Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24039 del 30/10/2020

Cassazione civile sez. II, 30/10/2020, (ud. 09/09/2020, dep. 30/10/2020), n.24039

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5481/2017 proposto da:

A.F., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO

18, presso lo studio dell’avvocato ACHILLE CARONE FABIANI,

rappresentata e difesa dall’avvocato GUERINO D’ANGELO GALLO giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

A.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LIVORNO 20,

presso lo studio dell’avvocato SAIRA DI EUGENIO, rappresentata e

difesa dall’avvocato CLAUDIO IACONI, giusta procura in calce al

controricorso;

A.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. DENZA 20,

presso lo studio dell’avvocato LAURA ROSA, che unitamente

all’avvocato LORENZO DEL FEDERICO, la rappresenta e difende giusta

procura speciale con autentica notarile in calce alla memoria;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 958/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 21/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/09/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito il PUBBLICO MINISTERO nella persona Sostituto Procuratore

Generale, Dott. MUCCI Roberto, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

udito l’Avvocato Achille Carone Fabiani per la ricorrente, l’Avvocato

Claudio Iaconi, per la controricorrente A.E., e l’Avvocato

Laura Rosa per la controricorrente A.M..

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE

Con citazione del 26/6/2004, le germane A.M. ed A.E. convenivano in giudizio la sorella A.F. dinanzi al Tribunale di Teramo, onde pervenire allo scioglimento delle comunioni ereditarie materna e paterna, evidenziando in particolare che la defunta genitrice aveva attribuito alla convenuta, in aggiunta alla quota di legittima, anche la disponibile.

Si costituiva la convenuta che chiedeva il rigetto della domanda di divisione, insistendo per la condanna in via riconvenzionale delle attrici al rimborso delle spese sostenute a seguito del decesso dei genitori e nell’interesse di tutte le comuniste.

Nel corso delle operazioni peritali, e precisamente nella sessione del 28/11/2008, veniva sottoscritto un verbale con il quale si prevedeva il trasferimento di tutti i beni comuni alla convenuta, con l’impegno della stessa a versare a titolo di conguaglio alle sorelle la somma di Euro 200.000,00 cadauna.

Essendo sorta contestazione tra le parti circa l’efficacia vincolante di tale accordo, il Tribunale adito con la sentenza n. 452/2009 dell’8 luglio 2009 dichiarava sciolta la comunione ereditaria alle condizioni concordate nella scrittura privata del 28 novembre 2008, e per l’effetto attribuiva alla convenuta la proprietà esclusiva di tutti i beni immobili, ponendo a suo carico il conguaglio determinato in Euro 200.000,00 a favore di ognuna delle attrici (così essendosi proceduto alla correzione dell’errore materiale inizialmente contenuto nella sentenza).

A seguito di appello di A.F., la Corte d’Appello di L’Aquila con la sentenza n. 958 del 21/9/2016 rigettava il gravame, condannando l’appellante al rimborso in favore delle appellate delle spese del grado.

In primo luogo, disattendeva la censura di nullità della sentenza per violazione della regola di composizione dell’organo giudicante di cui all’art. 50 bis c.p.c., rilevando che la domanda proposta atteneva alla sola divisione dei beni relitti, senza che fosse stata posta in discussione la validità del testamento e senza che fosse stata esperita alcuna azione di riduzione.

Del pari era disattesa la doglianza che investiva la mancata riproduzione in sentenza della narrazione dei fatti e delle conclusioni delle parti, occorrendo considerare che la sentenza era stata pronunciata dal Tribunale ex art. 281 sexies c.p.c..

Quanto alla validità ed efficacia dell’accordo del 28 novembre 2008, la Corte distrettuale reputava che effettivamente fosse stata raggiunta un’intesa volta a regolare i criteri ed i valori per addivenire alla divisione, atteso che nella medesima, alla proposta dell’appellante, faceva seguito l’accettazione delle altre condividenti, e precisamente da parte dei rappresentanti di A.E., giusta delega del 27/11/2008 in atti.

