinatario del pagamento tanto che, in caso di insolvenza del datore di lavoro, ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 5, il lavoratore era legittimato a chiedere l’integrazione dei versamenti ma non anche la corresponsione degli importi. In sostanza, ad avviso del giudice di appello, per effetto dell’adesione al Fondo il lavoratore acquisirebbe il diritto alla futura prestazione nei confronti di questo mentre, nei confronti del datore di lavoro, avrebbe diritto al versamento dei contributi al Fondo stesso in vista della futura prestazione.

3.3. Escluse invece che, per effetto della revoca della delega di pagamento, i lavoratori avessero acquisito il diritto alla corresponsione delle somme trattenute osservando che l’art. 1270 c.c., era incompatibile con la disciplina speciale regolatrice della previdenza complementare. Pertanto, concluse affermando che, per effetto della revoca, questi non potevano ottenere il versamento diretto delle somme da destinare al Fondo, fermo restando, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il loro diritto al risarcimento del danno eventualmente subito.

3. Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso i tre lavoratori che hanno articolato due motivi ai quali ha resistito con controricorso la AMIAT s.p.a. mentre la M.ECO s.r.l. è rimasta intimata. Il procuratore generale ha depositato le sue conclusioni, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito con modificazioni in L. 18 dicembre 2020, n. 176, ed ha chiesto il rigetto del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., e dell’art. 101c.p.c., comma 2, e dell’art. 111 Cost., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

4.1. Deducono i ricorrenti che la Corte di appello sarebbe incorsa nel denunciato vizio di ultra-petizione per avere proceduto alla verifica della loro legittimazione ad agire sulla domanda di restituzione delle somme trattenute e non versate al fondo sebbene la natura retributiva delle trattenute e dei versamenti omessi, accertata dal Tribunale, non fosse mai stata posta in discussione dalla società appellante. Sottolineano che ciò che era stato devoluto era solo l’accertamento della titolarità del credito azionato e l’operatività della delega di pagamento per effetto della disposta revoca. Rammentano che la qualificazione della domanda appartiene al giudice di primo grado e che quello di appello ne è investito solo se la questione gli sia stata specificatamente devoluta, cosa che nella specie non sarebbe avvenuta.

5. Il motivo, ammissibile perché sufficientemente specifico, e’, tuttavia, infondato.

5.1. Rileva infatti il Collegio che, anche a voler ammettere che la società non avesse esplicitamente censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva rigettato l’eccezione di carenza di legittimazione attiva dei lavoratori a recuperare le somme trattenute e non versate al Fondo di previdenza dalla datrice di lavoro, in ogni caso tale questione costituiva il presupposto logico necessario della censura pacificamente formulata in appello relativa all’esistenza di una valida revoca dell’adesione al Fondo e della connessa delega di pagamento. L’esame della censura non poteva prescindere infatti dall’accertamento della legittimazione dei lavoratori ad agire in giudizio per la restituzione dei contributi, questione questa esplicitamente posta davanti al giudice di primo grado. In tale prospettiva è del tutto corretto, e non viola le norme denunciate, il ragionamento del giudice di appello che accerta la natura contributiva delle somme dovute al Fondo di previdenza, e non versate dalla M.ECO s.r.l., e, conseguentemente, esclude che i lavoratori potessero agire in giudizio per chiederne la restituzione al datore di lavoro e del suo coobbligato solidale.

6. Il secondo motivo – con il quale i ricorrenti deducono che, in violazione della L. 5 dicembre 2005, n. 252, artt. 3, 8, 9 e 14, del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, art. 5, della L. 23 agosto 2004, n. 243, art. 1, comma 2, lett. e), n. 8, e dell’art. 1270 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., la Corte avrebbe erroneamente ritenuto che alla fattispecie, relativa all’omesso versamento di somme trattenute dal datore di lavoro, trovi applicazione la medesima disciplina relativa ai contributi che siano stati effettivamente versati – è infondato.

6.1. Occorre premettere che anche nel vigore della disciplina riformata dei fondi di previdenza complementare va mantenuta ferma la qualificazione della natura contributiva dei versamenti effettuati dal datore di lavoro in proprio ed anche per conto dei lavoratori stessi.

6.2. Le sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. s.u. 09/03/2015 n. 4784), esaminando una fattispecie regolata dalla disciplina antecedente l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993, hanno chiarito che i versamenti del datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare – sia che il fondo abbia personalità giuridica autonoma, sia che consista in una gestione separata del datore stesso – hanno natura previdenziale e non retributiva (nella controversia si poneva il problema del loro computo o meno nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro) e per pervenire a tale qualificazione, in quella sede è stato chiarito che “la differenza tra previdenza obbligatoria (ex lege) e quella integrativa o complementare (ex contractu) è nel carattere generale, necessario e non eludibile delle tutele del primo tipo, a fronte della natura eventuale delle garanzie del secondo, che sono la fonte di prestazioni aggiuntive rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari (e in relazione alla quale non opera il principio dell’automatismo delle prestazioni). La natura privatistica della previdenza integrativa o complementare (finalizzata a garantire ai futuri pensionati un reddito ulteriore rispetto a quello garantito dalla previdenza obbligatoria) emerge dal meccanismo di adesione, che è libero e volontario, e dalle modalità di alimentazione del fondo, al quale contribuiscono i destinatari della prestazione ed il datore di lavoro.”

