Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24016 del 30/10/2020

Cassazione civile sez. III, 30/10/2020, (ud. 23/07/2020, dep. 30/10/2020), n.24016

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30135/2019 proposto da:

O.R., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

MASSIMO GOTI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 3006/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 05/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/07/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. O.R., cittadino (OMISSIS), chiese alla competente Commissione Territoriale il riconoscimento della protezione internazionale, domandando:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6.

A fondamento della sua domanda dedusse di essere fuggito dalla Nigeria per sottrarsi al rischio di essere ucciso da parte degli aderenti al “cult”, in quanto sottrattosi da una cerimonia di iniziazione. Al cultismo era appartenuto anche il fratello successivamente ucciso.

La Commissione Territoriale rigettò l’istanza. Avverso tale provvedimento O.R. propose opposizione ex art. 702 bis c.p.c., dinanzi al Tribunale di Milano, che con ordinanza del 28 giugno 2018 rigettò il reclamo.

2. Avverso tale provvedimento O. proponeva appello avanti la Corte di Milano, censurando l’ordinanza di cui chiedeva la sospensione ed insistendo per la concessione della protezione sussidiaria o quella umanitaria.

La Corte d’appello aveva ritenuto:

a) la domanda inammissibile in quanto il racconto della parte era assolutamente generico circa i fatti narrati. La richiesta di protezione internazionale si fondava su una generica situazione di instabilità della Nigeria quale Paese d’origine;

b) la domanda era in ogni caso infondata perchè la Nigeria non risultava essere, allo stato, un Paese caratterizzato da violenza indiscriminata, anzi la zona da cui proveniva l’appellante risultava essere sicura.

In mancanza di circostanze fornite dalla parte, circa luogo, tempo e persone, ritenuta la storia inverosimile, il giudice non poteva esercitare i suoi poteri di ufficio che devono integrare e non sostituire l’onere probatorio, sia pure affievolito, che grava sul ricorrente.

3. La sentenza è stata impugnata per cassazione con ricorso fondato su due motivi.

Il Ministero si è difeso tardivamente.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4.1. Col primo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e art. 14, lett. a) e c) – omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione alla mancata valutazione della situazione esistente in Nigeria – omessa attività istruttoria in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, punto 5) e omesso riconoscimento del principio di protezione sussidiaria”. La Corte negando la protezione sussidiaria avrebbe violato il dovere di cooperazione che impone al Giudice di accertare la situazione reale del paese di provenienza, mediante l’esercizio di poteri/doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo tale che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate.

4.2. Col secondo motivo lamenta la “violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in relazione alla omessa motivazione per quanto riguarda la sussistenza dei presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, punto 5)”.

La Corte non avrebbe valutato le specifiche ragioni del richiedete per il riconoscimento della protezione umanitaria che, in virtù della sua natura residuale, doveva essere valutata specificatamente la sfera personale ed umana del ricorrente.

I motivi congiuntamente esaminati sono fondati.

In tema protezione internazionale, il dovere di cooperazione istruttoria del giudice, che è disancorato dal principio dispositivo e libero da preclusioni e impedimenti processuali, presuppone l’assolvimento da parte del richiedente dell’onere di allegazione dei fatti costitutivi della sua personale esposizione a rischio, a seguito del quale opera il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, e in quali limiti, nel Paese di origine del richiedente si verifichino fenomeni tali da giustificare l’applicazione della misura, mediante l’assunzione di informazioni specifiche, attendibili e aggiornate, non risalenti rispetto al tempo della decisione, che il giudice deve riportare nel contesto della motivazione, non potendosi considerare fatti di comune e corrente conoscenza quelli che vengono via via ad accadere nei Paesi estranei alla Comunità Europea (Cass. 11096/2019).

Pertanto sulla base di tali principi il giudice del merito deve verificare la situazione attuale del Paese attraverso delle Coi aggiornate. Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha errato perchè non ha indicato l’anno di pubblicazione delle Coi di riferimento per verificarne l’attualità (cfr. sentenza impugnata, pag. 5 ultimo capoverso).

Tale questione impedisce già di per sè sola considerata, di valutare i presupposti del riconoscimento della protezione umanitaria.

