Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24042 del 06/09/2021

Cassazione civile sez. I, 06/09/2021, (ud. 30/03/2021, dep. 06/09/2021), n.24042

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14641/2017 R.G. proposto da:

P.D., rappresentato e difeso dagli Avv. Antonio Corso,

e Marina Corso, con domicilio eletto in Roma, via C. Passaglia, n.

14, presso lo studio dell’Avv. Maria Sara Merlo;

– ricorrente –

contro

PA.MA., rappresentata e difesa dagli Avv. Enrico

Cellupica, e Antonio Arinelli, con domicilio in Roma, piazza Cavour,

presso la.Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 1650/17,

depositata l’11 aprile 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30 marzo 2021

dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del (OMISSIS), il Tribunale di Napoli pronunciò la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da P.D. con Pa.Ma., ponendo a carico dell’uomo l’obbligo di corrispondere un assegno divorzile di Euro 300,00 mensili, ed a carico della donna l’obbligo di corrispondere un assegno di Euro 300,00 mensili, a titolo di contributo per il mantenimento della figlia maggiorenne M.G., convivente con il padre.

2. L’impugnazione proposta dal P. è stata rigettata dalla Corte d’appello di Napoli con sentenza dell’11 aprile 2017.

A fondamento della decisione, la Corte ha richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di assegno divorzile, secondo cui a) l’accertamento del relativo diritto si articola in due fasi, nella prima delle quali occorre verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente ed all’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, b) l’inadeguatezza dev’essere valutata mediante il raffronto con un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, che può essere desunto dalle potenzialità economiche dei coniugi, c) gli altri criteri previsti dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5 incidono unicamente sulla quantificazione dell’assegno, ai fini della quale non occorre una puntuale considerazione di tutti i parametri di riferimento indicati.

Tanto premesso, la Corte ha rilevato l’esistenza di una notevolissima disparità nella posizione reddituale delle parti, osservando che, mentre il P., medico chirurgo, era titolare di un reddito lordo annuo di Euro 120.000,00 e di un cospicuo patrimonio immobiliare di proprietà esclusiva,

oltre a disporre in via esclusiva degli immobili in comunione dei beni, la Pa.; ricercatrice presso il CNR, percepiva un reddito netto annuo di poco inferiore ad Euro 30.000,00 ed era proprietaria di un immobile in (OMISSIS), destinato a propria abitazione e per il quale pagava un mutuo di Euro 83.000,00 circa, nonché di un appartamento in (OMISSIS), usato per le vacanze estive. Ha ritenuto quindi accertata l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione della donna, aggiungendo che quest’ultima, ormai cinquantenne, non era in grado di procurarsi ulteriori redditi, e concludendo pertanto per la congruità dell’importo mensile riconosciutole in primo grado, in considerazione della durata del matrimonio, protrattosi per venti anni, e del contributo personale ed economico fornito al benessere della famiglia.

Quanto al contributo dovuto dalla Pa. per il mantenimento della figlia, la Corte ha rilevato la genericità delle censure proposte dall’appellante, il quale si era limitato ad indicare in Euro 1.500,00 mensili l’importo complessivamente necessario per la soddisfazione delle esigenze della figlia, omettendo di precisarle e di tenere conto della natura personale del contributo da lui fornito, non suscettibile di precisa quantificazione. Ha ritenuto comunque che la somma liquidata dalla sentenza di primo grado risultasse proporzionata alle modeste disponibilità della madre ed alle esigenze della figlia, desumibili dagli atti di causa, nonché alle notevoli disponibilità paterne.

