Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24005 del 23/10/2013


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 24005 Anno 2013
Presidente: PIVETTI MARCO
Relatore: VALITUTTI ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 22364-2007 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente 2012
2426

contro

SOLVAY SA in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAllA
D’ARACOELI l, presso lo studio dell’avvocato MAISTO
GUGLIELMO, che lo rappresenta e difende giusta delega

Data pubblicazione: 23/10/2013

in calce;

controricorrente

avverso la sentenza n. 117/2005 della
COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di LIVORNO, depositata il
20/03/2007;

udienza del 11/12/2012 dal Consigliere Dott. ANTONIO
VALITUTTI;
udito per il controricorrente l’Avvocato CERRATO,
delega Avvocato MAISTO, che ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. TOMMASO BASILE, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

PREMESSO IN FATTO.
1. Con sentenza n. 117/14/05, depositata il 20.3.07, la
Commissione Tributaria Regionale della Toscana rigettava
l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio
di Livorno avvetso la decisione di primo grado, con la
quale era stato accolto il ricorso proposto dalla Solvay
s.a. (societe anonyme), con sede principale in Belgio
((Bruxelles) e sede secondaria in Italia (Rosignano Marittimo), nei confronti dell’avviso di accertamento con
il quale era stata rettificata la dichiarazione della
contribuente ed accertata una maggiore IRPEG ed una maggiore ILOR, per l’anno di imposta 1997.
2. La CTR riteneva, invero, che la determinazione del valore normale dei beni ceduti dalla Solvay Italia alla casa madre belga Solvay s.a. e ad altre società estere collegate si sarebbe dovuto determinare sulla base delle
transazioni comparabili operate nel mercato dell’ acquirente, ovverosia nel mercato belga (cd. controllo esterno), e non sulla base di operazioni similari effettuate
nel mercato italiano (cd. controllo interno). Ne sarebbe
conseguita – a parere del giudice di appello – l’ illegittimità dell’atto impositivo impugnato dalla contribuente.
3. Per la cassazione della sentenza n. 117/14/05 ha proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate, affidato a due motivi, ai quali il contribuente ha replicato con controricorso e con memoria.
OSSERVA IN DIRITTO.
1. Con i due motivi di ricorso – che vanno esaminati congiuntamente, attesa la loro evidente connessione l’Amministrazione ricorrente denuncia la violazione e
falsa applicazione degli artt. 76, co. 5 e 9, co. 3
d.P.R. 917/86 (nel testo previgente), in relazione
all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l’insufficiente motivazione su un fatto decisivo del giudizio, in relazione
all’art. 360 n. 5 c.p.c.
1.1. Avrebbe, invero, errato il giudice di appello – a
parere dell’Agenzia delle Entrate – nel ritenere che per
la determinazione del prezzo di trasferimento, nell’ accertamento dei redditi di imprese assoggettate a controllo della casa madre estera, il mercato rilevante fosse
individuabile in quello del destinatario dei beni oggetto
delle transazioni commerciali (nella specie, il mercato
belga), dovendo tenersi conto, secondo la CTR, dei prezzi
ivi praticati in operazioni comparabili a quella oggetto
di verifica. Tale asserzione del giudice di seconde cure
non avrebbe – secondo la ricorrente – tenuto conto di
quanto dedotto dall’Ufficio nell’atto di appello avverso
la decisione di primo grado, ovverosia del fatto che nel
caso concreto sarebbe stato impossibile effettuare il
confronto con imprese operanti nel mercato belga, atteso
che i soli soggetti comparabili, ivi operanti, erano ancora società collegate del gruppo Solvay.
Di qui la denuncia del vizio motivazionale, da cui sarebbe affetta la sentenza di seconde cure, ad avviso
dell’Amministrazione ricorrente.

