Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24043 del 26/09/2019

Cassazione civile sez. I, 26/09/2019, (ud. 04/04/2019, dep. 26/09/2019), n.24043

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 830/2017 proposto da:

Firs Italiana di Assicurazioni S.p.a. in Liquidazione, in persona del

Commissario liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in

Roma, Via Giovanni Nicotera n. 31, presso lo studio dell’avvocato

Astone Francesco, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato Pinnarò Maurizio, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

Ubi Banca S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via di Val Gardena n. 3, presso

lo studio dell’avvocato De Angelis Lucio, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati Staunovo Polacco Edoardo, Tarzia

Giorgio, giusta procura speciale per Notaio B.R. di Bergamo –

Rep.n. 30.535 del 19.1.2017;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Firs Italiana di Assicurazioni S.p.a. in Liquidazione, in persona del

Commissario liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in

Roma, Via Giovanni Nicotera n. 31, presso lo studio dell’avvocato

Astone Francesco, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato Pinnarò Maurizio, giusta procura a margine del

controricorso al ricorso incidentale condizionato;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 4683/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/04/2019 dal cons. TRICOMI LAURA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale CARDINO

ALBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso principale,

assorbimento del ricorso incidentale;

uditi, per la ricorrente, gli Avvocati Astone e Pinnarò che hanno

chiesto l’accoglimento;

udito, per la controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato

Staunovo che ha chiesto il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Firs Italiana di Assicurazioni SPA in liquidazione coatta amministrativa ricorre con tre motivi corredati da memoria nei confronti di Ubi Banca SCPA (quale incorporante di Centrobanca Banca Centrale di Credito Popolare SPA), che replica con controricorso e ricorso incidentale condizionato con tre motivi, assistito da memoria, chiedendo la cassazione della sentenza della Corte di appello di Milano epigrafata in controversia a contenuto risarcitorio.

Segnatamente la Firs, sottoposta in data 28/7/1992 a gestione commissariale e, quindi, in data 23/5/1994 a liquidazione coatta amministrativa, aveva agito dinanzi al Tribunale di Milano prospettando che la gravità del dissesto riscontrabile era da ricondursi al fatto che il Consiglio di Amministrazione, in concorso con altri soggetti, tra cui i dipendenti della banca convenuta in giudizio, aveva posto in essere una strategia intesa a far continuare l’attività aziendale anche quando l’insussistenza dei presupposti necessari all’esercizio dell’attività assicurativa era divenuta evidente, il capitale sociale integralmente perso e le perdite di gestione insopportabili. All’uopo aveva denunciato che il C. di A. aveva potuto operare in tal modo anche grazie alla condotta della convenuta Centrobanca che, nelle persone di alcuni suoi dipendenti, aveva dichiarato reiteratamente e contrariamente al vero, nel corso degli esercizi chiusi al 31/12/1990 e 31/12/1991, che una serie di attività di rilevante importo, vincolate a riserve tecniche, erano libere da pegno o vincoli di altra natura; questa condotta – nella prospettazione attorea – aveva consentito alla società di occultare all’Autorità di vigilanza la mancata ricostruzione delle riserve tecniche e di proseguire l’attività facendo risultare nel bilancio di esercizio i titoli come esenti da vincoli ed inseriti nell’ammontare delle riserve tecniche.

Segnatamente le condotte denunciate riguardavano l'”Operazione (OMISSIS)” e l'”Operazione (OMISSIS)”: in particolare la ricorrente aveva esposto che, mediante le dichiarazioni false per omissione, per i titoli legati all’operazione (OMISSIS) non era stato attestato il mandato a vendere in favore di Centrobanca e per i titoli legati all’operazione (OMISSIS) non era stato attestato che i titoli erano stati costituiti in pegno a garanzia dell’operazione stessa.

La domanda risarcitoria – sulla scorta delle stesse esplicitazioni di parte attrice contenute negli atti del giudizio – come si evince testualmente dalla sentenza impugnata, veniva qualificata dai giudici di merito “domanda di danni derivante da aggravamento dell’insolvenza (deepening insolvency)”, da cui esulava la questione del danno derivante dai singoli episodi distrattivi che erano stati oggetto del procedimento penale avanti al Tribunale di Roma (v. fol. 2 della sent. imp.) e veniva respinta sia in primo che in secondo grado.