6.3. Si è precisato che nei “sistemi a capitalizzazione, (…) i contributi del lavoratore, accantonati e investiti, vengono successivamente utilizzati per pagare la rendita dello stesso lavoratore al momento del suo pensionamento. In questo caso l’ammontare del beneficio è condizionato dal rendimento degli investimenti” e si è dato atto del fatto che la disciplina introdotta con la c.d. riforma Amato (L. delega n. 421 del 1992, attuata con il D.Lgs. n. 124 del 1993) è ispirata proprio al sistema della capitalizzazione individuale che si caratterizza per l’accumulo dei versamenti in un conto individuale nominativo e per un regime a contribuzione definita, nel quale cioè la contribuzione determina la misura della futura prestazione. Si è osservato quindi che in base alla nuova disciplina non è più prevista la costituzione di un unico fondo alimentato dai contributi di tutti i lavoratori ma piuttosto l’accumulo dei versamenti in conti individuali nominativi. Conseguentemente la futura prestazione pensionistica risulta commisurata all’entità della contribuzione versata da ciascun lavoratore ed integrata dai frutti maturati per effetto degli investimenti del capitale operati dal fondo. 6.4. Anche prima della riforma della previdenza complementare del 1993, i versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza non potevano essere considerati di natura retribuiva in quanto gli stessi non il venivano corrisposti ai dipendenti e venivano erogati direttamente al fondo. A maggior conforto di tale conclusione, le sezioni unite rammentano che tali somme erano escluse dalla contribuzione ordinaria ed assoggettate solo ad un contributo di solidarietà nella misura del 10% in favore delle gestioni pensionistiche di legge alle quali erano iscritti i lavoratori, ex L. n. 166 del 1991 (cfr. anche le richiamate Cass. 05/06/2012 n. 9016 e 31/05/2012 n. 8695, 04/04/2013n. 8228). 6.5. In sostanza si è valorizzata la finalità cui sono preordinati i versamenti a favore dei fondi di previdenza integrativa: non all’immediato vantaggio del lavoratore, ma, in coerenza con la loro funzione, con un accantonamento (e quindi mai direttamente corrisposti) per garantire la funzione del trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero in caso di sopravvenuta invalidità, secondo le condizioni previste dal relativo statuto. Si è sottolineato che l’obbligo nasce da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, ed è finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria, che costituisce un ulteriore beneficio per il lavoratore ma non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporti di lavoro. In definitiva il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire “la contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto; ed infatti il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione del rapporto, essendo solo il destinatario di un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo (Cass. sez.u. ult. cit.). A decisiva conferma dell’inesistenza di un nesso di corrispettività si è ricordato poi che “in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa – il che può verificarsi quando non siano integrati tutti i presupposti per la maturazione del diritto – il dipendente non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro. Inoltre, l’obbligazione che il datore di lavoro assume con il sistema di previdenza integrativa nei confronti del fondo non è monetizzabile a favore del lavoratore come accade invece per alcuni benefit, come ad esempio il servizio mensa o il servizio trasporto che il datore di lavoro può scegliere di organizzare direttamente o garantire con il rimborso del relativo costo a mani del dipendente”

6.6. La stessa Corte costituzionale (con le sentenze n. 178 del 2000 e già n. 412 del 1995) ha affermato che il legislatore ha inserito la previdenza integrativa nel sistema dell’art. 38 Cost., per cui le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi non possono più definirsi “emolumenti retributivi con funzione previdenziale”, ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale.

6.7. Tanto premesso e venendo all’esame della disciplina applicabile al caso in esame va rilevato che con il D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, che ha attuato la L. delega 23 agosto 2004, n. 243, finalizzata a sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari (art. 1, comma 1, lett. c)), è stata ridisegnata la disciplina delle forme pensionistiche complementari e all’art. 3, sono individuati i soggetti che possono istituirle e vi possono partecipare mentre all’art. 8, sono state definite le relative forme di finanziamento e si è previsto, per il caso di lavoratori dipendenti, che si possa avvenire attraverso il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o del committente oltre che con il conferimento del Tfr.

6.8. In nessuna maniera la disciplina sopravvenuta della previdenza complementare ha inciso sulla natura dei versamenti effettuati sui singoli conti. La L. n. 243 del 2004, art. 1, comma 2, lett. e), n. 8, espressamente fa riferimento ad un “diritto alla contribuzione” di cui attribuisce la contitolarità ai fondi pensione attribuendo loro la legittimazione “dei fondi stessi, rafforzando le modalità di riscossione anche coattiva, a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi nonché l’eventuale danno derivante dal mancato conseguimento dei relativi rendimenti”. Il D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 8, come si è ricordato, ribadisce che il finanziamento dei fondi avviene a mezzo di versamento di contributi che non vanno ad immediato vantaggio del lavoratore, ma, sono finalizzati proprio a garantire la funzione del trattamento integrativo che nella logica della riforma deve essere sostenuto e favorito (citata L. n. 243 del 2004, art. 1, comma 1, lett. c). Peraltro, una volta che si sia aderito al fondo l’obbligazione contributiva di finanziamento è del lavoratore nei confronti del fondo stesso e lo strumento attraverso il quale essa viene adempiuta (una trattenuta sullo stipendio e successivo versamento a cura del datore di lavoro) non muta la natura dell’obbligazione che resta contributiva e dunque previdenziale.