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1.2. Ma detta decisione – ad avviso dell’Agenzia delle
Entrate – non sarebbe neppure rispettosa del disposto degli artt. 76, co. 5 e 9, co. 3 d.P.R. 917/86 (nel testo
previgente, temporalmente applicabile alla fattispecie),
atteso che il “valore normale” della merce ceduta da una
società appartenente allo stesso gruppo della società
cessionaria non potrebbe che essere determinato, alla
stregua delle disposizioni succitate, tenendo conto del
prezzo mediamente praticato per beni o servizi similari,
in “condizioni di libera concorrenza”, per tali dovendo
intendersi le condizioni praticate dalla Solvay Italia,
sul mercato nazionale, nelle transazioni effettuate con
imprese dello stesso settore. Tanto più che – come dianzi
detto – siffatte condizioni sarebbero, di contro, certamente inesistenti in un mercato, come quello belga, nel
quale i soli soggetti operanti nel medesimo ambito merceologico della contribuente – ai quali riferirsi, dunque, per la comparazione dei prezzi di trasferimento sarebbero costituiti da imprese appartenenti allo stesso
gruppo della Solvay s.a.
2. Le censure suesposte si palesano fondate e vanno accolte.
2.1. Dall’esame degli atti del presente giudizio, si
evince, invero, che – a seguito di verifiche effettuate
dalla Guardia di Finanza nei confronti della società italiana Solvay Italia, i cui risultati venivano trasfusi
nel processo verbale di constatazione del 5.2.98 l’Ufficio rideterminava i corrispettivi relativi a cessioni di merci (soda e bicarbonato di sodio) effettuate
da detta società a favore di società estere appartenenti
allo stesso gruppo e, segnatamente, nei confronti della
casa madre Solvay s.a. I prezzi praticati, in relazione
alle suddette cessioni infragruppo, risultavano, infatti,
notevolmente inferiori al “valore normale” delle cessioni
stesse – determinabile ai sensi del combinato disposto
degli artt. 9 e 76 del d.P.R. 917/86 – e, in particolare,
ai prezzi praticati in Italia dalla stessa società venditrice, risultati superiori di oltre il 44%, rispetto a
quelli risultanti dalle predette transazioni infragruppo.
L’Amministrazione finanziaria provvedeva, pertanto, a recuperare a tassazione il maggiore importo dei ricavi conseguiti dalla società madre acquirente (Solvay s.a.) attraverso la consociata italiana Solvay Italia – sottratti
all’imposizione in Italia con il trasferimento di utili
all’estero, operato mediante l’applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti – rispetto al
minore importo contabilizzato dalla contribuente per
l’anno 1997, per una somma complessiva di e 1.023.862.
Avverso l’avviso di accertamento, con il quale
l’Amministrazione ha – di conseguenza – rettificato la
dichiarazione della Solvay s.a. per l’anno 1997, accertando una maggiore IRPEG ed una maggiore ILOR, è insorta,
quindi, la contribuente denunciando nel merito – oltre a
violazioni di carattere formale dell’atto impositivo, disattese nel primo e secondo grado del giudizio l’erronea individuazione del “valore normale”, operata
con riferimento al prezzo praticato in Italia, anziché a

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quello praticato nello Stato di destinazione della merce.
La tesi della Solvay s.a. ha trovato accoglimento, sia da
parte della CTP che da parte della CTR, avverso la cui
pronuncia l’amministrazione insorge con i due motivi di
ricorso suesposti.
2.2. Premesso quanto precede, va osservato che la vicenda
in esame ripropone la complessa e delicata problematica
del cd. transfer price o transfer pricing (la prima
espressione pone l’accento sul profilo statico del fenomeno, la seconda su quello dinamico), che si incentra
sulla corretta applicazione della normativa in materia di
prezzi di trasferimento tra parti correlate. Tale normativa ha – per vero – la finalità di consentire all’ amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi
applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti
in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti “artificiali” di tali prezzi, determinati
dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo,
ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite.
2.2.1. Un ruolo centrale in tale prospettiva assume oggi,
nel nostro ordinamento, l’art. 110, co. 7 del d.P.R. n.
917/86 (art. 76, co. 5 del testo previgente, temporalmente applicabile alla fattispecie in esame), a norma del
quale i componenti del reddito derivanti da operazioni
con società non residenti nel territorio dello Stato che,
direttamente o indirettamente controllano l’impresa o ne
sono controllate, o che sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa nazionale, sono valutati in
base al “valore normale” dei beni ceduti, dei servizi
prestati e dei beni ricevuti, determinato ai sensi
dell’art. 9 del d.P.R. n. 917/86, “se ne deriva aumento
del reddito”. La ratio della disposizione in oggetto è
del tutto evidente. La norma succitata costituisce, difatti, una deroga al principio per cui, nel sistema di
imposizione sul reddito, questo viene determinato sulla
base dei corrispettivi pattuiti dalle parti della singola
transazione commerciale (art. 75, ora art. 109, del
d.P.R. 917/86).
Nelle ipotesi in cui tali corrispettivi risultano scarsamente attendibili e possono essere manipolati in danno
del Fisco italiano, come nel caso degli scambi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali sono condizionati, poiché funzionali ad un unitario centro di interessi, i corrispettivi medesimi sono – per vero – sostituiti, per volontà di legge, dal “valore normale” dei
beni o dei servizi oggetto dello scambio, qualora tale
sostituzione ricada, in concreto, a vantaggio del Fisco
italiano.
2.2.2. Sotto il profilo in esame, dunque, può dirsi che
la previsione in parola completi il catalogo delle garanzie offerte dalla legislazione a favore dell’Erario, con
riferimento a tutte quelle ipotesi nelle quali il corrispettivo pattuito – data la sostanziale unicità del soggetto economico, trattandosi di rapporti commerciali tra