Peraltro, l’appellante non poteva invocare il difetto dei poteri rappresentativi in capo a coloro che dichiaravano di agire in rappresentanza della controparte, anche in considerazione del fatto che l’atto scritto richiamato conferiva ai rappresentanti ogni potere rappresentativo, senza alcuna esplicita esclusione. Inoltre, anche a voler reputare che non vi fosse una valida procura, la rappresentata A.E. aveva ratificato l’operato dei rappresentanti, con la diffida del 25/2/2009, non avendo alcuna rilevanza la revoca della proposta da parte dell’appellante, sia perchè tale revoca era stata indirizzata ad un terzo (e precisamente al CTU) e non già alle controparti, sia perchè la revoca era intervenuta allorquando era già avvenuta l’accettazione della proposta da parte delle altre condividenti.

A ciò andava anche aggiunto che la stessa A.F. nel corso dell’udienza del 10 febbraio 2009 aveva confermato l’intervenuta conclusione di un accordo in ordine alle modalità di divisione, riferendo unicamente di non essere in grado di adempiere agli obblighi ivi assunti.

Ne derivava, alla luce delle precedenti considerazioni, che correttamente il Tribunale aveva preso atto dell’accordo intervenuto, ma che, senza limitarsi a dichiarare cessata la materia del contendere, aveva riscontrato l’idoneità di tale accordo a definire in via transattiva la controversia, provvedendo a sciogliere la comunione in conformità di quanto concordato tra le parti.

Peraltro, le stesse condividenti avevano condizionato l’estinzione delle pretese azionate alla puntuale attuazione degli impegni presi nella scrittura, senza che ciò impedisse di riscontrare nella stessa la determinazione, anche in via transattiva, dei criteri di attribuzione dei beni in natura ed eventualmente in deroga a quanto previsto dall’art. 718 c.c..

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso A.F. sulla base di due motivi.

A.E. ed A.M. hanno resistito con autonomi controricorsi.

La ricorrente e la controricorrente A.E. hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Diritto

RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 50 bis c.p.c., n. 6, in relazione agli artt. 713 e 581 c.c., nonchè per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, quanto all’esistenza del divieto quinquennale della divisione imposto dalla testatrice M.I..

Si deduce che la sentenza di prime cure è stata erroneamente pronunciata dal Tribunale in composizione monocratica, mentre avrebbe dovuto essere decisa dal Collegio, essendo stata avanzata una domanda di impugnativa testamentaria.

Il motivo è infondato.

Premessa la pacifica applicabilità alla vicenda della previsione di cui all’art. 50 bis c.p.c., quanto alle regole di riparto tra collegio e tribunale in composizione monocratica per la decisione della controversia (la cui introduzione risale al 2004), correttamente la Corte d’Appello ha rilevato che la domanda aveva ad oggetto la divisione dei beni caduti nelle successioni dei genitori delle condividenti, dovendosi escludere che fosse stata altresì proposta un’impugnativa testamentaria e mancando la proposizione di un’azione di riduzione, uniche ipotesi per le quali la legge riserva la decisione al collegio delle controversie in materia successoria.

Al fine di contestare tale assunto, la ricorrente richiama la previsione del testamento di M.I., madre delle sorelle A., che, oltre ad istituire erede universale la ricorrente nella legittima e nella disponibile, riservando alle altre figlie la sola quota di legittima, ai sensi dell’art. 713 c.c., comma 3, disponeva che la divisione non avesse luogo prima del decorso del termine di cinque anni dalla morte (impregiudicata in ogni caso l’immediata operatività della divisione testamentaria quanto alla porzione attribuita alla figlia F.).

Si deduce che le attrici, avvedutesi dell’esistenza di tale disposizione, avevano proposto la domanda di divisione, a pochi mesi dalla morte della madre, invocando l’intervento dell’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 713 c.c., comma 4.

Trattasi quindi di una ribellione alle volontà testamentarie che dà vita ad un’impugnazione del testamento, con la conseguente operatività della competenza collegiale del Tribunale.

La deduzione non merita accoglimento.

In realtà, la stessa richiesta delle attrici di addivenire alla divisione, invocando il potere del giudice di permettere la divisione immediata in deroga alla volontà del testatore, lungi dal configurarsi come un’impugnativa del testamento, presuppone invece il pieno riconoscimento della sua vincolatività e l’intervento del giudice per superarne i limiti effettuali, sul presupposto che solo la deroga consentita dall’autorità giudiziaria permette di disattendere la decisione del testatore di mantenere vincolati i condividenti nel limite temporale dettato dalla norma in esame.