3. Avverso la predetta sentenza il P. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. La Pa. ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto sussistente il diritto all’assegno in virtù della sola disparità tra le situazioni reddituali dei coniugi, senza fare alcun cenno ad un peggioramento del tenore di vita della Pa. rispetto a quello goduto nel corso della convivenza. Aggiunge che il riferimento al tenore di vita, ai fini dell’attribuzione dell’assegno, si pone in contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità, che impone di verificare l’adeguatezza dei mezzi a disposizione del richiedente con riguardo all’indipendenza o autosufficienza economica dello stesso, da valutarsi sulla base delle allegazioni e delle prove da lui offerte.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 6, degli artt. 115,167,329,343 e 345 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto insufficientemente documentata la sua situazione reddituale, senza tener conto della mancata impugnazione dell’accertamento compiuto in primo grado e dell’avvenuta produzione da parte di esso ricorrente delle dichiarazioni dei redditi richiestegli dal Tribunale. Aggiunge che, nel ritenere non contestata la disponibilità degl’immobili in comunione, dedotta dalla controparte soltanto in appello, la sentenza impugnata non ha considerato che all’udienza di comparizione era stata impedita ad esso ricorrente la proposizione di eccezioni al riguardo, precisando comunque che il principio di non contestazione non opera in sede di gravame. Sostiene inoltre che, nel prendere in considerazione la domanda di mediazione proposta dalla appellata, la Corte territoriale non ha tenuto conto dell’irritualità della relativa produzione, avvenuta soltanto in appello, affermando infine che la sentenza impugnata ha omesso di tener conto della circostanza, non contestata dalla Pa. e idonea ad evidenziare elevate disponibilità economiche, che la donna aveva acquistato una villa da destinare a propria abitazione.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 e degli artt. 112,115 e 345 c.p.c., nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nel ritenere sussistente una sproporzione reddituale tra le parti, la sentenza impugnata ha utilizzato documenti irritualmente prodotti in appello, spingendosi a presumere un tenore di vita diverso da quello accertato in primo grado, nonché ad affermare apoditticamente l’impossibilità per la Pa. di procurarsi adeguati mezzi di sostentamento.

4. Il primo motivo non merita accoglimento, pur dovendosi procedere, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, nella parte concernente l’individuazione dei criteri che presiedono al riconoscimento del diritto all’assegno.

In proposito, la Corte napoletana ha infatti richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, all’epoca indiscusso, secondo cui l’accertamento prescritto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, doveva articolarsi in due fasi, nella prima delle quali occorreva verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre nella seconda doveva procedersi alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico fornito da, ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, e valutando tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 9/06/2015, n. 11870; 15/05/2013, n. 11686; 4/10/ 2010, n. 20582).

A sostegno dell’impugnazione, il ricorrente invoca invece i principi enunciati da una pronuncia successiva, la quale, rimeditando il predetto orientamento, ha confermato la struttura bifasica dell’accertamento in questione, ma ha sostenuto la necessità di una più netta distinzione tra la verifica relativa all’an debeatur e la determinazione del quantum, ribadendo che alla seconda fase può accedersi soltanto nel caso in cui la prima si concluda con esito positivo, ma affermando che, mentre la liquidazione dell’assegno è improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione del contributo in favore dell’altro coniuge quale persona economicamente più debole, il riconoscimento del relativo diritto dev’essere effettuato sulla base del principio di autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quale persona singola; premesso che tale principio trova fondamento nella natura eminentemente assistenziale dell’assegno, giustificata dall’intervenuto scioglimento del rapporto matrimoniale sul piano non solo personale, ma anche economico-patrimoniale, la pronuncia invocata dal ricorrente ha sostenuto che nella valutazione dell’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente occorre avere riguardo non già al tenore di vita dallo stesso goduto in costanza di matrimonio, la cui considerazione comporterebbe un’illegittima ultrattività del vincolo coniugale, ma alle risorse necessarie per condurre un’esistenza libera e dignitosa, nella prospettiva del raggiungimento dell’indipendenza o dell’autosufficienza personale da parte dello ex coniuge economicamente svantaggiato (cfr. Cass., Sez. I, 10/05/2017, n. 11504).