6.9. Quanto alla dedotta errata applicazione dell’art. 1270 c.c., al caso in esame rileva il Collegio che le regole dettate dal codice civile in tema di delegazione di pagamento e di sua revoca risultano incompatibili con la disciplina speciale dettata dal D.Lgs. n. 252 del 2005 che all’art. 14, demanda agli Statuti ed ai regolamenti la definizione delle modalità (art. 14, comma 1) di trasferimento ad altre forme pensionistiche complementari, delle regole per la permanenza nella forma pensionistica complementare nonché di riscatto totale o parziale delle posizioni individuali i casi di riscatto parziale (art. 14, comma 1, lett. b), o totale (art. 14, comma 1, lett. c). A fronte di una già prestata adesione, che può essere anche tacita come per il tfr, non è consentita la revoca ma solo la cessazione per venir meno dei presupposti e il trasferimento ad altra previdenza complementare (v. D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 14). Resta evidentemente salvo il diritto al risarcimento del danno da azionare direttamente nei confronti del datore di lavoro che abbia trascurato di versare in tutto o in parte il contributo volontario del lavoratore qualora si riverberi sulla prestazione da godere ovvero, nel caso di insolvenza del datore di lavoro, persiste la possibilità di sollecitare l’intervento del Fondo di garanzia ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 5.

Neppure è ravvisabile la denunciata violazione della L. delega n. 243 del 2004, ed in particolare del suo art. 1, n. 8. La delega che non ha ricevuto nel testo del decreto legislativo una esplicita attuazione risulta comunque rispettata ove si consideri che il lavoratore ben può agire per ottenere coattivamente il versamento delle somme da parte del datore di lavoro che le abbia trattenute. Quello che invece non può fare, perché le finalità della disciplina legislativa sono quelle di assicurare una speciale tutela ai fondi complementari per garantirne il funzionamento, è proprio chiedere la restituzione degli importi trattenuti. La correttezza di tale ricostruzione trova conferma proprio nella circostanza che è accordata all’assicurato la facoltà di chiedere l’intervento del Fondo di garanzia in caso di insolvenza. Ne’ vi sono argomenti per limitare l’intervento del fondo ai soli contributi posti a carico diretto del datore di lavoro e non anche a quelli in relazione ai quali il datore di lavoro funge da intermediario del pagamento atteso che “contro il rischio dell’omesso o insufficiente versamento…. “al fondo è possibile chiedere l’integrazione dei versamenti stessi ma non anche la corresponsione dei relativi importi. L’insinuazione al passivo del lavoratore è meramente prudenziale ed opera per il caso di inerzia dell’Istituto.

Va sottolineato che a conferma della natura contributiva dei versamenti alla previdenza complementare è stato evidenziato che il credito originando da un rapporto contrattuale diverso da quello di lavoro subordinato e non essendo legato a quest’ultimo da nesso di corrispettività, ha natura esclusivamente previdenziale e non retributiva, non concorre a determinare la base di calcolo del trattamento di fine rapporto né, tantomeno, rientrano tra le forme di previdenza e assicurazione obbligatoria con la conseguenza che in sede di ammissione al passivo non risulta assistito da privilegio (cfr. Cass. 05/10/2015 n. 19792). Quanto alla riconducibilità dei contributi da versare al fondo complementare ad una nozione Europea di retribuzione (ex art. 141 TUE) va rilevato che la disposizione del trattato effettivamente si radica nel contesto della tutela antidiscriminatoria ed esula quindi dalle questioni in gioco. In ogni caso la nozione di retribuzione (il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo) non consente di farvi rientrare le somme trattenute sulla retribuzione e da versare al fondo in base ad una precisa e volontaria scelta del lavoratore.

7. La mancanza di un nesso di corrispettività diretta fra contribuzione e prestazione lavorativa, e quindi, in buona sostanza, la sostanziale autonomia tra rapporto di lavoro e previdenza complementare, trovano una conferma decisiva nel rilievo che, in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa – il che può verificarsi quando non siano integrati tutti i presupposti per la maturazione del diritto – il dipendente non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro e l’obbligazione che il datore di lavoro assume con il sistema di previdenza integrativa nei confronti del fondo non è monetizzabile a favore del lavoratore come accade invece per alcuni benefit, come ad esempio il servizio mensa o il servizio trasporto che il datore di lavoro può scegliere di organizzare direttamente o garantire con il rimborso del relativo costo a mani del dipendente.

8. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. L’oggettiva complessità della questione trattata ed i profili di novità giustificano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto

della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2022

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