Deve quindi escludersi che l’azione proposta, volta a consentire l’immediata divisione, si configuri alla stregua di un’impugnativa testamentaria idonea a radicare la decisione della lite in capo al collegio, avendo correttamente deciso la causa il tribunale in composizione monocratica.

Quanto poi alla deduzione secondo cui la sentenza gravata non avrebbe adeguatamente considerato il limite posto dal divieto testamentario di divisione di cui all’art. 713 c.c., comma 3, in disparte il rilievo secondo cui tale divieto si ritiene in dottrina che possa essere derogato per effetto dell’unanime decisione dei condividenti, che intendano comunque dare immediata attuazione alla divisione (attesa la natura disponibile del diritto scaturente dalla previsione testamentaria), e potendosi quindi individuare la volontà di deroga proprio nella conclusione dell’accordo divisionale posto a fondamento della decisione gravata, va comunque evidenziato, come sottolineato dalla difesa della controricorrente, che la norma prevede un termine di sospensione della divisione, termine nella specie fissato in cinque anni, che risultava ormai già decorso alla data di pronuncia della sentenza di primo grado (8 luglio 2009), avuto riguardo alla data di aperura della successione (20 gennaio 2004), il che permette di affermare che la divisione giudiziale, avente efficacia modificativa-traslativa (Cass. S.U. n. 25021/2019), sebbene operante in maniera retroattiva, sia intervenuta allorquando il termine dilatorio posto dalla testatrice era ormai decorso.

2. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1326,1328,1392,1393,1397,1965 e 1967 c.c., nonchè dell’art. 199 c.p.c. e dell’art. 112 c.p.c., oltre che l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, consistente nella mancata acquisizione e lettura della delega del 27 novembre 2008 ad opera del CTU, con la mancata verifica dei relativi poteri conferiti da A.E. ed omessa sottoscrizione del verbale.

Il motivo rileva che l’accordo posto a base della decisione gravata risulta riportato in un verbale intestato al Tribunale e compilato dal CTU.

Si rileva che, dalla lettura del medesimo, non può evincersi l’accettazione della proposta ivi formulata dalla ricorrente, atteso che si fa riferimento per A.E. ad una “fantomatica” delega in favore di B.G. e S., delega che non risulta essere stata controllata dal CTU, dinanzi al quale si sarebbe tenuta la riunione del 28 novembre 2008, e che nemmeno avrebbe sottoscritto il verbale.

La delega inoltre sarebbe stata versata in atti senza il rispetto delle regole di rito.

La stessa procura avrebbe poi un contenuto del tutto generico, atteso che con la stessa la sorella incaricava i figli di rappresentarla all’incontro che sarebbe avvenuto il 28.11.2008, ma senza che fosse chiarita quale era la finalità di tale incontro.

Si deduce altresì che la Corte d’Appello avrebbe avallato la tardiva ratifica dell’operato dei rappresentanti, senza avvedersi che, se una ratifica era stata compiuta, ciò era dovuto al riconoscimento dell’assenza di un valido potere di rappresentanza. Si assume altresì che non si sarebbe tenuto conto della revoca della proposta da parte della ricorrente, e ciò sul presupposto della sua tardività rispetto alla già intervenuta accettazione, oltre che per essere stata indirizzata ad un terzo, e cioè al CTU. A tal fine si sottolinea che non poteva reputarsi avvenuta alcuna accettazione, una volta escluso che i B. fossero validi rappresentanti della madre; inoltre si rimarca che il CTU era la longa manus del giudice sicchè l’invio della revoca della proposta al medesimo era finalizzata a farla pervenire, come appunto poi accaduto, a conoscenza del giudice.

Infine, si deduce che non si è tenuto conto della condotta della ricorrente alla successiva udienza del 10/2/2009, allorquando aveva evidenziato l’impossibilità di adempiere agli obblighi scaturenti dalla scrittura, attesa l’impossibilità di poter ottenere un mutuo.

Tale circostanza equivale all’allegazione di un’impossibilità sopravvenuta ovvero ad una causa di forza maggiore che avrebbe giustificato il recesso unilaterale ovvero la risoluzione per inadempimento.

Il motivo deve essere rigettato.

