Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24043 del 23/10/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 24043 Anno 2013
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: FILABOZZI ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso 19617-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013
2640

3

contro

BACALONI ROBERTA, elettivamente domiciliata in ROMA,

a

VIA RENO 21, presso lo studio dell’avvocato RIZZO
ROBERTO, che la rappresenta e difende, giusta delega

Data pubblicazione: 23/10/2013

in atti;
– controricorrente
avverso la sentenza n.

8757/2006

D’APPELLO di ROMA, depositata

della CORTE

il 13/07/2007

R.G.N.

3491/2003;

udienza del

19/09/2013

dal Consigliere Dott. ANTONIO

FILABOZZI;
udito l’Avvocato BONFRATE FRANCESCA per delega
verbale FIORILLO LUIGI;
udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

• ‘ r.g. n. 19617/08
udienza del 19.9.2013

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Roberta Bacaloni ha chiesto che fosse dichiarata la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro
alle dipendenze di Poste Italiane s.p.a. per il periodo dal 13.7.1998 al 30.9.1998 e dal 25.5.1999 al

La domanda è stata accolta dal Tribunale di Roma, che ha dichiarato la nullità dei termini apposti
ai contratti stipulati tra le parti e l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato a decorrere dal 13.7.1998, con sentenza che è stata parzialmente riformata dalla Corte
d’appello della stessa città che, con sentenza pubblicata il 13.7.2007, ha dichiarato la nullità del
termine apposto al contratto di lavoro stipulato in data 25.5.1999 e l’esistenza tra le parti di un
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 1.6.1999, condannando la
società Poste Italiane al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data della costituzione in mora
nei limiti del triennio decorrente dalla scadenza del termine apposto al contratto di lavoro. A tale
conclusione la Corte territoriale è pervenuta considerando che il contratto era stato stipulato in forza
dell’art. 8 del CCNL Poste 26.11.94, come integrato dall’accordo 25.9.97, per esigenze eccezionali
connesse alla fase di ristrutturazione dell’azienda e rilevando che le assunzioni per tale causale
erano ammesse fino al 30.4.98 – data fissata dalle parti collettive con accordo integrativo 16.1.98 di modo che per quella in questione, relativa al periodo 25.5.1999-30.10.1999, il termine doveva
ritenersi illegittimamente apposto.
Avverso questa sentenza Poste Italiane propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi cui
resiste con controricorso Roberta Bacaloni.
La resistente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

30.10.1999.

Il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo e il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 23 della 1. n. 56/87, dell’art. 8

dvl c.c.n.l. 26.11.94, nonché degli accordi sindacali del 25.9.97, del 16.1.1998, del 27.4.1998, del
2.7.1998, del 24.5.1999 e del 18.1.2001, in connessione con gli artt. 1362 e ss. c.c., nonché vizio di

motivazione, contestandosi l’interpretazione data alla contrattazione collettiva dal giudice di merito,
con particolare riguardo al potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di
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gp,

individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle stabilite dall’ordinamento,
che, secondo l’assunto, poteva essere esercitato senza limiti di tempo, non prevedendosi alcun
limite temporale al riguardo, con la conseguenza che agli accordi c.d. attuativi del contratto del
25.9.1997 non poteva che riconoscersi una funzione meramente ricognitiva della permanenza delle
esigenze sottese alla necessità di stipulare ulteriori contratti a termine.
2.- Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 421, 425 e 437 c.p.c. in connessione con
gli artt. 1362 e ss. c.c., chiedendo a questa Corte di stabilire se le informazioni ed osservazioni

dei contraenti.
3.- Con il quarto motivo, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1223 c.c., la ricorrente lamenta
che la sentenza impugnata avrebbe considerato quale atto di messa in mora della società la notifica
della richiesta di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, che “è esclusivamente
prodromica alla instaurazione della controversia” ed avrebbe altresì omesso di accertare se ed in che
misura il lavoratore avesse svolto ulteriori e successive attività lavorative, in ordine alle quali la
società, “al di là” delle richieste avanzate di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore, “non

poteva essere in grado di produrre o provare alcunché”. Al riguardo, la ricorrente formula, ex art.
his epe

.

sepente quesito di dirittn. – se per il principio di corrispettività della prestmlone, il

lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato
– ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che
abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel
rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. c.c.”.
4.- I primi due motivi contrastano con la giurisprudenza di questa Corte e non offrono elementi per
mutare gli orientamenti interpretativi che in materia si sono ormai consolidati.
Va rilevato, al riguardo, che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che
il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali …

ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26

novembre 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30
aprile 1998. Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da
questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al d.lgs. n. 368
del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine
apposto al contratto de quo.
Questa Corte ha, infatti, affermato, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, che
“l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di
definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962,
discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle

