Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24013 del 12/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 12/10/2017, (ud. 04/05/2017, dep.12/10/2017),  n. 24013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18835-2014 proposto da:

IREN EMILIA S.P.A. C.F. (OMISSIS), quale incorporante della ENIA

PIACENZA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 271, presso lo

studio dell’avvocato COSTANTINO TESSAROLO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale

procuratore speciale della CARTOLARIZZAZIONE CREDITI INPS S.C.C.I.

S.P.A. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE

BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto,

rappresentato e difeso dagli Avvocati ANTONINO SGROI, LELIO

MARITATO, CARLDA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

nonchè contro

EQUITALIA CENTRO S.P.A., – AGENTE RISCOSSIONE REGIONE TOSCANA, EMILIA

ROMAGNA, SARDEGNA, ABRUZZO, UMBRIA, MARCHE, succeduta EQUITALIA

EMILIA NORD S.P.A., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 29/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 14/02/2014 R.G.N. 401/12;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/05/2017 dal Consigliere Dott. CAVALLARO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato TESSAROLO CONSTANTINO;

udito l’Avvocato D’ALOISIO CARLA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 14.2.2014, la Corte d’appello di Bologna confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato l’opposizione proposta da ENIA Piacenza s.r.l. avverso la cartella esattoriale con cui le era stato richiesto di pagare all’INPS somme dovute a titolo di contributi dovuti per cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria nonchè per mobilità dei dipendenti con qualifiche di operai, impiegati e quadri, oltre accessori.

Contro tale statuizione ricorre IREN Emilia s.p.a., quale incorporante di ENIA Piacenza s.r.l., deducendo tre motivi di censura, illustrati con memoria. L’INPS, anche quale mandatario di S.C.C.I. s.p.a., resiste con controricorso, parimenti illustrato con memoria. La società concessionaria dei servizi di riscossione è rimasta intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo e il secondo motivo di censura, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.I.C.P.S. n. 869 del 1947, art. 3, comma 1, come sostituito dalla L. n. 270 del 1988, art. 4, e della L. n. 223 del 1991, art. 16, commi 1 e 2, per avere la Corte territoriale ritenuto che la società opponente, avendo natura di società per azioni a prevalente capitale pubblico, non potesse essere esentata dal pagamento dei contributi dovuti per cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria nonchè per mobilità dei dipendenti con qualifiche di operai, impiegati e quadri, come invece le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e dello Stato.

Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta violazione della L. n 388 del 2000, art. 116, per avere la Corte di merito ritenuto l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della riduzione delle sanzioni ivi disciplinata in considerazione del fatto che già all’epoca della proposizione del ricorso la giurisprudenza di legittimità era attestata nel senso della debenza dei contributi oggetto del giudizio.

I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono infondati.

Giudicando su fattispecie affatto sovrapponibile alla presente, questa Corte ha infatti avuto modo di ribadire che, anche successivamente all’entrata in vigore della L. n. 448 del 2001, art. 35, del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 3, comma 28, e del D.L. n. 112 del 2008, art. 20, comma 2 (conv. con L. n. 133 del 2008), le società per azioni a prevalente capitale pubblico aventi ad oggetto l’esercizio di attività industriali sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l’esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata, finalizzate all’erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la mera partecipazione pur maggioritaria da parte dell’ente pubblico (Cass. nn. 20818 e 20819 del 2013).

Resta da aggiungere che le suesposte conclusioni non possono essere scalfite nè dal D.Lgs. n. 148 del 2015, art. 10, il quale – per quanto qui interessa – ha espressamente previsto l’assoggettamento alla cassa integrazione (e alla relativa contribuzione) delle imprese industriali aventi ad oggetto la “produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas”, dal momento che la sua natura innovativa rispetto al quadro ordinamentale già esistente è già stata espressamente disconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. in tal senso Cass. nn. 9816 del 2016, 26016 e 26202 del 2015), nè a fortiori dalla L. n. 208 del 2015, art. 1,comma 309, il quale, nel far salvo dal novero delle abrogazioni previste dal D.Lgs. n. 148 del 2015, art. 46, D.I.C.P.S. n. 869 del 1947, art. 3, (a norma del quale “sono escluse dall’applicazione delle norme sulla integrazione dei guadagni degli operai dell’industria (…) le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e dello Stato”), ha semmai confermato la voluntas legis di escludere dall’area di operatività delle disposizioni concernenti l’integrazione salariale soltanto quei soggetti che possano qualificarsi come “imprese industriali dello Stato o di altri enti pubblici”, tra le quali, per le ragioni anzidette, non possono figurare le imprese gestite in forma di società a partecipazione pubblica (così Cass. nn. 7332 e 8704 del 2017, dove il richiamo a Cass. S.U. nn. 26283 del 2013 e 5491 del 2014).

E’ invece inammissibile il terzo motivo.

Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione della norma recata da una disposizione di legge da parte del provvedimento impugnato, riconducibile o ad un’erronea interpretazione della medesima ovvero nell’erronea sussunzione del fatto così come accertato entro di essa, e non va confuso con l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura in sede di legittimità, che era prima possibile sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. fra le più recenti Cass. nn. 15499 del 2004, 18782 del 2005, 5076 e 22348 del 2007, 7394 del 2010, 8315 del 2013), deve adesso considerarsi ammissibile nei più ristretti limiti della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale risultante dalla modifica apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, (conv. con L. n. 134 del 2012).

Ciò posto, è agevole rilevare che la censura proposta da parte ricorrente incorre precisamente nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulata con riferimento a una presunta violazione o falsa applicazione della L. n. 388 del 2000, art. 116, concerne in realtà la motivazione addotta dalla Corte di merito a sostegno del giudizio relativo alla (non) ricorrenza in concreto dei presupposti di fatto necessari per la sua applicazione, che si pone invece sul diverso piano del giudizio di fatto demandato al giudice di merito. E poichè D.L. n. 83 del 2012, cit., art. 54, ha reso denunciabile per cassazione solo l’anomalia motivazionale attinente all’esistenza della motivazione in sè, a prescindere cioè dal confronto con le risultanze processuali (Cass. S.U. n. 8053 del 2014), la doglianza va considerata radicalmente inammissibile.

Il ricorso, conclusivamente, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in favore dell’INPS come da dispositivo. Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono inoltre i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2017

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