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articolazioni dello stesso gruppo – può non riflettere il
reale valore dei beni e dei servizi scambiati. La disposizione di cui all’art. 76, co. 5 (ora co. 7 dell’art.
110) d.P.R. 917/86, pertanto, in presenza di norme specificamente dirette ad impedire il dirottamento di flussi
reddituali, ad esempio verso Paesi a fiscalità agevolata
(co. 10, 11 e 12 dell’art. 110, artt. 167 e 168 d.P.R.
917/86), mediante condotte “simulatorie” danti luogo a
fenomeni di tipo “evasivo”, ha la finalità ulteriore di
evitare che, mediante fenomeni non simulatori come
l’alterazione del prezzo di trasferimento, l’Erario italiano abbia a subire comunque un concreto pregiudizio.
In altri termini, l’applicazione delle norme sul transfer
pricing non combatte l’occultamento del corrispettivo,
costituente una forma di evasione, ma le manovre che incidono sul corrispettivo palese, consentendo il trasferimento surrettizio di utili da uno Stato all’altro, sì da
influire in concreto sul regime dell’ imposizione fiscale. Per tali essenziali connotazioni, pertanto, deve ritenersi che tale disciplina costituisca – secondo l’ interpretazione più diffusa anche nella giurisprudenza di
questa Corte – una “clausola antielusiva”, in linea con i
principi comunitari in tema di abuso del diritto, finalizzata ad evitare che all’interno del gruppo di società
vengano effettuati trasferimenti di utili mediante
l’applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore
normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli
all’imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni
estere inferiori (cfr. Cass. 22023/06, 11226/07), o comunque a favore di situazioni che rendano fiscalmente
conveniente l’imputazione di utili ad articolazioni del
gruppo diverse da quelle nazionali.
2.2.3. La norma in esame, va letta, poi, in combinato disposto con l’art. 9 del modello di convenzione fiscale
OCSE del 1995 – 1996, secondo il quale “quando le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle loro
relazioni commerciali o finanziarie, sono diverse da
quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle due imprese, ma che
a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono
essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di
conseguenza”. Il criterio cardine, per la valutazione dei
prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un
gruppo multinazionale, è costituito, quindi, dal principio di libera concorrenza, fondato, cioè, sul regime che
si instaura tra “imprese indipendenti”; principio, pertanto non a caso fiscalmente posto in diretta correlazione con la definizione del “valore normale” dei beni o dei
servizi, ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. 917/86, richiamato dai co. 2 e 5 dell’art. 76 (ora 2 e 7 dell’art. 110)
dello stesso decreto. Le norme suindicate stabiliscono,
in definitiva, l’irrilevanza, ai fini fiscali, dei valori
concordati dalle parti nell’ambito di transazioni “controllate” e l’inserimento automatico nelle transazioni
medesime di valori legali, ancorati al regime della libera concorrenza (valore normale, ex art. 9 d.P.R. 917/86).