La lettura del mezzo di gravame permette in primo luogo di affermare che la ricorrente in realtà non contesta che il contenuto della scrittura predisposta all’esito della riunione del 28 novembre 2008 presso lo studio del CTU, ove sottoscritta dalle parti effettivamente legittimate, avrebbe portata vincolante in ordine all’assetto della divisione tra le condividenti (atteso anche l’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito che, con interpretazione connotata da logicità e coerenza, ha ritenuto che l’accordo avesse inteso definire il valore dei beni in comunione e le modalità attraverso le quali poi pervenire allo scioglimento della massa ereditaria), ma contesta piuttosto la sua vincolatività per il difetto di una valida sottoscrizione da parte della sorella A.E., e ciò sia perchè coloro che si erano costituiti nell’atto erano privi di valido potere rappresentativo, sia in quanto la successiva ratifica era avvenuta allorchè la proposta originaria della ricorrente era stata già revocata.

Preme altresì rilevare che l’accordo in esame non rientra, nè la Corte di merito ha ritenuto di poterlo far rientrare, nella previsione di cui all’art. 199 c.p.c., ma è stato ritenuto costituire, con apprezzamento in fatto, anche qui non suscettibile di sindacato in sede di legittimità, un negozio transattivo di rilievo sostanziale, che sebbene inidoneo a produrre l’efficacia estintiva del giudizio ai sensi della suddetta norma, ben può però determinare la cessazione dell’originaria materia del contendere con l’insorgere di nuove obbligazioni tra le parti (cfr. sul punto Cass. n. 13578/2008).

La valenza essenzialmente sostanziale dell’accordo intervenuto tra le parti esclude quindi che possa invocarsi, al fine di privare di efficacia la scrittura de qua, la sua mancata sottoscrizione da parte del CTU o la mancata verifica sempre ad opera dell’ausiliario d’ufficio dei poteri di rappresentanza di coloro che erano comparsi nell’interesse della controricorrente A.E., non rivestendo la sua partecipazione all’atto rilevanza ai fini della sua validità, a differenza di quanto invece prescritto per la diversa ipotesi di conciliazione di cui all’art. 199 c.p.c..

Sgomberato il campo da tale questione, si ricorda che il giudice di appello ha disatteso le analoghe doglianze mosse dalla ricorrente in grado di appello, sottolineando che:

A.F. non poteva eccepire il difetto del potere di rappresentanza in capo a coloro che nell’atto comparivano come procuratori della sorella E., e ciò sia perchè esisteva uno specifico mandato scritto recante la data del 27 novembre 2008, che conferiva ampi poteri ai rappresentanti senza alcuna esclusione, sia in quanto la legittimazione ad eccepire il difetto del potere rappresentativo compete al solo rappresentato e non al terzo contraente, come invece pretendeva di fare l’appellante;

– anche laddove si fosse ritenuto il difetto di una valida procura, la rappresentata aveva comunque ratificato l’operato dei rappresentanti, con la diffida del 25 febbraio 2009;

– ancora, non aveva alcun rilievo la revoca della proposta successivamente compiuta dalla ricorrente, e ciò sia perchè era stata indirizzata ad un soggetto terzo (il CTU), sia perchè era tardiva rispetto alla già avvenuta accettazione per effetto della sottoscrizione delle altre condividenti;

infine, la stessa appellante nel corso della successiva udienza del 10 febbraio 2009 aveva confermato l’avvenuta conclusione di un accordo transattivo, adducendo solamente la sua impossibilità di far fronte alle obbligazioni assunte, in quanto non in grado di poter adempiere all’obbligo di pagamento dei conguagli come concordati.

Osserva il Collegio che, in ragione delle contestazioni mosse con il motivo di ricorso in esame, assuma portata decisiva il rilievo correttamente effettuato dal giudice di appello in base al quale la legittimazione ad eccepire il difetto di potere del falsus procurator compete solo al soggetto falsamente rappresentato. Ed, invero, pur dovendosi ricordare che, come più volte affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 4864/2007), l’interpretazione della procura, al fine di individuare l’ambito del mandato conferito dalla parte, costituisce valutazione riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata (conf. Cass. n. 21924/2006, che ribadisce che l’interpretazione datane dal giudice di merito è contestabile solo per eventuali omissioni ed incongruità argomentative, e non anche mediante la mera denunzia dell’ingiustificatezza del risultato interpretativo raggiunto, prospettante invece un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità; Cass. n. 1419/2011), la mancata successiva contestazione del potere di rappresentanza in occasione della sottoscrizione dell’accordo del 28 novembre 2008 da parte di A.E., in quella sede rappresentata dai figli Bi.Sa. e G., rende del tutto irrilevante verificare se l’atto del 27 novembre 2008 contenesse o meno una valida procura a sottoscrivere anche l’accordo divisionale oggetto di causa.

