Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2405 del 29/01/2019

Cassazione civile sez. trib., 29/01/2019, (ud. 17/10/2018, dep. 29/01/2019), n.2405

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6173-2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

STYLE CAR SRL;

– intimato –

avverso la sentenza n. 6/2011 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 18/01/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/10/2018 dal Consigliere Dott. BERNAZZANI PAOLO.

Fatto

RILEVATO

che:

Con avviso di accertamento emesso sulla base di p.v.c. dell’Agenzia delle Dogane di Bolzano e della G.d.F. di Gorgonzola, l’Agenzia delle entrate, Ufficio di Brescia, recuperava a tassazione, nei confronti della Style Car srl., a fini IRPEG, IRAP ed IVA per l’anno 2004, le detrazioni ed i costi relativi ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, connesse all’acquisto di autovetture di provenienza comunitaria da società nazionali considerate fittiziamente interposte, nell’ambito di un meccanismo di c.d. “frode carosello”.

Il ricorso proposto dalla contribuente avverso tale atto impositivo, previa riunione, era accolto dalla adita C.T.P. di Brescia. La C.T.R. della Lombardia, con sentenza n. 6/42/11, del 12-18.1.2011, ha rigettato l’appello dell’Agenzia, confermando l’illegittimità dell’accertamento con riferimento ad entrambi i rilievi.

Ricorre l’Agenzia delle Entrate sulla base di cinque motivi. La contribuente è rimasta intimata.

Diritto

RITENUTO

che:

1. Con il primo ed il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente attesa la loro stretta connessione, l’Ufficio ricorrente deduce violazione del combinato disposto del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 17, 18 e 19 e art. 21,comma 7, e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sotto il profilo: a) della ripartizione dell’onere della prova (primo motivo); b) dell’oggetto dell’onere probatorio (secondo motivo), ritenendo che l’onere della prova della malafede della società spettasse all’Ufficio, nel senso che questo avrebbe dovuto dimostrare il consapevole coinvolgimento della contribuente nella frode, inteso come dolosa partecipazione alle condotte poste in essere dai soggetti interposti (la Alpi Car di C.F. e la FC Automobili di Co.Fr.), quindi implicitamente ritenendo che l’ignoranza, anche se colposa, potesse scusare il contribuente e consentirgli di detrarre l’IVA e dedurre i costi portati dalle fatture in contestazione.

I predetti motivi vanno esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, ed appaiono fondati per quanto di ragione.

2. Secondo i principi già più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, cui si intende dare continuità, particolarmente in tema di frode carosello, caratterizzata da una pluralità di scambi e passaggi fittizi imperniati sul ruolo delle cd. cartiere, mere “scatole vuote” il cui scopo è quello di emettere false fatture senza essere preposte ad alcuna reale attività economica, ai fini della ripartizione dell’onere della prova, “l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”. (Cass. Sez. 5, n. 9851 del 20/04/2018, Rv. 647837 – 01)

3. In particolare, come puntualizzato dalla citata sentenza n. 9851/18, la prova che deve essere fornita dall’Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti si incentra su due circostanze: a) l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni, nel senso che il soggetto formale non è quello reale; b) il fatto che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in un meccanismo rivolto all’evasione di imposta: in tal senso, non è necessaria la prova della cosciente e volontaria partecipazione all’evasione ma è sufficiente dimostrare che il contribuente avrebbe potuto e dovuto esserne consapevole.

Sotto il secondo dei profili evidenziati, che è quello che qui viene in rilievo, occorre precisare che il descritto criterio è rispettoso del consolidato orientamento della Corte di Giustizia, secondo cui il soggetto passivo non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se “non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione de/l’Iva” (Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahagèben e David, C-80/11 e C-142/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14).

Dunque, l’Amministrazione tributaria è tenuta a provare che il contribuente, nel momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, utilizzando l’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode; in altri termini, che il contribuente disponeva di elementi, anche indiziari, idonei “a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente” (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C-277/14, par. 50).

