Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24023 del 24/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 24/11/2016, (ud. 21/09/2016, dep. 24/11/2016), n.24023

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12284/2015 proposto da:

UNICREDIT S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona dei legali

rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DI RIPETTA 70, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LOTTI, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FABRIZIO DAVERIO,

SALVATORE FLORIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.U.L.M., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA

PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ROMEO RUSSO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2502/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 17/11/2014 R.G.N. 1986/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/09/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito l’Avvocato FLORIO SALVATORE;

udito l’Avvocato MATONTI ANTONIO per delega avvocato RUSSO ROMEO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

Con sentenza 17 novembre 2014, la Corte d’appello di Lecce rigettava l’appello proposto da Unicredit s.p.a. avverso la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato l’8 novembre 2011 al proprio dipendente L.U.L.M..

A motivo della decisione, la Corte territoriale condivideva l’ininfluenza, già ritenuta dal primo giudice, della condanna riportata dal predetto alla pena, applicata su richiesta, di tre anni di reclusione e di Euro 12.000,00 di multa per detenzione e spaccio di rilevante quantità di sostanze stupefacenti del tipo marijuana, ai fini della contestata (con raccomandata del 3 ottobre 2011) rottura irreversibile del rapporto fiduciario: non essendo risultato alcun collegamento concreto tra detta attività e quella lavorativa di addetto allo sportello, in ordine al suo (in)esatto adempimento.

Sicchè, essa riteneva l’insindacabilità del comportamento rigorosamente extralavorativo del dipendente, privo di alcun riferimento con l’organizzazione bancaria, nè con le sue procedure amministrative e contabili, così da escludere un pregiudizio morale per la società datrice.

Con atto notificato il 15 (20) maggio 2015, Unicredit s.p.a. ricorre per cassazione con due motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste il lavoratore con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, complesso e articolato, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 1, L. n. 300 del 1970, art. 18, artt. 112, 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l’erronea esclusione dell’integrazione della giusta causa di licenziamento dal comportamento extralavorativo tenuto dal proprio dipendente, di gravità tale da eccedere gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale, in quanto contrario alle norme dell’etica e del vivere civile comuni, pertanto ripugnante alla coscienza sociale.

Ed infatti, esso è consistito nella detenzione e nello spaccio di rilevante quantità di sostanze stupefacenti del tipo marijuana (gr. 1.340,81 suddivisi in due buste di plastica e da cui ricavabili n. 3.212 dosi medie: rinvenuti, al momento dell’arresto, con una bilancia da cucina recante ancora residui di marijuana e con un importo di Euro 23.100,00 in contanti), per cui L. è stato condannato alla pena, applicata su richiesta, di tre anni di reclusione e di Euro 12.000,00 di multa. Sicchè il fatto, accompagnato da grande clamore mediatico, è certamente idoneo, anche alla luce dei numerosi precedenti di legittimità richiamati, alla rottura irrimediabile del vincolo fiduciario tra le parti così da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, pure in riferimento alla rilevanza pubblica dell’attività creditizia, che esige la massima affidabilità di tutti i dipendenti (ed in particolare di coloro, come appunto L. in quanto addetto all’attività di sportello, a diretto contatto con la clientela).

Con il secondo, la ricorrente deduce omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quale in particolare il collegamento del licenziamento alla compromissione della futura attività lavorativa, con motivazione meramente apparente nei passaggi specificamente scrutinati. In via di premessa, il ricorso è palesemente ammissibile, per la piena soddisfazione del requisito previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, infondatamente contestata dal lavoratore (a pgg. 5 e 6 del controricorso), contenendo l’esposizione chiara ed esauriente dei fatti di causa. Da essa risultano le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamente erronea, compiuta dal giudice di merito (Cass. 3 febbraio 2015, n. 1926); nè esso è stato inammissibilmente redatto per assemblaggio, mediante la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali (Cass. 22 febbraio 2016, n. 3385; Cass. 30 ottobre 2015, n. 22185).

Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 1, L. n. 300 del 1970, art. 18, artt. 112, 115 e 116 c.p.c., per l’erronea esclusione della giusta causa di licenziamento nel comportamento extralavorativo tenuto dal dipendente della banca ricorrente, in quanto eccedente per gravità gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale, è fondato.

Corretta appare innanzi tutto la denuncia del vizio alla stregua di violazione di legge.

Ed infatti, la giusta causa, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge (allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo) configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette “clausole elastiche”) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama: sicchè, tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 24 marzo 2015, n. 5878; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 4 maggio 2005, n. 9266).

In particolare, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e specialmente dell’elemento fiduciario: dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498).

In specifico riferimento all’integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si deve limitare ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenere, come appunto nel caso di specie, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 24 marzo 2015, n. 5878; Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).

