Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24021 del 24/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 24/11/2016, (ud. 07/07/2016, dep. 24/11/2016), n.24021

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4527-2014 proposto da:

R.P. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA GIUSEPPE PALUMBO 3, presso lo studio dell’avvocato ORFEO CELATA,

che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ACEA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo

studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MAURIZIO SANTORI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

nonchè da: ricorso successivo senza n. R.G.:

ACEA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo

studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MAURIZIO SANTORI, giusta delega in atti;

– ricorrente successivo –

contro

R.P. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA GIUSEPPE PALUMBO 3, presso lo studio dell’avvocato ORFEO CELATA,

che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso successivo –

avverso la sentenza n. 8198/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/02/2013, R.G. N. 6513/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/07/2016 dal Consigliere Dott. NEGRI DELLA TORRE PAOLO;

udito l’Avvocato ORFEO CELATA;

udito l’Avvocato DANIELE MARIANI per delega MAURIZIO SANTORI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso

principale, rigetto del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 8198/2012, depositata il 26 febbraio 2013, la Corte di appello di Roma, pronunciando sul gravame principale di R.P. e incidentale di ACEA S.p.A., dichiarava, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Roma, la illegittimità del licenziamento collettivo comunicato al lavoratore con lettera in data 30/6/2004; dichiarava invece legittimo il licenziamento intimato, con lettera in data 25/6/2005, per superamento del periodo di comporto.

La Corte rilevava, circa il primo licenziamento, l’insufficienza della comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, in quanto priva dell’elenco completo di tutti i dipendenti dell’azienda, essendovi indicati solo quelli licenziati, e altresì in quanto priva della puntuale indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta; con riferimento al secondo, rilevava come il lavoratore, pur avendone l’onere, non avesse provato che l’assenza era stata dovuta a malattia per causa di servizio, con conseguente esclusione del relativo periodo dal computo del comporto, ai sensi dell’art. 32 CCNL di settore, non essendo a tal fine sufficiente il deposito della sola documentazione INAIL di cui ai documenti 57 e 58 del fascicolo di primo grado, dalla quale, in ogni caso, non era dato desumere in alcun modo il periodo temporale preso in esame dall’Istituto, così rendendo impossibile stabilire con certezza che lo stato di malattia fosse per un periodo almeno in parte sovrapponibile a quello indicato nella lettera di recesso.

Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso sia il lavoratore che l’azienda; entrambi hanno resistito con controricorso.

ACEA ha depositato altresì memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con unico motivo, deducendo il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, il R. censura la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale, nell’escludere che egli avesse dato prova del “titolo” dell’assenza, e cioè della riconducibilità di essa ad una malattia contratta a causa di servizio, completamente trascurato di considerare i documenti n. 3 e n. 4 del fascicolo di primo grado, costituiti dal certificato della U.S.L. Roma (OMISSIS) rilasciato il 10/3/2005, il quale avrebbe invece comprovato la natura professionale della malattia, e dalla relativa comunicazione al datore di lavoro.

Con il medesimo motivo il ricorrente si duole, inoltre, che la Corte, peraltro sulla base di una motivazione illogica e insufficiente, abbia ritenuto priva di valenza probatoria la documentazione INAIL prodotta, sul rilievo che dalla stessa non era dato stabilire il periodo preso a riferimento dall’Istituto, così non consentendo di accertare che lo stato di malattia fosse almeno in parte sovrapponibile alla durata complessiva delle assenze indicata nella lettera aziendale di recesso, quando, al contrario, il periodo temporale di indennizzo si sarebbe potuto evincere dalla data (7/4/2005) a margine del numero di identificazione della “pratica di infortunio o malattia professionale” ((OMISSIS)).

Il motivo non può trovare accoglimento, in relazione ad entrambi i profili in cui esso si articola.