A tal fine occorre rilevare che tale conclusione appare confortata anche a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite che con la sentenza n. 11377/2015, nel rivedere il precedente orientamento di questa Corte, hanno affermato che la deduzione del difetto o del superamento del potere rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto, da parte dello pseudo rappresentato, integra una mera difesa, atteso che la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, sicchè il giudice deve tener conto della sua assenza, risultante dagli atti, anche in mancanza di una specifica richiesta di parte (non potendosi quindi ritenere che si tratti di un’eccezione in senso stretto), hanno però dato continuità alla regola affermata dal giudice di appello secondo cui è solo lo pseudo rappresentato che può porre la questione della effettiva ricorrenza del potere di rappresentanza.

Nella decisione delle Sezioni Unite in esame, al punto 7, è dato infatti leggere: “Se poi sia lo pseudo rappresentato ad agire in giudizio con una domanda che presuppone l’efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri (ad esempio, al fine di ottenere la condanna del terzo ad adempiere o la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte), certamente nè il terzo potrà difendersi opponendo la carenza del potere di rappresentanza, nè vi sarà spazio per un rilievo officioso di quella carenza di legittimazione. Lo stesso superamento delle ragioni per una rilevabilità da parte del giudice si avrà se lo stesso pseudo rappresentato, questa volta convenuto in giudizio, si difenda nel merito tenendo un comportamento da cui risulti in maniera chiara e univoca la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e conto dal falsus procurator (cfr. Sez. 2, 15 novembre 1994, n. 9638; Sez. 1, 8 aprile 2004, n. 6937). Nell’uno e nell’altro caso, questo dipende dal fatto che il comportamento tenuto nel processo dal dominus opera anche sul terreno del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la ratifica (pur se tacita), l’originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui nome è stato speso, del contratto stipulato dal falsus procurator.

Nella specie la richiesta proveniente dalla parte, asseritamente rappresentata dai falsi procuratori, di dare attuazione all’accordo nel quale figurava come rappresentata, esclude che la ricorrente possa dedure il difetto di rappresentanza, dovendo prevalere unicamente la volontà del dominus, intesa ad appropriarsi degli effetti del contratto, di tal che risulta comunque irrilevante verificare se i B. fossero o meno muniti di una valida procura.

Quanto invece alla rilevanza di una possibile revoca della proposta, la stessa deve escludersi.

Infatti, anche a voler prescindere dalla questione relativa all’individuazione del soggetto al quale indirizzare la revoca, occorre ricordare che, come precisato sempre dalle Sezioni Unite nella richiamata sentenza del 2015, il negozio concluso da chi agisce come rappresentante senza essere tale oppure da chi, pur essendo titolare del potere rappresentativo, ne abbia ecceduto i limiti, non impegna la sfera giuridica del preteso rappresentato, cioè della persona il cui nome è stato illegittimamente speso. Tuttavia si tratta di un contratto – non nullo e neppure annullabile – ma inefficace in assenza di ratifica (Sez. 2, 15 dicembre 1984, n. 6584; Sez. 1, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. 2, 11 ottobre 1999, n. 11396; Sez. 2, 7 febbraio 2008, n. 2860), e ciò in quanto il negozio stipulato, in rappresentanza di altri, da chi non aveva il relativo potere, è privo di ogni efficacia come tale, potendo acquistarla soltanto in seguito all’eventuale ratifica da parte dell’interessato (Sez. 2, 26 novembre 2001, n. 14944). Talvolta si afferma anche che l’inefficacia (temporanea) discende dal fatto che il contratto concluso dal falsus procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa o a formazione progressiva, un negozio in itinere o in stato di pendenza, destinato a perfezionarsi con la ratifica del dominus (Sez. 2, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. 2, 17 giugno 2010, n. 14618), in conseguenza della quale il regolamento diventa retroattivamente impegnativo anche per il dominus” (in tal senso si ritiene che “il contratto – medio tempore, cioè tra il momento della conclusione e quello della ratifica – è in stato di quiescenza” Cass. Sez. 1, 24 giugno 1969, n. 2267).