Il Tribunale, riconosciuta la illiceità delle condotte dei funzionari della banca, accertata in sede penale, aveva rimarcato il mancato assolvimento degli oneri probatori da parte di Firs affermando (come si evince dal testo integralmente trascritto nel corpo della sentenza impugnata) che non risultavano offerti “convincenti elementi di prova circa il danno che da tali condotte sarebbero derivate per la massa dei creditori Firs, consistenti (…) secondo la prospettazione di Firs, dal conseguente aggravamento dell’insolvenza. Al riguardo si deve osservare che la disposta CTU ha evidenziato una serie di carenze probatorie che, valutate unitamente alle problematiche sul nesso causale di cui si dirà infra, comportano il rigetto della domanda attorea” (fol.3 e ss. della sent. imp.), sottolineando sul punto la mancata produzione da parte di Firs del bilancio e della situazione contabile al 31/12/1989, la mancata produzione di situazioni contabili di periodo per gli anni 1990-1991, necessarie per accertare la perdita del patrimonio netto prodottasi nel periodo per gli anni dall’aprile 1990 al novembre 1991, e cioè proprio nel lasso temporale di prosecuzione dell’attività rilevante al fine della determinazione del danno lamentato dalla stessa Firs; la produzione dei bilanci al 31/12/1990 ed al 31/12/1991 privi di certificazione.

Il Tribunale aveva, quindi, escluso che il danno potesse essere determinato nell’intero deficit fallimentare, sulla falsariga di quanto ritenuto nel diverso caso della impossibilità di ricostruire le operazioni societarie specificatamente ricollegabili al comportamento inadempiente dell’amministratore che avesse omesso di tenere le scritture contabili (bancarotta documentale).

Secondo il Tribunale, inoltre, “La circostanza che i dipendenti di Centrobanca abbiano concorso nelle anomale operazioni di cui sopra si è detto ((OMISSIS) e (OMISSIS)) rilasciando, per quanto qui interessa, le false dichiarazioni sopra evidenziate, non li rende responsabili (e per essi Centrobanca) dei profili di inattendibilità dei bilanci non collegate con dette operazioni, che rimangono di competenza degli organi sociali e la cui attendibilità appare fondamentale per ricostruire la voce di danno di cui si discute” (fol. 4 della sent. imp.)

Inoltre aveva ritenuto che non fossero stati offerti idonei e convincenti riscontri probatori in merito alla ricorrenza del nesso causale tra le condotte contestate e l’evento lamentato: in particolare aveva accertato – posto che nella prospettazione attorea le false attestazioni avrebbero rassicurato l’ISVAP ed impedito il suo anticipato intervento – che non era stata provata la collocazione temporale dell’impiego delle attestazioni presso l’organo di controllo in epoca significativamente antecedente al novembre 1991, epoca in cui con lettera del 10/11/1991 l’ISVAP aveva contestato a Firs che le attestazioni non rispondevano all’effettivo status dei titoli, presentando una situazione patrimoniale notevolmente difforme dal reale.

La Corte di appello di Milano ha confermato la prima decisione. In particolare, ha rigettato il primo motivo di appello, con cui il commissario liquidatore della LCA aveva sostenuto che la prova dell’esistenza del danno e del quantum era stata raggiunta attraverso la CTU e che, comunque, il danno poteva essere quantificato in via equitativa. Il rigetto si fonda su un duplice ordine di considerazioni: la ravvisata inapplicabilità del criterio equitativo di liquidazione del danno ex art. 1226 c.c. sulla considerazione che il danno lamentato non era di difficile o impossibile quantificazione; la omessa individuazione da parte della Firs di perdite certe e certamente riferibili al periodo di cui si discute, che non risultavano desumibili dagli esiti della CTU; è stato infine ritenuto assorbito il secondo motivo di appello concernente la ravvisata non ricorrenza della prova del nesso causale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione del giudicato esterno (violazione dell’efficacia riflessa del giudicato) – violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 e 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4). La ricorrente si duole che la Corte di appello, così come il primo giudice, abbia ritenuto che la LCA non avesse provato l’an del danno, escludendo così la possibilità di una liquidazione di tipo equitativo e sostiene che tale capo della pronuncia è viziato perchè non ha tenuto conto dell’efficacia riflessa del giudicato civile formatosi in sede penale nei confronti dei dipendenti di Centrobanca per i reati di bancarotta fraudolenta per distrazione, proprio a motivo delle false dichiarazioni emesse dagli stessi.