Come precisato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054, l’art. 360 c.p.c., n. 5, nella riformulazione conseguente alla novella legislativa del 2012, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sìa stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Nella specie, risulta invece che il fatto della dipendenza causale di parte delle assenze del lavoratore da una malattia contratta a causa di servizio, quale presupposto della non computabilità di esse ai fini del raggiungimento dei limiti del periodo di comporto, ai sensi della contrattazione collettiva, abbia formato oggetto di indubbio e specifico esame nella sentenza impugnata, la quale ha rilevato come l’appellante principale non avesse assolto il relativo onere probatorio, che pure gli incombeva; mentre il fatto che il lavoratore avesse portato a conoscenza dell’azienda il certificato della U.S.L. in data 10/3/2005 avrebbe richiesto, per poter essere considerato decisivo, la dimostrazione che il documento in oggetto era tale da attestare la sussistenza del nesso causale tra attività lavorativa ed evento morboso, nonchè la puntuale ottemperanza agli oneri formali di deduzione richiesti dalla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come precisati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata.

Quanto, poi, al secondo e distinto profilo articolato nell’ambito del motivo in esame, è sufficiente rilevare come esso, attraverso la doglianza di un percorso motivazionale che sarebbe illogico e insufficiente, muove scopertamente una critica di incongruità al ragionamento decisorio seguito dal giudice di secondo grado, che risulta ormai non più rientrante nel perimetro normativo del novellato vizio di motivazione.

Il ricorso di ACEA S.p.A. è affidato a due motivi.

Con il primo la società, deducendo la nullità della sentenza e del procedimento (art. 360 n. 4) per violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c., censura la sentenza impugnata per avere la Corte, con motivazione insufficiente e comunque illogica, assertivamente ritenuto, in contrasto con la sollevata eccezione di inammissibilità del gravame, che il ricorso in appello del lavoratore avesse formulato esplicite censure alle statuizioni della sentenza di primo grado e all’iter argomentativo della stessa, così da sottrarsi ai rilievi di difetto di specificità e di mera riproduzione delle ragioni svolte con l’atto introduttivo del giudizio.

Con il secondo motivo la società, deducendo la violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2 e 9, (art. 360 n. 3), censura la sentenza impugnata per avere, in primo luogo, la Corte di appello fondato il proprio percorso argomentativo su un presupposto erroneo e cioè che il primo giudice, laddove aveva fatto riferimento alla “comunicazione di cui all’art. 4”, avesse inteso richiamare quella di apertura della procedura di mobilità e non invece quella di chiusura; critica, inoltre, la sentenza di secondo grado per avere erroneamente considerato che anche la comunicazione di cui al comma 9 dell’art. 4 fosse strumento di controllo attribuito alle organizzazioni sindacali e ai dipendenti delle imprese per consentire ai medesimi di verificare, a tutela dei rispettivi interessi, la regolarità e legittimità dell’iter procedurale, mentre essa – secondo quanto già rilevato dal Tribunale – era volta unicamente a consentire l’iscrizione dei lavoratori nelle liste di mobilità, con la conseguenza che, diversamente da quanto osservato dalla Corte, la norma non imporrebbe al datore di lavoro alcun obbligo di specificare negli elenchi, oltre a quelli dei lavoratori licenziati, anche i nominativi dei dipendenti rimasti in forza. La società ha, quindi, sostenuto che la comunicazione, di cui al comma 9 dell’art. 4, non fa parte – a differenza degli adempimenti di cui ai commi 6, 7 e 8 del medesimo articolo – delle procedure la cui osservanza, a norma della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, comporta l’inefficacia dei licenziamenti e che, pertanto, anche se si dovesse ritenere violata la disciplina della comunicazione di chiusura, sarebbe esperibile non l’azione di accertamento della illegittimità del recesso ma solo un’azione di contenuto meramente risarcitorio.