Mentre la giurisprudenza più risalente (Cass. n. 1928/1955) aveva reputato possibile che il terzo contraente inconsapevole dell’assenza di potere di rappresentanza in capo al procurator, potesse recedere unilateralmente dal contratto (ma trattasi di soluzione legata all’opinione della dottrina formatasi prima dell’entrata in vigore del vigente codice civile), la successiva giurisprudenza è invece pervenuta a diversa soluzione. A tal fine rileva l’elemento di novità rispetto al passato costituito dell’art. 1399 c.c., comma 3, il quale dispone che colui che ha contrattato come rappresentante senza avere i poteri ed il terzo contraente possono d’accordo sciogliere il contratto prima della ratifica.

Si è quindi opinato nel senso che un contratto è stato posto in essere in tutti i suoi elementi, benchè privo di efficacia, e che può essere rimosso solo a seguito di nuovo accordo tra il terzo ed il rappresentante (e ciò, secondo parte della dottrina, a tutela dell’opportunità del falsamente rappresentato di poter valutare se avvalersi o meno dell’affare concluso dal falsus procurator a suo nome).

E’ stato quindi sostenuto che il terzo contraente non ha alcuna possibilità di poter recedere unilateralmente dal contratto ormai concluso, potendo unicamente avvalersi della possibilità di porre in essere un contratto con il terzo al fine di sciogliere l’accordo concluso.

A far data da Cass. n. 220/1968, è stato quindi affermato che il negozio concluso dal rappresentante senza potere non è nullo, nè annullabile, ma soltanto inefficace, in quanto produrrà i suoi effetti se sopravverrà la ratifica da parte dell’interessato. Pertanto, il terzo contraente non può recedere unilateralmente dal contratto, se ha ignorato di stipulare con un rappresentante senza potere. La legge, infatti, non lascia alla discrezione di uno dei soggetti il negozio inefficace per difetto di rappresentanza, richiedendo espressamente per lo scioglimento il mutuo consenso, e, ove a questo non si pervenga, tutela il terzo contraente concedendogli la facoltà di invitare l’interessato a pronunciarsi sulla ratifica, in modo che possa cessare la situazione di incertezza determinata dall’attività del falsus procurator, o mediante la ratifica dell’interessato ovvero con il rifiuto, reale o presunto, della medesima (in senso conforme, Cass. n. 652/1980; Cass. n. 1341/1981; Cass. n. 2730/1995; Cass. n. 14944/2001).

Ne deriva che, pur a voler reputare che sia stato concluso un contratto, sebbene al momento privo di efficacia, non è dato discorrere di revoca della proposta, ma che, anche a voler qualificare il ripensamento della ricorrente in termini di recesso unilaterale, lo stesso non potrebbe avere spazio applicativo, attesa la necessità di un mutuo consenso con il falso rappresentante per poter addivenire allo scioglimento del contratto.

Ne deriva che, anche a voler per ipotesi ritenere che i B. non fossero dotati di valida procura per la conclusione dell’accordo per cui è causa, essendo ancora in vita il contratto concluso in data 28/11/2008, sebbene privo di efficacia, la ratifica ha in ogni caso assicurato la produzione degli effetti del contratto con efficacia ex tunc, essendo escluso che la ricorrente potesse unilateralmente liberarsi dal vincolo.

Quanto infine alla deduzione secondo cui l’impossibilità di poter fruire di un mutuo da parte della ricorrente al fine di far fronte agli impegni scaturenti dalla scrittura divisionale, determinerebbe l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, giustificando il recesso unilaterale ovvero la risoluzione del contratto, trattasi all’evidenza di questione nuova, e come tale inammissibile, in quanto non risulta essere stata trattata nella sentenza gravata nè la parte deduce ove, nelle fasi di merito, avesse specificamente invocato gli effetti della risoluzione del contratto (e ciò anche a voler soprassedere circa la possibilità di attribuire efficacia liberatoria dagli obblighi contrattuali, aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, alla mera difficoltà di accedere al credito bancario, trattandosi di obbligazione per definizione fungibile).

3. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, con attribuzione all’avvocato Claudio Iaconi dichiaratosene anticipatario.

4. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida per A.E. in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge, e per A.F. in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge, con attribuzione all’avvocato Claudio Iaconi, dichiaratosene anticipatario;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2020

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