Posta tale premessa, deve ancora osservarsi – in applicazioni di principi di diritto già affermati da questa Corte (Cass.7546/2020) – sul piano della struttura del giudizio di protezione umanitaria che:

a) alla luce di Cass. S.U. n. 29459 del 2019, i presupposti utili per ottenere la protezione umanitaria devono identificarsi autonomamente rispetto a quelli previsti per le due protezioni maggiori.

Le due valutazioni non sono sovrapponibili. Non si può trascurare, difatti, la necessità di collegare la norma che prevede la protezione umanitaria ai diritti fondamentali che l’alimentano. Gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento ai valori costituzionali e sovranazionali; sicchè, come già puntualizzato da questa Corte ancor prima della pronuncia a sezioni unite, l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (tra le altre, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096).

Come ricordato dalle Sezioni unite, le relative basi normative “non sono affatto fragili”, ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione. In conformità all’approccio scelto dall’orientamento della Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, seguita, tra varie, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19, nonchè, a quanto consta, dalla preponderante giurisprudenza di merito) e condiviso dalle Sezioni Unite, occorre, pertanto, accordare rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.

b) la valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo non deve essere rivolta alla capillare ricerca delle eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione della sua personale situazione, volta che il procedimento giurisdizionale di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale assenza di contraddittorio (stante l’assenza dell’organo ministeriale), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte.

Funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle tre forme di asilo, onde il compito del giudice chiamato alla tutela di diritti fondamentali della persona appare funzionale – anche a prescindere da quanto accaduto dinanzi alla Commissione territoriale – alla complessiva raccolta, accurata e qualitativa, delle predette informazioni, nel corso della quale dissonanze e incongruenze, di per se non decisive ai fini del giudizio finale, vanno comunicate al richiedente, che deve avere l’opportunità di spiegare le ragioni delle eventuali contraddizioni rilevate dall’organo giudicante.

Nel settore della protezione internazionale devono riaffermarsi, ratione materiae, i principi affermati da questo stesso giudice di legittimità (Cass. ss.uu. 10531/2013) sul tema della giustizia della decisione, sottolineandosi come la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato (tematica “classica” di diritto processuale) sia posta in funzione di una concezione del processo che semplicisticamente è stata definita come pubblicistica, ma che, andando a fondo, fa leva sul valore della giustizia della decisione, che deve ritenersi valore primario del processo (valori di cui quei procedimenti sono intrisi e che riguardano le persone, la loro storia, i diritti fondamentali, garantiti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali).

c) Quanto all’attendibilità complessiva del richiedente asilo, la valutazione dell’organo giudicante non può risolversi nell’adozione di formule stereotipate in spregio all’insegnamento delle Corti sovranazionali, predicative della legittimità dell’applicazione del principio del beneficio del dubbio. Il D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 3, infatti, dispone che: “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”. Come opportunamente ricordato dal rapporto Beyond Proof Credibility Assessment in EU Asylum Systems dell’UNHCR, “nonostante gli sforzi che il richiedente (ed eventualmente anche la stessa autorità accertante) possa fare per cercare di raccogliere le prove dei fatti affermati, può darsi che permangano tuttavia dubbi relativamente a tutte o ad alcune delle sue affermazioni” e che, talvolta, “la stessa vita o l’incolumità del richiedente potrebbero essere messe a rischio ove la protezione internazionale gli fosse ingiustamente negata”. Tali principi risultano, inoltre, significativamente suffragati dal dictum della stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di onere della prova, secondo cui “stante la particolare situazione in cui si trovano i richiedenti asilo, sarà frequentemente necessario concedere loro il beneficio del dubbio quando si vada a considerare la credibilità delle loro dichiarazioni e dei documenti presentati a supporto” (cfr.: CEDU, RC. v. Svezia, 2010, paragrafo 50; CEDU, N. v. Svezia, 2010, paragrafo 53; CEDU, A.A. v. Svizzera, 2014, paragrafo 59).

Nel caso di specie il giudizio comparativo sulla vulnerabilità del ricorrente deve essere condotto alla luce dei principi poc’anzi indicati.

5. Pertanto la Corte accoglie i motivi di ricorso per quanto di ragione, cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione.

P.Q.M.

la Corte accoglie i motivi di ricorso per quanto di ragione, cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2020

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