4. Ciò premesso, non può revocarsi in dubbio che l’Amministrazione possa fornire tale prova anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 39, comma 1, lett. d): cfr. Cass. 21953/07; Cass. n. 9108/12; n. 15741/12, in motivazione; n. 23560/12; n. 27718/13; Cass. n. 20059 del 24/09/2014; Cass. n. 25778 del 05/12/2014Cass. n. 14237 del 07/06/2017 nello stesso senso Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C-439/04e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahageben e David, C-80/11 e C-142/11).

Resta fermo, in tale dimensione ermeneutica, che la prova dell’elemento soggettivo del cessionario/committente deve essere condotta non sulla base di criteri aprioristici tali da determinare automatismi probatori, ma tenendo conto della concreta vicenda e delle circostanze oggettive di volta in volta emergenti che “il destinatario della fattura sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’Iva”.(Corte di Giustizia, 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14 Corte di Giustizia 15 novembre 2017, Rochus e Finanzamt, C-374/16 e C-375/16;)

Sulla scorta della pronuncia C-277/14, questa Corte ha affermato che, da un lato, “l’onere probatorio dell’amministrazione finisce con l’appesantirsi, in quanto, di norma, non è possibile esigere che il cessionario/committente, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA, o che disponga dei relativi documenti” (Cass. n. 24490 del 02/12/2015; Cass. n. 17290 del 13 luglio 2017); dall’altro ha rimarcato che, tuttavia, continua a prospettarsi un obbligo di verifica in capo al cessionario/committente a fronte di indizi, quali, ad esempio, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale, che gli consentano di sospettare l’esistenza appunto di irregolarità o di evasione (tra varie, Cass. n. 967/2016 cit.; n. 20059/2014; n. 15044/2014), secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione.

In via meramente esemplificativa, la giurisprudenza di questa Corte ha individuato, quali elementi sintomatici, la circostanza che la prestazione non sia stata effettivamente resa dal fatturante, perchè sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione (cfr. Cass. n. 5912/2010, Corte giustizia 13/02/2014, causa C-18/13); l’immediatezza dei rapporti cedente/prestatore, fatturante interposto e cessionario/committente), a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e ad una non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione (cfr. Cass. n. 6229/2013; n. 24426/2013; n. 25778/2014 Cass. n. 10120 del 21/04/2017, Cass. n. 3474 del 13/02/2018); l’acquisto dei beni ad un prezzo inferiore di mercato; la limitatezza dell’eventuale ricarico.

Raggiunta tale prova, è, quindi, onere del contribuente dimostrare – oltre all’effettività del suo interlocutore – “di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto”, (in tal senso, possono mutuarsi i principi affermati da Sez. U, n. 21105 del 2017).

5. Nella specie, la CTR non si è attenuta ai principi sopra esposti, poichè ha ritenuto rilevante verificare, con dimostrazione a carico dell’Agenzia, “se la ricorrente ed in particolare il legale rappresentante della stessa fosse o meno complice, o addirittura l’organizzatore della frode”, ribadendo che oggetto di prova da parte dell’Ufficio doveva essere “la dimostrazione della complicità tra il fornitore nazionale (fornitore interposto) e la ricorrente”.

In altri termini, la CTR ha erroneamente ritenuto che la pretesa impositiva debba fondarsi sulla prova, da parte dell’Ufficio, della dolosa (cioè cosciente e volontaria) partecipazione del contribuente alla frode, in termini di “complicità”, e non, invece, sulla prova che il contribuente, anche in relazione alla qualità professionale ricoperta e alle concrete modalità di scelta e realizzazione dell’operazione commerciale, avrebbe dovuto sapere con l’uso dell’ordinaria diligenza che l’operazione si inseriva in un meccanismo di evasione dell’imposta, con prova contraria della buona fede a carico del contribuente.

Conseguentemente, ha errato la CTR nel ritenere che, per riconoscere il diritto alla detrazione dell’Iva ed alla deduzione dei costi rappresentati dalle fatture in contestazione bastasse l’assenza di prova della predetta consapevolezza (e volontà) e non invece la dimostrazione del carattere incolpevole dell’ignoranza della falsità delle fatture, in tal modo non applicando il corretto criterio valutativo agli elementi indiziari evidenziati dall’Ufficio.