In proposito rammenta che il Tribunale penale non solo aveva affermato la responsabilità degli imputati in concorso nelle condotte distrattive, ma li aveva condannati in solido al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede in favore di Firs, costituitasi parte civile; rimarca che la condanna al risarcimento del danno era stata confermata dalla Corte di appello penale di Roma che, nell’assolvere gli imputati per intervenuta prescrizione, aveva espressamente confermato “le statuizioni civili dell’appellata sentenza” e che questa decisione, non impugnata dai funzionari di Centrobanca, era stata confermata con sentenza della Corte di cassazione penale n. 33197/2012, di guisa che l’incontrovertibile accertamento del reato e la sua commissione da parte degli imputati condannati al risarcimento aveva dato luogo a tutti gli effetti ad un giudicato (fol. 19 del ricorso).

Quindi precisa di avere agito nei confronti di Centrobanca facendo valere espressamente la specifica responsabilità ex art. 2049 c.c., oltre che ex art. 2043 c.c.; infine sostiene che il giudicato formatosi nei confronti dei dipendenti abbia avuto efficacia riflessa in ragione del nesso di pregiudizialità-dipendenza giuridica nei confronti di Centrobanca, originariamente convenuta nel instaurato a fini risarcitori.

1.2. Il primo motivo è infondato e va respinto.

1.3. Per un corretto inquadramento della questione occorre premettere che il giudicato, invocato in via riflessa, concerne gli effetti della sentenza penale della Corte di appello di Roma n. 1007/2010 che ha parzialmente riformato la sentenza penale di condanna emessa dal Tribunale di Roma in data 5/10/2006, mediante la dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione – conseguente al riconoscimento delle circostanze attenuanti – e la conferma delle statuizioni civili della sentenza appellata ed è divenuta definitiva, perchè non impugnata da alcuni degli imputati e, comunque, perchè confermata dalla Corte di cassazione penale con sentenza n. 33197/2012 (come si evince dal ricorso, fol. 19).

E’ utile sottolineare che, sotto il profilo soggettivo – considerato che la sentenza penale di appello ha valutato la posizione di diciotto imputati e molteplici imputazioni loro ascritte a vario titolo nell’ambito di plurime condotte causalmente funzionali al reato di bancarotta fraudolenta – la questione oggetto del presente giudizio è stata circoscritta dalla ricorrente al giudicato formatosi sulle posizioni processuali dei dipendenti di Centrobanca, E.A., C.D., R.A., B.U. e O.L., le cui imputazioni per il reato di cui all’art. 110 c.p. e artt. 216 e 223 L. Fall. di bancarotta fraudolenta in concorso concernevano le due operazioni “(OMISSIS)” e “(OMISSIS)”.

1.4. Ne consegue che l’esame della doglianza, tutta centrata sul profilo dell’efficacia del giudicato civile formatosi in sede penale nel susseguente giudizio civile, afferisce anche al tema della efficacia del giudicato penale nel giudizio civile, che ne costituisce la premessa logica e giuridica: entrambi sono stati approfonditi e chiariti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 1768/2011, sulla quale occorre soffermarsi.

1.5. Invero le Sezioni Unite, premessa una ampia ricostruzione dell’evoluzione normativa, hanno ritenuto che, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, sono stati definitivamente espunti dall’ordinamento i principi di unitarietà delle giurisdizioni civile e penale e della conseguente prevalenza del giudizio penale sul giudizio civile, vigendo, piuttosto il principio della parità ed originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi, ad eccezione di determinati tipi formali di pronuncia per ipotesi tassativamente prescritte – nessuna delle quali, peraltro, ricorre nel presente giudizio – ed hanno affermato che “La disposizione di cui all’art. 652 c.p.p. (così come quelle degli artt. 651, 653 e 654 codice di rito penale) costituisce un’eccezione al principio dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile, in quanto tale soggetta ad un’interpretazione restrittiva e non applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che la sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima) pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre alle sentenze di non doversi procedere perchè il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non va riconosciuta alcuna efficacia extrapenale, benchè, per giungere a tale conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto (nella specie, il giudice penale, accertati i fatti materiali posti a base delle imputazioni e concesse le attenuanti generiche, per effetto dell’applicazione di queste ha dichiarato estinto il reato per prescrizione); b) che, in quest’ultimo caso, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione (nella specie, il giudice civile, ha proceduto ad un riparto delle responsabilità diverso da quello stabilito dal giudice penale)” (così dal testo della sentenza, (Cass. Sez. Un. 1768 del 26/1/2011; in senso conforme Cass. n..21299 del 9/10/2014, Cass. 17316 del 3/7/2018, Cass. n. 26905 del 24/10/2018).