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sindacali possano risolversi in valutazioni interpretative, specie se le stesse provengano da uno solo

necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i
loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere
a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità
di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti
temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo
determinato” (cfr. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063; cfr. altresì Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7

bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati all’individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma
dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel
sistema da questa delineato.” (cfr., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006
n. 18378); in tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto
dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza
determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n.
18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866); in particolare, quindi, come
questa Corte ha univocamente affermato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali,
con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre
1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno
convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione
giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti
occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve
escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del
presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti in contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230”

marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in

(v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 gennaio 2008 n. 28450; Cass. 4 agosto 2008
n. 21062; Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
5.- Tale interpretazione degli accordi attuativi (e in particolare dell’ultimo citato) è fondata sul
significato letterale delle espressioni usate, che è così evidente e univoco (“in conseguenza di ciò e
per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario
con contratto a tempo determinato fino al 30.4.98”) che non necessita di un più diffuso
ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti (cfi – ex plurimis Cass. n.
12245/2003, Cass. n. 12453/2003), mentre, diversamente opinando – ritenendo cioè che la parti non
abbiano inteso introdurre limiti temporali alla deroga – si dovrebbe concludere che gli accordi
3

Thf

attuativi, così definiti dalle parti sindacali, fossero in sostanza “senza senso” (così testualmente
Cass. n. 2866/2004).
6.- Peraltro, al riguardo deve ritenersi irrilevante l’accordo del 18 gennaio 2001, invocato dalla
società, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga; ed infatti,
ammesso che le parti stipulanti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi
precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura

l’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovrebbe comunque escludersi che le
parti stesse avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto
solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina del d.lgs. n. 165 del 2001), di
autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della
durata in precedenza stabilita (cfr. ex plurimis Cass. n. 5141/2004).
7.- In applicazione di tali principi, vanno quindi respinti il primo e il secondo motivo di ricorso,
considerati unitariamente.
8.- Il terzo motivo propone censure che devono ritenersi del tutto inconferenti rispetto alla
motivazione della sentenza impugnata, atteso che la Corte territoriale non ha attributo un rilievo
significativo alle informative sindacali acquisite ai sensi dell’art. 425 c.p.c., avendo fondato la
propria decisione essenzialmente sulla interpretazione letterale del tenore degli accordi collettivi,
interpretazione che, come detto, risulta del tutto conforme ai principi espressi da questa Corte nelle
sentenze indicate ai punti che precedono.
9.- Il quarto motivo deve ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti prescritti dall’art. 366
bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.
10.- Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le
sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n.
40/2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall’art. 360, primo comma, numeri 1),
2), 3) e 4) c.p.c., l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con
la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla
lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto
asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la
regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve
contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la
sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto
che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre,
il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell’esposizione riassuntiva degli elementi di
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dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), considerata

fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei
a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l’accoglimento o il rigetto del motivo al
quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010). Ne consegue che è inammissibile non solo il
ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo
inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo
implicito o in modo tale da richiedere alla S.C. un inammissibile accertamento di fatto o, infine, sia
formulato in modo del tutto generico (Cass. sez. unite n. 20360/2007). E’ stato altresì precisato che

censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del
principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una
decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si
risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la
fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva
enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica (Cass. sez. unite n.
27368/2009).
11.- Nella fattispecie in esame il quesito formulato dalla ricorrente risulta del tutto astratto e privo
di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta, risolvendosi, in sostanza, nella mera enunciazione
astratta del principio invocato dalla società, senza enucleare il momento e le ragioni di conflitto
rispetto ad esso del concreto accertamento operato dai giudici di merito, e deve pertanto ritenersi
inammissibile.
12.- Peraltro, neppure può ignorarsi che, nella fattispecie, anche l’esposizione del motivo risulta del
tutto generica e priva di autosufficienza. In particolare, la ricorrente contesta che la richiesta di
esperimento del tentativo di conciliazione contenesse una messa in mora – laddove la sentenza
impugnata ha ravvisato in tale atto una “offerta della prestazione” da parte del lavoratore – senza
tuttavia riportare nel ricorso per cassazione il contenuto di tale richiesta. Né viene indicato se ed in
quali termini l’eccezione di aliunde perceptum fosse stata sollevata nel giudizio di appello e quale
fosse il preciso contenuto delle richieste istruttorie che si assumono reiterate nel secondo grado di
giudizio (e che, al pari della questione dell’aliunde perceptum, non formano comunque oggetto del
quesito di diritto, come sopra riportato).
13.- Così risultato inammissibile il quarto motivo, riguardante le conseguenze economiche della
nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo

ius

superveniens rappresentato dall’art. 32, commi 5°, 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183, in
vigore dal 24 novembre 2010.

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il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l’individuazione del principio di diritto

14.- In ordine alla problematica relativa alla possibilità di applicare nel giudizio di legittimità i
nuovi criteri di determinazione del danno introdotti dalle disposizioni sopra citate, va premesso, in
via di principio, che, come già ripetutamente affermato da questa corte (cfr. ex plurimis Cass. n.
6638/2011), costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius
superveniens, che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto
controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto
di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato

4070). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche
indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì
ammissibile secondo la disciplina sua propria (cfr. ex plurimis Cass. n. 4 gennaio 2011 n. 80, Cass.
26 luglio 2011 n. 16266), condizione che non si riscontra nella fattispecie in esame.
15.- Il ricorso deve essere pertanto respinto.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da
dispositivo, facendo riferimento alle disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella
A ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 d.m. cit.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio
liquidate in € 100,00 oltre € 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 19 settembre 2013.

dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n.

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