A questo riguardo, è noto come, secondo indirizzo ormai consolidato di questa Corte, il concetto di giusta causa non si limiti all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estenda anche a condotte extralavorative che, tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti (da ultimo: Cass. 18 agosto 2016, n. 17166). Infatti, anche condotte concernenti la vita privata del lavoratore possono in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, allorquando abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività. Parimenti, comportamenti extralavorativi imputabili al lavoratore possono colpire interessi del datore di lavoro, violando obblighi di protezione: il lavoratore è tenuto, infatti, non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (Cass. 19 gennaio 2015, n. 776; Cass. 31 luglio 2015, n. 16268). Nondimeno, è pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perchè idonei, per le concrete modalità con cui si manifestano, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (Cass. 18 settembre 2012, n. 15654): in particolare, quando siano contrari alle norme dell’etica comune e del comune vivere civile (Cass. 1 dicembre 2014, n. 25380).

Sicchè, come ancora recentemente ribadito (Cass. 5 luglio 2016, n. 13676), la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare: da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale in concreto da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. 18 settembre 2012, n. 15654; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144). Inoltre, la sussistenza di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonchè dall’intensità dell’elemento intenzionale), sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta: per la quale ultima rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (Cass. 16 ottobre 2015, n. 21017; Cass. 4 marzo 2013, n. 5280; Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).

E tali principi hanno trovato puntuale e recente applicazione segnatamente in ipotesi di detenzione a fine di spaccio, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti (Cass. 18 agosto 2016, n. 17166; Cass. 6 agosto 2015, n. 16524; Cass. 31 luglio 2015, n. 16268): come appunto nel caso di specie.

In relazione ad esso, la Corte territoriale ha ritenuto che la banca datrice abbia disatteso l’onere, indubbiamente a suo carico, di “allegazione e dimostrazione delle fattuali ricadute… del fatto illecito del dipendente”, che “non abbia connessioni immediate col rapporto di lavoro”, ma di cui non di meno si “deduca l’idoneità a minarne egualmente le fondamenta”, “sulla (propria) aspettativa circa l’esatto adempimento dell’obbligazione lavorativa dedotta in contratto” (così al secondo capoverso di pg. 3 della sentenza).

Ebbene, essa non ha valutato come, invece, la specifica illustrazione del fatto in sè (detenzione e spaccio di rilevante quantità di sostanze stupefacenti del tipo marijuana, pari a gr. 1.340,81 suddivisi in due buste di plastica e da cui ricavabili n. 3.212 dosi medie: rinvenuti, al momento dell’arresto, con una bilancia da cucina recante ancora residui di marijuana e con un importo di Euro 23.100,00 in contanti) soddisfi pienamente l’onere datoriale di allegazione della sua incidenza irrimediabilmente lesiva del rapporto di fiducia lavorativo: in quanto di gravità tale, anche per l’evidente sintomaticità di un collegamento non occasionale con ambienti malavitosi in grado di consegnare quantità tanto ingenti di stupefacente confidando nella puntualità di collocazione sul mercato e di pagamento, da connotare la figura morale del lavoratore (Cass. 9 ottobre 2015, n. 20319), tanto più inserito in un ufficio a contatto con utenti (Cass. 23 agosto 2016, n. 17260), per giunta di servizi bancari.

E ad un siffatto onere di allegazione Unicredit s.p.a. ha adempiuto attraverso la puntuale deduzione, anche nei richiamati scritti difensivi (a pgg. da 33 a 38 del ricorso), della ricaduta negativa del fatto illecito (per cui il dipendente ha subito una pena, applicata su sua richiesta, di tre anni di reclusione e di Euro 12.000,00 di multa) sulle sue stesse professionalità e affidabilità, specie in considerazione della particolare natura del settore (creditizio), delle mansioni (di “operatore di sportello a contatto col pubblico, in un’attività di rilevanza pubblicistica che per sua natura richiede la massima affidabilità di tutti i dipendenti, anche per escludere ogni ipotesi di remota contiguità con la malavita ovvero con chi è abituato a delinquere”: così all’ultimo capoverso di pg. 45 del ricorso) nel contesto civile e sociale di loro disimpegno; e ciò secondo una corretta impostazione dei rapporti tra i consociati alla luce del principio di legalità.

Dalle superiori argomentazioni, assorbenti l’esame del secondo motivo (omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e motivazione apparente), discende allora coerente l’accoglimento del ricorso, con la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bari, sulla base del seguente principio di diritto:

“L’onere di allegazione dell’incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro è assolto dal datore con la specifica deduzione del fatto in sè, quando abbia un riflesso, anche soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, di gravità tale, per contrarietà alle norme dell’etica e del vivere civile comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con utenti”.

PQM

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bari.

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2016

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