1.6. Nel definire, nei termini dianzi riportati, il quadro dei rapporti tra giudizio penale e giudizio civile in merito all’accertamento ed alla valutazione dei fatti contestati con le imputazioni, l’attenzione delle Sezioni Unite si è focalizzata anche sulla distinta, ma connessa, questione degli effetti nel giudizio civile della condanna generica al risarcimento del danno contenuta nella sentenza penale di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, che interessa nel presente giudizio. Sul punto le ricordate Sezioni Unite, richiamando pregressi precedenti, hanno efficacemente chiarito che “la condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell’esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito (tra le varie, cfr. Cass. n. 329/01, n. 7695/08)” (Cass. Sez. U. n. 1768 del 26/1/2011).

Ed invero “La sentenza del giudice penale che, nel dichiarare estinto per amnistia il reato, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all’affermata responsabilità dell’imputato che, pur prosciolto dal reato, non può più contestare in sede civile i presupposti per l’affermazione della sua responsabilità, quali, in particolare, l’accertamento della sussistenza del fatto reato e l’insussistenza di esimenti ad esso riferibili, nonchè la “declaratoria iuris” di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni, ma può contestare soltanto l’esistenza e l’entità in concreto di un pregiudizio risarcibile” (Cass. n. 2083 del 29/01/2013).

1.7. In tema si registra la recente decisione di legittimità che, in linea con i principi enunciati, ha ulteriormente puntualizzato i confini entro cui è circoscritta la vincolatività della condanna risarcitoria generica pronunciata in sede penale, affermando – in fattispecie analoga a quella in esame – che “La sentenza del giudice penale che, accertando l’esistenza del reato e la sua estinzione per intervenuta prescrizione, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine alla “declaratoria iuris” di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni, ferma restando la necessità dell’accertamento, in sede civile, della esistenza e della entità delle conseguenze pregiudizievoli derivate dal fatto individuato come “potenzialmente” dannoso e del nesso di derivazione causale tra questo e i pregiudizi lamentati dai danneggiati” (Cass. n. 5660 del 09/03/2018).

1.8. Ne consegue che, fermo l’accertamento del fatto reato, l’effetto vincolante della condanna risarcitoria generica pronunciata in sede penale non interferisce con il doveroso accertamento in sede civile dell’esistenza in concreto del danno e della entità delle conseguenze pregiudizievoli.

Ciò non confligge, ed anzi conferma, il precedente richiamato dalla ricorrente (fol. 19 del ricorso), che recita “Qualora, in sede penale, sia stata pronunciata in primo o in secondo grado la condanna, anche generica, alle restituzioni e al risarcimento dei danni cagionati dal reato a favore della parte civile, ed il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidano sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, una tale decisione, se la predetta condanna resta confermata, comportando necessariamente, quale suo indispensabile presupposto, l’affermazione della sussistenza del reato e della sua commissione da parte dell’imputato, dà luogo a giudicato civile, come tale vincolante in ogni altro giudizio tra le stesse parti, in cui si verta sulle conseguenze, anche diverse dalle restituzioni o dal risarcimento, derivanti dal fatto, la cui illiceità, ormai definitivamente stabilita, non può più essere messa in discussione” (Cass. n. 14921 del 21/06/2010), con la doverosa puntualizzazione che questo principio, in ragione della vicenda in concreto trattata nel giudizio, è focalizzato esclusivamente sul profilo della rilevanza dell’accertamento del fatto reato, che affronta – per l’appunto – in termini identici ai precedenti prima ricordati.

1.9. Alla luce degli enunciati principi la decisione impugnata risulta immune da vizi.

La Corte di appello infatti, e così il Tribunale prima, ha fatto corretta applicazione di detti principi sia laddove ha ritenuto indubitabilmente accertata la condotta illecita dei dipendenti di Centrobanca in relazione alle imputazioni alla stregua della pronuncia del giudice penale, e cioè il fatto reato, sia laddove ha proceduto al doveroso accertamento, in sede civile, della esistenza e della entità delle conseguenze pregiudizievoli derivate dal fatto individuato come “potenzialmente” dannoso e del nesso di derivazione causale tra questo e i pregiudizi lamentati dai danneggiati.

1.10. A tal proposito assume ulteriore e decisivo rilievo la puntuale determinazione del thema decidendum della controversia, compiuta dal Tribunale e confermata dalla Corte di appello – con statuizione non impugnata – che individua la voce di danno per la quale la ricorrente ha agito in giudizio.

