Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24005 del 30/10/2020

Cassazione civile sez. III, 30/10/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 30/10/2020), n.24005

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29847/2019 proposto da:

N.A., domiciliate ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

MARCO ESPOSITO;

– ricorrente –

e contro

PROCURATORE REPUBBLICA TRIBUNALE ROMA;

– intimati –

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso. AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– resistenti –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 17/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/07/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. N.A., cittadino della (OMISSIS), chiese alla competente commissione territoriale il riconoscimento della protezione internazionale, domandando:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. A fondamento della sua istanza il richiedente dedusse di provenire dallo Stato di Lagos, dove per lavoro montava finestre e porte. Raccontò di esser andato a casa di un poliziotto per montare una porta ma, una volta entrato, trovò la moglie del cliente la quale lo aggredì buttandolo sul letto per avere dei rapporti sessuali. In quel momento entrò il marito della donna, il quale accusò il richiedente di molestie. Per questo motivo decise di scappare, temendo di esser ucciso o messo in prigione dal poliziotto.

La Commissione Territoriale rigettò l’istanza.

Avverso tale provvedimento N.A. propose ricorso D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, ex art. 35 bis, dinanzi il Tribunale di Roma, che con decreto n. 15846 depositato e comunicato il 17 giugno 2019 rigettava il reclamo.

Il Tribunale riteneva che:

a) il racconto del richiedente non fosse credibile. Infatti, il ricorrente aveva ammesso di essere a conoscenza dell’imminente rientro del poliziotto in casa, potendo dunque reagire all’aggressione della moglie. Inoltre, dinanzi il Tribunale, il richiedente dichiarava di non poter tornare nel proprio Paese a causa della nota situazione imputabile a (OMISSIS) e perchè non aveva più una attività lavorativa;

b) la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato fosse infondata, ritenendo il racconto del richiedente non integrante alcuno dei presupposti per tale riconoscimento;

b) la domanda di protezione sussidiaria fosse infondata, provenendo il richiedente da una zona della Nigeria esente da violenza indiscriminata;

d) la domanda di protezione umanitaria fosse infondata, non avendo l’istante allegato nè provato alcuna circostanza di fatto, diversa da quelle poste a fondamento delle domande di protezione “maggiore”, di per sè dimostrativa d’una situazione di vulnerabilità.

3. Il decreto è stata impugnato per cassazione da N.A., con ricorso fondato su un unico motivo.

Il Ministero dell’Interno non presenta difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. Con un unico motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), la “violazione e/o falsa applicazione per violazione di legge, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, art. 14, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione rispettivamente alla richiesta di protezione internazionale e della richiesta di protezione sussidiaria; nonchè del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per non aver valutato l’esistenza di gravi motivi individuali di vulnerabilità, in relazione alla richiesta subordinata di protezione umanitaria.

Lamenta poi, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, la manifesta illogicità e mancanza della motivazione, che “si è concretizzata nell’omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio, alla base della valutazione di non credibilità del racconto e al conseguente diniego di tutte le forme di protezione richieste”.

Secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe dovuto considerare credibile il racconto del richiedente e ritenere sussistente i presupposti per concedere la protezione sussidiaria, correndo il richiedente un rischio serio in caso di rimpatrio, tenendo conto della corruzione presente in Nigeria tra le autorità di polizia. Riguardo il riconoscimento della protezione umanitaria, il Tribunale avrebbe errato omettendo di compiere un giudizio comparativo tra integrazione raggiunta e situazione di vulnerabilità.

5. Il motivo è inammissibile.

Innanzitutto il motivo, quanto alla censura sulla negazione della credibilità per la sola protezione sussidiaria, non solo si risolve in una sollecitazione al riesame della quaestio facti, ma prima ancora si connota per considerare tutta la motivazione resa dal decreto. Nell’individuare il fatto omesso fa riferimento ad una circostanza (mentre stava lavorando vicino la finestra, la signora si era aggrappata alle sue spalle e lo ha fatto cadere sul letto cercando di avere un rapporto sessuale con lui) non decisiva: il tribunale ha detto che poteva reagire al comportamento della donna e, dunque, la considerazione del fatto che essa si era aggrappata alle sue spalle e lo aveva fatto cadere sul letto risulta irrilevante.

Quanto alla seconda censura, essendo basata “sulla minaccia alla vita, alla quale le autorità della Nigeria non sono in grado porre un rimedio” e, dunque, nella sostanza sulla credibilità del racconto, una volta consolidatasi la valutazione negativa in tal senso per effetto della sorte della prima censura, è palese – ancorchè sia stata singolarmente proposta in via subordinata – il suo assorbimento.

E comunque il Tribunale ha ritenuto il racconto del richiedente non credibile, rispettando i principi enunciati da questa Corte in ordine ai criteri di valutazione della credibilità del richiedente enunciati nella sentenza n. 8819 del 2020, in cui si richiede una valutazione complessiva della vicenda. Il giudice di merito ha anche adeguatamente motivato l’inattendibilità del racconto, ritenendo insussistenti i presupposti per il riconoscimento delle forme di protezioni maggiori.

Alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 29459 del 2019, i presupposti per ottenere la protezione umanitaria sono autonomi rispetto a quelli previsti per le forme di protezione maggiori e le valutazioni non sono sovrapponibili. E dunque necessario accordare un rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione raggiunto nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale. L’integrazione non è elemento da solo sufficiente ai fini del riconoscimento di tale forma di protezione, così come affermato dalle Sezioni Unite e prima nella sentenza 4455 del 208, ma è un elemento che deve esser valutato. Nel caso di specie il Tribunale ha negato la protezione umanitaria sulla base dell’assenza di allegazioni relative alla condizioni di vulnerabilità. E secondo Cass. 4455/2018 il dovere di cooperazione istruttoria del giudice non può spingersi fino a colmare il difetto di allegazione da parte del ricorrente.

6. Non è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, attesa la indefensio della parte pubblica.

6.1. L’inammissibilità del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), a condizione che esso sia dovuto: condizione che non spetta a questa Corte stabilire. La suddetta norma, infatti, impone all’organo giudicante il compito unicamente di rilevare dal punto di vista oggettivo che l’impugnazione ha avuto un esito infruttuoso per chi l’ha proposta.

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2020

 

 

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