Il contrasto in tal modo determinatosi nella giurisprudenza di legittimità è stato risolto da una più recente sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, la quale, discostandosi dai principi invocati dal ricorrente, ma sottoponendo a revisione anche l’orientamento tradizionale, ha attribuito all’assegno divorzile una funzione non solo assistenziale, ma anche perequativo-compensativa, discendente direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e ritenuta idonea a legittimare il riconoscimento di un contributo volto a consentire al richiedente non già il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, ma il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, avuto riguardo in particolare alle aspettative professionali sacrificate. In quest’ottica, è stato affermato che, ai fini della valutazione dell’inadeguatezza dei mezzi economici e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, occorre tener conto sia dell’impossibilità per il richiedente di vivere autonomamente e dignitosamente sia della necessità di compensarlo per il particolare contributo che dimostri di avere fornito, nel corso della vita coniugale, alla formazione del patrimonio comune o di quello dell’altro coniuge, mentre è stata esclusa la possibilità di attribuire rilievo, a tal fine, al solo squilibrio economico esistente tra le parti o all’alto livello reddituale dell’altro coniuge, in quanto la differenza reddituale risulta coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, ormai estraneo alla determinazione dell’assegno, e l’entità del reddito dell’obbligato non giustifica di per sé la corresponsione di un assegno commisurato alle sue sostanze (cfr. Cass., Sez. Un., 11/07/2018, n. 18287; nel medesimo senso, successivamente, Cass., Sez. I, 9/08/2019, n. 21234; 28/02/2020, n. 5603).

4.1. Nella prospettiva inaugurata dalla pronuncia delle Sezioni Unite, la possibilità di condurre un’esistenza autonoma e dignitosa e l’apporto fornito alla conduzione della vita familiare rappresentano dunque i parametri essenziali della valutazione da compiere ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno, la cui funzione assistenziale e al tempo stesso perequativo-compensativa assegna un ruolo fondamentale, al di là del confronto tra le situazioni patrimoniali e reddituali delle parti, alla considerazione della durata e dello svolgimento concreto del rapporto coniugale, a detrimento di quello preminente finora attribuito all’astratta individuazione dello standard economico-sociale della vita familiare. Nella specie, peraltro, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, i predetti elementi non risultano affatto trascurati dalla sentenza impugnata, la quale, nonostante il richiamo all’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, non si è limitata a prendere in esame le situazioni reddituali e patrimoniali delle parti, desumendone l’esistenza di uno squilibrio da colmare attraverso il riconoscimento dell’assegno, ma ha esteso la propria analisi al contributo personale ed economico offerto dalla Pa. al benessere della famiglia, evidenziando la durata ventennale del matrimonio e l’apporto concretamente fornito dalla donna al menage familiare sia attraverso lo svolgimento delle attività domestiche, ivi compresa la cura dell’unica figlia nata dall’unione, che mediante la prestazione di attività lavorativa retribuita, in qualità di ricercatrice presso il CNR. In altri termini, il riferimento tenore di vita presumibilmente goduto dai coniugi nel corso della convivenza non ha impedito alla Corte territoriale di procedere ad una valutazione globale, articolata sui criteri dettati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, secondo un modello che non si discosta significativamente da quello prefigurato dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite, e nello ambito del quale non risulta affatto esclusa la possibilità di tener conto della disparità tra le posizioni economiche delle parti: la valutazione delle stesse è anzi compresa tra gli elementi specificamente menzionati dall’art. 5, comma 6, cit. ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno, sia pure nell’ottica, risultante dal nuovo orientamento giurisprudenziale, di far emergere l’insufficienza delle risorse disponibili da parte del richiedente, piuttosto che in quella, risultante dall’indirizzo pregresso, di desumerne lo standard di vita del nucleo familiare.