Avendo già ricordato che nel caso specifico la sentenza di secondo grado contiene la integrale trascrizione della sentenza di primo grado – che recepisce e conferma in toto, esplicitando le ulteriori ragioni di rigetto dei motivi di appello -, va osservato che i giudici del merito hanno così statuito circa il petitum “Si deve premettere che la presente azione è, come parte attrice ha avuto modo di sintetizzare nella memoria ex art. 183, comma 1, una domanda di danni derivante da aggravamento dell’insolvenza (deepening insolvency)”: esula da questo giudizio la questione del danno derivante dai singoli episodi distrattivi che sono stati oggetto del procedimento penale avanti al Tribunale di Roma, come del resto ha avuto modo di esplicitare parte attrice sub paragrafo 5 della memoria 7.11.2008 e a pag.9 e 10 della memoria 183, comma 3 di parte attrice in data 29.12.2008″ (v. fol. 2 della sent. imp.).

Orbene da ciò si evince con chiarezza che la Corte di appello ha ravvisato una più ampia portata della domanda risarcitoria proposta in sede civile, relativa all’aggravamento dell’insolvenza, rispetto ai singoli episodi distrattivi accertati in sede penale per i dipendenti della banca ed ivi circoscritti alle condotte inerenti alle operazioni (OMISSIS) e (OMISSIS), ed ha collocato proprio in capo all’attrice tale scelta, attenendosi alla qualificazione dell’azione proposta da questa.

1.11. Alla stregua di tale statuizione, la questione della violazione degli effetti del giudicato riflesso risulta anche inammissibile perchè non coglie la ratio decidendi: la ricorrente insiste nell’invocare gli effetti di una condanna risarcitoria generica e propugna una liquidazione equitativa del danno nella misura delle differenza tra attivo e passivo – e cioè per l’intero ammontare delle plurime ed anche autonome condotte illecite accertate (non solo a carico dei dipendenti di Centrobanca, ma) anche a carico degli amministratori e di altri soggetti per condotte nelle quali i dipendenti di Centrobanca non avevano concorso, nonchè per periodi temporali non necessariamente coincidenti – e ciò senza confrontarsi affatto con il tema della differenza tra la voce di danno posta a fondamento della domanda risarcitoria avanzata in sede civile, rispetto ai fatti accertati in sede penale su cui si incentra la decisione della Corte di appello e, quindi, della necessità di una prova specifica idonea a collegare in maniera diretta le condotte accertate al danno lamentato.

Invero, pur essendo indiscusso l’intervenuto dissesto, al quale era conseguita la collocazione della società LCA, la Corte di appello ha ritenuto che fosse necessario per la LCA provare la perdita effettivamente subita in conseguenza delle condotte illecite di cui si discuteva e nel periodo temporale specifico (1990/1991) (fol. 10 della sent. imp.), ed ha ritenuto che la prova non fosse stata raggiunta, atteso che la carenza documentale non aveva consentito al CTU “di indicare anche una sola perdita (costituente, come già detto, un fondamentale aspetto del fatto costituivo della domanda) che fosse certa in relazione e nell’ambito della proseguita attività nel periodo del quale si discute” (fol. 12), con apprezzamento non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua e logica motivazione, salvo che ricorra l’omesso esame di un fatto decisivo congruamente veicolato come vizio motivazionale, circostanza che nel presente caso non ricorre.

1.12. Va, infine rilevato che il motivo è privo della dovuta specificità in merito alla sottoposizione della questione dell’eccezione di giudicato in fase di merito – alla stregua del ricorso e della sentenza impugnata – poichè non sembra essere stato sollevata dinanzi al giudice di appello: tanto si evince dal ricorso (fol.7 del ricorso, in nota) e dai motivi riportati nella sentenza impugnata (fol. 7) non oggetto di contestazioni sul punto. Con il gravame, infatti, Firs aveva sostenuto ben altri argomenti, e cioè: che la prova dell’esistenza del danno era stata raggiunta attraverso la CTU e che il quantum era determinabile nella differenza tra attivo e passivo e/o in via equitativa; che il nesso causale si evinceva dalla mancata adozione tempestiva di provvedimenti autoritativi da parte di ISVAP che avrebbero impedito la prosecuzione dell’attività e l’aggravamento dell’insolvenza.

2.1.Con il secondo motivo – proposto in via subordinata – si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) lamentando che, ove esclusa l’incidenza del giudicato penale, la Corte di appello non aveva tenuto, comunque, conto delle risultanze del procedimento penale stesso (richiama Cass. n. 840 del 20 gennaio 2015) e della sentenza penale quale documento.