Si impone, pertanto, l’accoglimento dei motivi di ricorso in esame.

6. Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 654 c.p.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dovendo ritenersi, secondo il ricorrente, che la CTR, nel fare riferimento all’emissione di decreto di archiviazione in sede penale nei confronti del legale rappresentante della società contribuente, abbia inteso implicitamente ed inammissibilmente riconoscere a tale provvedimento efficacia vincolante.

Il motivo è assorbito per effetto dell’accoglimento dei primi due motivi: invero – fermo restando, in termini generali, che il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale non possiede alcuna efficacia vincolante assimilabile al giudicato, ai sensi dell’art. 654 c.p.p. – l’accertata fondatezza dei predetti motivi, attenendo alla violazione delle norme in tema di ripartizione dell’onere della prova e di contenuto della stessa, assorbe le questioni concernenti la concreta valutazione dei singoli elementi probatori.

7. Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. A tale fine, l’Agenzia deduce che la CTR non si è pronunciata sullo specifico motivo di appello (riprodotto nel ricorso di legittimità in ossequio al principio di autosufficienza) con cui la ricorrente aveva censurato il silenzio della CTP sulla dedotta questione della indeducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi e delle spese ricollegate alle fatture in contestazione, in quanto riconducibili ad atti o fatti qualificabili come reato, L. n. 537 del 1993, ex art. 14, comma 4 bis.

Il motivo è fondato, avendo la CTR omesso di pronunziarsi sullo specifico motivo di impugnazione dedotto dall’Ufficio. Si impone, pertanto, l’annullamento dell’impugnata sentenza e la CTR dovrà, quindi, pronunciarsi sulla questione tenendo altresì conto dello ius superveniens costituito dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, conv. in L. 26 aprile 2012, n. 44, che ha modificato la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis.

Sul punto, fermo restando che, in base alla novellata disposizione, non sono deducibili i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, questa Corte ha rilevato che “In tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis (nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. in L. n. 44 del 2012), che opera, in ragione del comma 3 della stessa disposizione, quale jus superveniens con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una ” frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che detti costi siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità ovvero relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo.(Nella specie la S.C., in applicazione del principio, ha annullato la decisione impugnata che aveva ritenuto “certo” il costo per la mera rappresentazione dello stesso in fattura, senza alcuna valutazione sulla inerenza dello stesso all’attività di impresa)” (Cass. Sez. 6 – 5, n. 17788 del 06/07/2018, Rv. 649801 – 01; conf. Sez. 5, n. 26461 del 17/12/2014, Rv. 633708 – 01). (C. Cost. 190/12 e 248/12; conf. Cass. 5342/13, 8011/2013 e 27797/13).

8. Con il quinto motivo di ricorso, l’Agenzia deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riferimento all’omessa pronuncia sullo specifico motivo di gravame relativo all’annullamento della ripresa a tassazione di ricavi non dichiarati, determinati applicando la percentuale del 5% ai costi risultanti dal bilancio, a fronte dei quali il ricarico della società era risultato, invece, pari allo 0,0%.

Il motivo è fondato, non essendosi la CTR pronunciata sullo specifico motivo di appello – debitamente riprodotto dall’Ufficio in ossequio al principio di autosufficienza – con il quale l’odierno ricorrente aveva censurato la decisione di prime cure per avere, a sua volta immotivatamente, annullato l’avviso di accertamento anche sotto tale profilo.

9. In conclusione, devono essere accolti il primo ed il secondo motivo, in essi assorbito il terzo; parimenti, devono essere accolti il quarto ed il quinto motivo. La sentenza impugnata deve essere, pertanto cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla CTR di Milano, in diversa composizione, cui si demanda di provvedere anche in ordine alle spese.

PQM

La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo, in essi assorbito il terzo, nonchè il quarto ed il quinto motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia – sezione distaccata di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2019

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