4.2. Quanto poi alla ricostruzione della situazione patrimoniale e reddituale delle parti, censurata con il secondo e il terzo motivo di impugnazione, occorre innanzitutto richiamare il principio, costantemente ribadito da questa Corte in materia di divorzio, secondo cui nel giudizio di appello, che ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 15, si svolge con rito camerale, la sommarietà della cognizione e la semplicità di forme che caratterizzano tale tipo di procedimento impediscono la piena applicazione delle norme che disciplinano il processo ordinario, ed in particolare dell’art. 345 c.p.c., comma 3, con la conseguenza che non può escludersi l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova, a condizione che sia assicurato un pieno e completo contraddittorio tra le parti (cfr. Cass., Sez. I, 30/11/2020, n. 27234; 13/04/2012, n. 5876). Non possono pertanto condividersi le considerazioni svolte dalla difesa del ricorrente in ordine all’irritualità dell’eventuale produzione delle dichiarazioni dei redditi aggiornate all’attualità, delle quali la sentenza impugnata ha rilevato il mancato deposito, così come quelle riguardanti l’inammissibilità della documentazione prodotta dall’appellata per dimostrare lo squilibrio esistente tra la sua situazione economica e quella del coniuge. La circostanza che le parti abbiano ottemperato, in sede di comparizione dinanzi al presidente del tribunale, all’onere, posto a loro carico dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, di presentare la dichiarazione personale dei redditi ed ogni documentazione relativa ai loro redditi ed al loro patrimonio personale e comune, non impedisce d’altronde al tribunale o alla corte d’appello di disporne l’aggiornamento, indipendentemente dalla proposizione di eventuali contestazioni, ove, come nella specie, il tempo trascorso dall’instaurazione del giudizio o la sopravvenienza di fatti idonei a determinare la modificazione della posizione economico-patrimoniale delle parti facciano apparire non più attendibile la rappresentazione emergente dai documenti originariamente prodotti. Nessun rilievo può assumere, ai fini dell’esercizio del predetto potere in sede di gravame, la circostanza che la situazione reddituale e patrimoniale accertata dalla sentenza di primo grado non abbia formato oggetto di specifiche censure, non risultando la stessa coperta dal giudicato interno, dal momento che l’impugnazione della statuizione concernente il riconoscimento del diritto all’assegno e la determinazione del relativo importo comporta la riapertura del dibattito processuale in ordine all’intera questione, con la conseguente riespansione del potere del giudice di riconsiderarla anche relativamente a quegli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non risultino singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dai motivi di gravame (cfr. Cass., Sez. II, 17/04/2019, n. 10760; Cass., Sez. VI, 8/10/2018, n. 24783; 16/05/2017, n. 12202).

4.3. Inammissibili, per difetto di specificità, risultano invece le doglianze riguardanti l’errata applicazione del principio di non contestazione, essendosi il ricorrente limitato ad affermare l’inoperatività di tale principio in sede di gravame, senza chiarire se le circostanze di fatto ritenute incontestate dalla Corte territoriale fossero state allegate dalla controricorrente in primo grado o emergessero dalla nuova documentazione dalla stessa prodotta in appello: il motivo di ricorso per cassazione con cui si deduca l’erronea applicazione del principio di non contestazione non può infatti prescindere dall’indicazione e, se necessario, dalla trascrizione degli atti sulla base dei quali il giudice di merito ha ritenuto integrata la non contestazione che il ricorrente pretende di negare, dal momento che l’onere di specifica contestazione, posto a carico della parte costituita, presuppone, a monte, un’allegazione altrettanto puntuale ad opera della parte onerata della prova (cfr. Cass., Sez. III, 13/11/ 2016, n. 20637).

4.4. Non merita infine consenso l’affermazione secondo cui, nell’accertamento della situazione economica della Pa., la sentenza impugnata avrebbe omesso di valutare la titolarità di un prestigioso immobile in (OMISSIS), il cui acquisto, rimasto a sua volta incontestato, risulterebbe di per sé sufficiente a comprovare la consistenza delle risorse economiche di cui la donna può disporre: la Corte d’appello ha preso infatti specificamente in esame il predetto acquisto, ritenendolo tuttavia inidoneo a denotare l’elevatissima capacità reddituale fatta valere dal ricorrente, in considerazione della onerosità del mutuo a tal fine contratto dalla Pa. e della mancata dimostrazione della lussuosità dell’immobile o del prezzo asseritamente pagato per lo stesso. Nel censurare tale valutazione, il ricorrente non è in grado di indicare elementi di fatto emersi dal dibattito processuale e trascurati dalla sentenza impugnata, idonei ad orientare in senso diverso la decisione, ma si limita ad insistere sulla mancata contestazione dell’acquisto, certamente non riferibile anche agli apprezzamenti riguardanti il pregio ed il valore di mercato dell’immobile, e sulle disponibilità economiche della controricorrente, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una rivisitazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie motivazionali risultano ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, per effetto della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 da parte del D.L. 27 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/ 2020, n. 331; 4/11/2013, n. 24679; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547).

4. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della contro-ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1 bis.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.

Così deciso in Roma, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2021

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