Il primo motivo è inammissibile, atteso che, pur denunciando un error in procedendo, si risolve in una diffusa censura di carenza e di genericità della motivazione con cui la Corte di appello ha disatteso l’eccezione di inammissibilità del gravame; e comunque infondato, posto che – così come esattamente ritenuto nella sentenza impugnata – il ricorso in appello è risultato contenere “espresse censure alle statuizioni della gravata sentenza ed all’iter argomentativo della stessa” (cfr. pag. 5), riassumibili nei punti già sintetizzati dalla società in sede di esposizione sommaria dei fatti della causa ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 (cfr. ricorso, pag. 7), essendo necessario e sufficiente, ai fini della specificità dell’appello, che risultino chiaramente delineate le ragioni in fatto e in diritto su cui esso si fonda in relazione al contenuto della sentenza gravata e ai capi di essa, di cui si chiede la riforma, così da consentire, pur senza ricorso a modi o schemi espositivi improntati a speciale rigore formale, l’esatta e certa delimitazione delle censure proposte.

Il secondo motivo è infondato.

Al riguardo si deve anzitutto premettere che la Corte territoriale non è incorsa in alcun fraintendimento della pronuncia di primo grado, avendo osservato che “se da un lato l’unico criterio adottato appare coerente e logico, come per altro già ritenuto dal primo giudice, dall’altro al Tribunale è sfuggita la reale portata della censura del R. che ha giustamente evidenziato l’insufficienza della comunicazione in questione priva dell’elenco completo di tutti i dipendenti dell’azienda (sono indicati solo i dipendenti licenziati) e priva altresì della puntuale indicazione delle modalità di applicazione del suddetto criterio” (cfr. sentenza, pag. 7, ultimo capoverso) e così dimostrato con tutta evidenza di avere avuto presente proprio la comunicazione di cui al della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, cui si era riferito il primo giudice.

Ciò posto, si osserva poi come la sentenza impugnata risulti conforme al consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale “nella materia dei licenziamenti regolati dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, finalizzata alla tutela, oltre che degli interessi pubblici e collettivi, soprattutto degli interessi dei singoli lavoratori coinvolti nella procedura, la sanzione dell’inefficacia del licenziamento, ai sensi dell’art. 5, comma 3, ricorre anche in caso di violazione della norma di cui all’art. 4, comma 9, che impone al datore di lavoro di dare comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali, delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; tale inefficacia può essere fatta valere da ciascun lavoratore interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni previsto dal citato art. 5, mentre al relativo vizio procedurale può essere dato rimedio mediante il compimento dell’atto mancante o la rinnovazione dell’atto viziato” (cfr. Sezioni Unite, 11 maggio 2000 n. 302 e numerose successive conformi).

Si richiama altresì Cass. n. 12781/2003, la quale, in un caso analogo al presente, dopo avere ribadito che “nella materia dei licenziamenti collettivi regolati dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, finalizzata alla tutela, oltre che degli interessi pubblici e collettivi, soprattutto dei singoli lavoratori coinvolti nella procedura, ai sensi dell’art. 5, comma 3, la sanzione dell’inefficacia del licenziamento ricorre anche in caso di violazione del comma 9 dell’art. 4, che impone al datore di lavoro di dare comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali, delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare”, ha precisato che “tale sanzione si applica anche nel caso in cui, in considerazione della inidoneità del criterio adottato e comunicato, non sia possibile individuare le ragioni che hanno indotto al licenziamento dell’uno o dell’altro lavoratore” (nella fattispecie considerata il criterio della prossimità al pensionamento, individuato con le organizzazioni sindacali come unico criterio di scelta dei lavoratori, non consentiva in concreto, stante la pluralità di dipendenti prossimi al pensionamento, di comprendere le ragioni per le quali era stato licenziato un lavoratore piuttosto che un altro; la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto violato il dovere di comunicazione del datore di lavoro).

Ne consegue che anche il ricorso principale di ACEA S.p.A., come quello del lavoratore, deve essere respinto.

La soccombenza reciproca delle parti giustifica la compensazione per intero delle spese del presente giudizio.

PQM

La Corte respinge entrambi i ricorsi; dichiara interamente compensate le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di entrambi i ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 7 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2016

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