In difetto di un’effettiva alterità tra le imprese partecipanti a dette transazioni, invero, ricorre un’elevata
probabilità che il corrispettivo possa essere fissato
dalle parti, anziché in rapporto al valore del bene scambiato o del servizio reso, piuttosto in funzione dei disegni di pianificazione fiscale del gruppo cui le imprese
contraenti appartengono. Con la conseguenza che – in forza delle disposizioni succitate – nella determinazione
del reddito d’impresa, non rileva, in relazione alle vicende in esame, il corrispettivo effettivamente convenuto, bensì quello che sarebbe stato stabilito, ove le imprese fossero state indipendenti l’una dall’altra (cd.
arm’s lenght principle).
2.3. Da quanto fin qui esposto, si deduce, pertanto, che
il profilo più complesso e delicato, in relazione
all’applicazione della disciplina in esame – e la cui
corretta impostazione si palesa decisiva per la risoluzione del caso di specie – è costituito dall’ individuazione del “valore normale”, ai sensi dell’art. 9, co. 3
d.P.R. 917/86, al quale l’Amministrazione finanziaria ancora la determinazione del componente del reddito di impresa, costituito dal corrispettivo derivante dalla cessione di beni o servizi effettuata tra società appartenenti allo stesso gruppo.
Il problema che si pone al riguardo, sul piano interpretativo, concerne anzitutto il rapporto tra la prima e la
seconda parte del co. 3 dell’art. 9 del decreto cit. Non
a caso, infatti, la non facile esegesi della disposizione
ha indotto – nel caso concreto – dapprima la CTP, poi anche la CTR, a ritenere applicabile tout court alle alienazioni infragruppo, al fine di determinare il prezzo di
libera concorrenza, il metodo del cd. confronto esterno,
per di più ritenuto applicabile alle operazioni commerciali che si svolgono nel mercato estero dell’acquirente.
Entrambi i giudici di merito hanno ritenuto, invero, che
l’Amministrazione avrebbe dovuto considerare il prezzo
praticato in transazioni comparabili a quelle oggetto di
verifica, avvenute tra soggetti indipendenti operanti nel
mercato dell’acquirente, ovverosia nel mercato belga, e
non fare riferimento – come è, in concreto, accaduto alle condizioni di vendita degli stessi beni praticate
nel mercato del venditore, ossia nel mercato italiano.
2.3.1. Ciò posto, va osservato, in proposito, che la disposizione di cui al co. 3 dell’art. 9, nella prima parte, definisce il “valore normale” come “I/ prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi
della stessa specie o similari, in condizioni di libera
concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione,
nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati
acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”. La seconda parte della medesima disposizione, poi, enuncia i criteri per la determinazione del
valore normale, disponendo che debba farsi riferimento, a
tal fine, “in quanto possibile, al listini o alle tariffe
del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e al listini delle camere di com-

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merci° e alle tariffe professionali, tenendo conto degli
sconti d’uso”.
E’ evidente, pertanto, che la clausola antielusiva di cui
all’art. 76, co. 5 (ora 110, co. 7) d.P.R. 917/86, che
regola il cd. transfer pricing, nel richiamare il disposto dell’art. 9 dello stesso decreto, non fa che disporre
l’applicazione – per la determinazione del reddito di impresa nelle operazioni infragruppo con società estere, e
per le ragioni di politica fiscale sopra evidenziate dei medesimi criteri che devono ispirare l’accertamento
dello stesso reddito, da parte dell’Amministrazione finanziaria, nei confronti di imprese che operino esclusivamente sul territorio nazionale. E’, invero, acquisizione pacifica – nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui dal menzionato art. 9 d.P.R. 917/86
deve trarsi un principio generale, in base al quale
l’Amministrazione è tenuta a valutare, ai fini fiscali,
le varie prestazioni che costituiscono le componenti attivi e passive del reddito secondo il valore di mercato.
Ed invero, l’Ufficio non è in alcun modo vincolato – nella valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, ed anche se non
ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa – ai valori
o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei
contratti (Cass. 10802/02, 9497/08).
A fortiori, dunque, tali determinazioni contabili e convenzionali dei contribuenti non potrebbero vincolare
l’Amministrazione – come dianzi detto – nelle operazioni
commerciali poste in essere all’interno di un gruppo di
società, forte essendo il sospetto – che ha indotto il
legislatore ad adottare la suddetta previsione antielusiva – che in siffatta evenienza vengano applicati dalle
parti prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti
all’acquirente estero, onde sottrarli alla tassazione in
Italia, a favore di regimi fiscali stranieri più favorevoli.
2.3.2. Ebbene, tale essendo la ratio della previsione di
cui al combinato disposto degli artt. 9 e 76, co. 5 (ora
110, co. 7) d.P.R. 917/86, è del tutto evidente l’errore
nel quale è incorsa, nel caso concreto, la CTR, nel ritenere che l’Ufficio, in sede di accertamento del reddito
di impresa, avrebbe dovuto compiere una comparazione tra
i prezzi praticati nel solo mercato di destinazione delle
merci cedute dalla Solvay Italia alla Solvay s.a., ossia
nel mercato belga, avendo la società madre sede principale a Bruxelles, e non in quello dell’impresa cedente, ossia nel mercato italiano. Tale erronea valutazione del
giudicante di seconde cure si è, difatti, tradotta – a
giudizio della Corte – nella falsa applicazione delle
norme summenzionate, oltre che in un palese vizio motivazionale, avendo la CTR del tutto pretermesso l’esame delle argomentazioni esposte, in proposito, dall’ Amministrazione finanziaria.
Va – per vero – osservato al riguardo che, tra i diversi
criteri indicati dal modello OCSE del 1995, per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese asso-