2.2. Il secondo motivo è inammissibile perchè formulato in maniera astratta, senza alcun confronto con il contenuto della statuizione impugnata e segnatamente con la qualificazione della domanda attorea compiuta nel merito (v. sub. 1.10/1.11).

Inoltre, il motivo appare assertivo perchè, insistendo sul tema dell’aggravamento dell’insolvenza, non considera le emergenze istruttorie approfonditamente vagliate dalla Corte territoriale culminate con l’accertamento in fatto circa la mancanza di prova in ordine all’esistenza di una perdita (prima ancora della sua quantificazione) riferibile con certezza alla prosecuzione dell’attività nel periodo aprile 1990 – novembre 1991, nel quale furono redatte le attestazioni mendaci dei dipendenti di Centrobanca; inoltre, i passaggi della sentenza penale riprodotti, pur relativi all’aggravamento del dissesto, non contengono utili riferimenti a perdite maturate nel periodo temporale in contestazione ed ascrivibili alle condotte illecite dei dipendenti di Centrobanca.

3.1. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226,2035,2043,2055 e 2697 c.c., nonchè dei principi consolidati in tema di prova del danno e sua valutazione equitativa nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori di cui all’art. 146 L. Fall. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3); vizio della motivazione costituzionalmente rilevante (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

La ricorrente, sulla premessa che la decisione impugnata presenta due differenti rationes decidendi – la prima in merito al difetto di prova del danno di cui si chiede il risarcimento, la seconda in merito al difetto di prova dell’entità del danno che, a dire della Corte di appello, avrebbe dovuto essere provato nel suo ammontare, stante la non difficoltà o impossibilità di detta prova di guisa che la valutazione equitativa doveva ritenersi non consentita – le critica entrambe.

Il motivo è inammissibile perchè non coglie la ratio decidendi che, contrariamente a quanto assume la ricorrente, è sostanzialmente unica.

Invero, posto che non sono stati messi in discussione dalla Corte di appello nè l’aggravamento del dissesto della Firs, nè le condotte illecite dei dipendenti della banca, il giudice del gravame ha motivatamente ritenuto che non fosse stato provato per quale parte dell’intero aggravamento del dissesto (perdita specifica) ed in che misura (per quale ammontare) il danno lamentato fosse da ascrivere alle condotte illecite di cui si discute (attestazioni connesse alle operazioni (OMISSIS) e (OMISSIS)) e si collocasse nell’ambito dell’arco temporale definito (aprile 1990/novembre 1991), senza che sia rilevabile alcun difetto motivazionale.

La censura non si confronta affatto con questa ratio decidendi, ma richiama i precedenti giurisprudenziali in tema di responsabilità degli amministratori e di liquidazione equitativa senza soffermarsi criticamente su alcuno dei passaggi motivazionali prima evidenziati, di guisa che ne va ritenuta l’inammissibilità.

4.1. Il ricorso incidentale condizionato è articolato nei seguenti motivi:

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e art. 43 L. Fall., applicabile per relationem anche alle procedure concorsuali amministrative, per difetto di legittimazione attiva, rectius di titolarità attiva, in capo al Commissario per un’azione risarcitoria contro la Centrobanca motivato dal ritardo dell’apertura della procedura concorsuale imputato alla banca.

Invoca l’applicazione del precedente di legittimità (Cass. Sez. U. n. 7029 del 28/03/2006), sostenendo la analogia negata dai giudici di merito nel presente caso.

2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 2947 c.c. per non essere stata accolta l’eccezione di prescrizione dell’azione risarcitoria promossa contro Centrobanca a distanza di venticinque anni dai “fatti dannosi” e di circa ventidue anni dall’apertura della procedura concorsuale applicando il prolungamento del termine stabilito per il danno derivante da reato.

3) Violazione dell’art. 112 c.p.c. per l’omessa pronuncia, nei giudizi di merito, sulla precorsa rinuncia della Firs alla pretesa di danni che era stata notificata alla Centrobanca l’8/11/1991.

4.2. Il ricorso incidentale condizionato è assorbito in ragione del rigetto del ricorso principale.

5. In conclusione il ricorso principale va rigettato, assorbito l’incidentale.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater in capo alla ricorrente principale.

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale condizionato;

– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 12.000,00=, oltre ad Euro 200,00= per esborsi, alle spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed agli accessori di legge;

– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019

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