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ciate di un gruppo multinazionale, il legislatore italiano ha prescelto quello del “confronto del prezzo” (comparable uncontrolled price method), la cui disciplina si
articola nella prima e seconda parte – summenzionate del co. 3 dell’art. 9 del d.P.R. 917/86.
Senonchè, l’opzione ermeneutica seguita – ne caso di specie – dal giudice di appello, ha indotto la Commissione a
trascurare del tutto il nesso logico-giuridico sussistente tra le predelle due parti della norma suindicata, per
concentrare la propria attenzione esclusivamente sulla
prima parte di detta disposizione, erroneamente considerata come il criterio cardine per la determinazione del
prezzo di trasferimento infragruppo. Di più, la CTR ha
inteso – in maniera del tutto incongrua, e con motivazione stringata ed apodittica – il confronto tra i corrispettivi praticati, in relazione a vendite di prodotti
similari, “nel tempo e nel luogo in cui i beni (…) sono
stati acquisiti”, previsto dalla suddetta disposizione
normativa, come riferito al mercato del destinatario dei
beni oggetto della transazione (nella specie, il mercato
belga).
Senonchè – in senso contrario a quanto opinato dal giudice di appello – deve ritenersi che il criterio prioritario per stabilire il “valore normale” dei corrispettivi,
nelle vendite tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, non possa essere che quello – enunciato dalla seconda parte del co. 3 dell’art. 9 d.P.R. 917/86, che
disciplina specificamente le modalità “per la determinazione” del valore in questione – secondo cui deve farsi
riferimento “in guanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e,
in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di
commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”. La norma, in altri termini, impone
all’Amministrazione di prendere in considerazione,
nell’accertamento del reddito di impresa, in via principale, i “listini” e le “tariffe” del venditore dei beni o
del prestatore di servizi a società dello stesso gruppo,
tenuto conto anche degli sconti che il medesimo è usualmente disposto a praticare nel mercato di appartenenza.
Quindi – in caso di inesistenza o di inattendibilità del
listino o della tariffa – la medesima disposizione dispone di prendere in esame, in via subordinata, i “mercuriali” ed i “listini delle camere di commercio”, o le “tariffe professionali”.
Ne discende che la definizione del “valore normale” contenuta nella prima parte del co. 3 del citato art. 9 sebbene non possa essere intesa come una mera declaratoria di principio, avendo anch’essa un innegabile valore
precettivo – svolge, tuttavia, un ruolo sussidiario e
suppletivo, rispetto a quello prioritario svolto dai criteri per la “determinazione” del valore normale dei prezzi per le cessioni infragruppo. Siffatta definizione opera, cioè, nel solo caso in cui il riferimento ai listini,
alle tariffe ed ai mercuriali, in uso nel mercato del
venditore, si riveli di nessuna utilità pratica, per la
loro inesistenza, o per la loro inattendibilità.

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2.3.3. Da quanto suesposto discende, dunque, che la motivazione dell’impugnata sentenza si rivela erronea sotto
un duplice profilo.
Anzitutto è, invero, da rilevarsi che nel caso concreto,
contrariamente a quanto ritenuto dalla CTR, del tutto
corretto è da ritenersi il ricorso, da parte
dell’Ufficio, alla comparazione tra i prezzi praticati
dalla Solvay Italia sul mercato nazionale, desumibili dai
listini e dalla documentazione contabile della contribuente, e quello stabilito nella transazione con la casa
madre Solvay s.a. In altri termini, l’applicazione da
parte dell’Amministrazione finanziaria del criterio enunciato dalla seconda parte del co. 3 dell’art. 9 d.P.R.
917/86, non ha fatto che tradursi nell’esatta osservanza
della norma, laddove stabilisce che, nella determinazione
del “valore normale” dei prezzi delle cessioni infragruppo, ci si debba riferire, in primis, ai listini ed alle
tariffe adoperati dal cedente italiano.
In considerazione di quanto suesposto, è – per vero – del
tutto evidente che nell’applicazione del metodo del “confronto di prezzo” occorre dare preferenza al cd. confronto interno, basato sui listini e le tariffe del soggetto
che ha fornito i beni o i servizi nel rapporto tra
l’impresa controllata ed un’impresa indipendente, atteso
che è ai suddetti elementi documentali di raffronto che
l’Amministrazione deve anzitutto riferirsi, “in quanto
possibile”, e tenuto conto di eventuali “sconti d’uso”.
In seconda battuta, l’Amministrazione dovrà fare riferimento alle mercuriali ed ai listini delle camere di commercio, ovvero alle tariffe professionali, nell’esame
delle transazioni comparabili tra imprese indipendenti
(cd. confronto esterno) appartenenti allo stesso mercato.
Infine, ed in via del tutto sussidiaria e suppletiva,
l’Ufficio potrà fare ricorso – ai sensi della prima parte
del co. 3 dell’art. 9 succitato – al prezzo “mediamente
praticato” ed in “condizioni di libera concorrenza” per
beni o servizi similari, “nel tempo e nel luogo in cui i
beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in
mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”; questi ultimi ben potendo essere determinati da mercati esteri più
vicini a quello nazionale del venditore.
Ebbene, anche a voler considerare, in via di mera ipotesi, come prioritario tale ultimo criterio – contenuto,
peraltro, in una disposizione che ha dichiarato fine definitorio – il ragionamento seguito dalla CTR si palesa
comunque erroneo, anche sotto tale profilo.
2.3.4. Deve osservarsi, infatti, che la lettura unitaria
e complessiva delle due parti del co. 3 dell’art. 9, nella connessione dei due enunciati normativi ivi esposti,
non può che evidenziare come per prezzo o corrispettivo
praticato nelle vendite operate in regime di “libera concorrenza”, nel “tempo e nel luogo in cui i beni o servizi
sono stati acquisiti o prestati”, non può che intendersi
il prezzo o corrispettivo relativo a vendite effettuate
nel mercato del cedente. Il riferimento ai listini, tariffe e mercuriali del fornitore dei beni o dei servizi,
contenuto nella seconda parte della stessa disposizione,

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non avrebbe, altrimenti, alcun significato logico. Come
pure del tutto significativo, in tal senso, è il riferimento normativo agli “sconti d’uso”, per tali dovendo indubbiamente intendersi quelli usualmente praticati nei
propri listini, sul mercato nazionale, dall’impresa venditrice nelle operazioni commerciali con soggetti estranei al proprio gruppo economico, e non, quindi, le riduzioni percentuali di prezzo – agevolmente riconducibili a
manovre elusive – operate nei soli rapporti infragruppo
(cd. “remise”) (Cass. 7343/11).
Per “libera concorrenza” deve intendersi, dunque, l’ esistenza di un prezzo di mercato determinato dal libero
gioco di acquirenti e venditori. Sicchè per l’operatività
del criterio del “valore normale” è necessario e sufficiente che in Italia sia venduto un prodotto similare, in
assenza di vincoli di legge nella determinazione del
prezzo, ovverosia che nello Stato del venditore manchi,
in relazione a beni dello stesso genere di quello oggetto
della transazione soggetta a verifica, un prezzo stabilito d’imperio dal legislatore (Cass. 13233(01).
Ad ogni buon conto, va soggiunto che a risultato non diverso si perverrebbe comunque, laddove si intendesse considerare – come ha fatto la CTR – il solo contenuto della
prima parte dell’art. 9, co. 3 d.P.R. 917/86, senza operarne la suindicata lettura integrata con la seconda parte della stessa disposizione. Ed invero, non appare condivisibile l’assunto del giudice di appello, secondo il
quale si dovrebbe ritenere che per mercato del “luogo in
cui i beni (…) sono stati acquistati” debba intendersi
necessariamente quello dell’acquirente dei beni stessi.
Non va, infatti, tralasciato di considerare il disposto
dell’art. 1510 c.c., a tenore del quale “in mancanza di
patto o di uso contrario, la consegna della cosa deve avvenire nel luogo dove questa si trovava al tempo della
vendita, se le parti ne erano a conoscenza, ovvero nel
luogo dove il venditore aveva il suo domicilio o la sede
dell’impresa”. D’altronde, il rilievo che riveste la consegna del bene ceduto secondo le modalità di cui alla
norma succitata – ovverosia presso il venditore e comunque nel luogo in cui la cosa si trovava al momento della
vendita, e non certo presso il compratore – per il verificarsi dell’effetto traslativo ai fini della determinazione del reddito di impresa, è dimostrato anche dal rilievo decisivo che la consegna stessa assume, ai sensi
dell’art. 75, co. 2 (ora 109, co. 2) d.P.R. 917/86, ai
fini della individuazione dell’esercizio di competenza
per i corrispettivi delle cessioni e le spese di acquisizione dei beni (Cass. 341/06).
Ne discende che l’assunto del giudice di appello, per
quanto concerne l’individuazione del mercato cui deve
farsi riferimento, ai fini del riscontro delle transazioni comparabili con quella oggetto di controllo, appare
del tutto destituito di fondamento.
2.3.5. A tutto quanto suesposto, va – infine – soggiunto
che, sul piano della censura concernente il vizio di motivazione, deve rilevarsi che la CTR non ha in alcun modo
preso in considerazione, neppure per disattenderle, le

.7.1C 7’45,
AI

– N. 5
~TRIBUTARIA

deduzioni dell’Amministrazione circa l’impossibilità di
effettuare il confronto con imprese attive sul mercato
belga, atteso che i soli soggetti comparabili, ivi operanti nel settore merceologico di appartenenza della contribuente, erano esclusivamente società collegate del
gruppo Solvay. Con la conseguenza che il “valore normale”
della merce ceduta da una società appartenente allo stesso gruppo della società cessionaria non avrebbe potuto
essere in concreto determinato, se la comparazione fosse
stata effettuata con imprese operative nel mercato estero, tenendo conto del prezzo mediamente praticato per beni o servizi similari, in “condizioni di libera concorrenza”
3. Per tutte le ragioni che precedono, dunque, in accoglimento del ricorso dell’Amministrazione finanziaria,
l’impugnata sentenza deve essere cassata con rinvio ad
altra sezione della CTR della Toscana, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia, attenendosi al seguente principio di diritto: “il criterio prioritario per
stabilire il ‘valore normale’ dei corrispettivi, nelle
vendite tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, è quello enunciato dalla seconda parte del co. 3
dell’art. 9 d.P.R. 917/86, che lo individua nel riferimento, in via principale ed in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o
i servizi, ed in via subordinata – in caso di mancanza o
inattendibilità di tali elementi – alle mercuriali e ai
listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso; solo in via
sussidiaria potrà farsi riferimento al criterio enunciato
dalla prima parte del co. 3 dell’art. 9 d.P.R. 917/86,
che va inteso nel senso che il mercato al quale occorre
fare riferimento, ai fini della determinazione del ‘valore normale’ dei prezzi e dei corrispettivi nelle vendite
infragruppo, è quello nazionale del venditore, ossia il
mercato italiano”.
4. Il giudice di rinvio provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione;
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con
rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, che provvederà alla liquidazione
anche delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consi io della Sezione Tributaria, il 11.12.2012.

N. 131 l’A3. ALL.

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