Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24003 del 26/09/2019

Cassazione civile sez. trib., 26/09/2019, (ud. 26/10/2018, dep. 26/09/2019), n.24003

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI N. M.G. – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19472 del ruolo generale dell’anno 2011

proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore generale pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche s.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti

Francesco d’Ayala Valva e Pietro Biancato per procura speciale a

margine del ricorso, elettivamente domiciliati in Roma, viale

Parioli, n. 43, presso lo studio del primo difensore;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria

Regionale della Lombardia, n. 50/02/2011, depositata in data 21

aprile 2011;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 ottobre 2018

dal Consigliere Giancarlo Triscari;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore

generale Dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del primo, secondo e terzo motivo e

l’inammissibilità o il rigetto del quarto;

udito per l’Agenzia delle entrate l’Avvocato dello Stato Giovanni

Palatiello.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate ricorre con quattro motivi per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in epigrafe, con la quale è stato rigettato l’appello da essa proposto e accolto l’appello incidentale proposto dalla società avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bergamo.

Dalla narrazione in fatto della pronuncia del giudice di appello si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti della società contribuente un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2002, aveva contestato, ai fini Iva, Irpeg e Irap, l’erronea imputazione all’esercizio di competenza di diverse voci di costo relative a spese legali, sopravvenienze passive, compensi di collaborazione e ricavi non dichiarati; avverso il suddetto atto di accertamento la contribuente aveva proposto ricorso che era stato parzialmente accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Bergamo, annullando l’atto impositivo, ad eccezione della contestazione relativa ai compensi di collaborazione non di competenza; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto appello principale l’Agenzia delle entrate e appello incidentale la contribuente.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello principale e accolto quello incidentale.

In particolare, ha ritenuto che le spese legali dovevano essere ritenute di competenza dell’anno 2002, in quanto i corrispettivi delle prestazioni si considerano conseguiti alla data in cui le prestazioni stesse sono state eseguite, e non ultimate; le sopravvenienze passive ed i ricavi erano deducibili nell’anno 2002 in quanto solo in detto anno la contribuente aveva acquisito la certezza della loro esistenza e quantificazione; con riferimento all’appello incidentale, ha ritenuto che i compensi liquidati all’ex amministratore per le prestazioni svolte nel 2002 erano di competenza nel suddetto anno in quanto non assimilabili a redditi di lavoro dipendente ma a prestazioni di lavoro autonomo.

Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a quattro motivi di censura.

La contribuente si è costituita depositando controricorso nonchè memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Sulle eccezioni preliminari della controricorrente

Preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di parte controricorrente di inammissibilità del ricorso.

1.1. In primo luogo, la controricorrente eccepisce l’inammissibilità del ricorso in quanto non è stata proposta impugnazione avverso la prima parte della motivazione della sentenza con la quale era stata espressa un’autonoma ratio decidendi ovvero una sostanziale statuizione in diritto sulla legittimità dell’atto impositivo, subordinandola, logicamente, ad un esito opposto a quello poi statuito con la decisione di merito.

Eccepisce, inoltre, la formazione di un giudicato interno sulla statuizione sopra indicata di illegittimità dell’atto impositivo idonea a confermare l’annullamento del medesimo ovvero a escludere la possibilità di confermare la legittimità dell’avviso di accertamento senza una previa verifica e rideterminazione degli imponibili e delle imposte (dovute e versate) di tutti gli anni interessati dallo spostamento di componenti positive o negative, al fine di verificare l’eventuale debenza di maggiori imposte.

Le eccezioni sono infondate.

Le stesse si fondano sul contenuto del passaggio motivazionale, compiuto in premessa, secondo cui lo spostamento da un anno all’altro della rilevanza fiscale di un costo o un ricavo dovrebbe portare alla variazione dell’imponibile fiscale di tutti gli anni interessati al cambio di competenza, al fine di evitare una illegittima tassazione di un reddito non esistente e non soltanto, come è prassi negli uffici, variare solo gli anni interessati all’incremento dell’imponibile.

Invero, non può attribuirsi al suddetto passaggio motivazionale la valenza di contenuto decisorio suscettibile di impugnazione e, conseguentemente, di passaggio in giudicato ove non fatto oggetto di impugnazione.

La pronuncia in esame, invero, ha chiaramente precisato che il thema decidendum oggetto di esame era delimitato dalla questione della esatta indicazione dei costi e dei ricavi ai fini dell’esatta imputazione nell’anno della loro rilevanza fiscale.

Ciò trova conferma, peraltro, non solo nella affermazione contenuta nella premessa ma anche nella stessa esposizione in fatto della sentenza delle diverse ragioni di impugnazione proposte dalle parti, consistenti unicamente nella diversa prospettazione della corretta imputazione dei costi e dei ricavi da parte della società contribuente per l’anno di imposta 2002.

In questa delimitazione del thema decidendum non è in alcun modo configurabile una diversa questione, relativa alla eventuale illegittimità dell’avviso di accertamento per non avere disposto la variazione dell’imponibile fiscale per tutti gli anni interessati al cambio di competenza, essendo del tutto avulsa dall’oggetto del giudizio, come delimitato dalle parti nei loro atti difensivi e definita dal giudice del gravame.

Il passaggio motivazionale in esame, quindi, non può assumere valenza decisoria in ordine ad una postulazione di giudizio compiuto dalle parti, non essendo correlato a nessuna ragione di domanda proposta e non risultando che la questione era stata prospettata nel corso del giudizio, tanto più che non contiene alcuna statuizione consequenziale, avendo, invece, il giudice del gravame, proceduto ad esaminare nel merito la questione secondo i limiti dell’oggetto del giudizio dallo stesso precisati nel primo periodo della motivazione.

A tale passaggio motivazionale, dunque, deve essere attribuita la valenza di mero obiter dictum, privo di contenuto decisorio.

1.2. In secondo luogo viene in esame l’eccezione di inammissibilità del ricorso articolata su diverse ragioni: difetto dei contenuti essenziali richiesti dall’art. 366 c.p.c.; mancanza di autosufficienza del medesimo; mancata considerazione dell’autonoma ratio decidendi (di cui sopra) e della esposizione delle domande e delle posizioni delle parti nei precedenti gradi di giudizio; avere presupposto al ricorso una motivazione non corrispondente a quella espressa nella sentenza oggetto di impugnazione; formulazione di motivi di ricorso non specifici.

L’eccezione è infondata.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), è preordinato allo scopo di agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa, l’esito dei gradi precedenti con eliminazione delle questioni non più controverse ed il tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura (Cass. civ., n. 16628/2009). Si è, inoltre, rilevato (Cass. civ., n. 19255/2010) che l’assolvimento del requisito in questione è considerato dal legislatore come un’attività di narrazione del difensore che, in ragione dell’espressa qualificazione della sua modalità espositiva come sommaria, postula un’esposizione finalizzata a riassumere sia la vicenda sostanziale dedotta in giudizio che lo svolgimento del processo.

Il ricorso in esame contiene una chiara esposizione delle ragioni della controversia, dei motivi di ricorso della contribuente, della pronuncia di primo grado, dei motivi di appello dell’Agenzia delle entrate e dell’appello incidentale della contribuente, ed ha illustrato, per ciascun motivo di ricorso, i punti della decisione del giudice del gravame in relazione ai quali ha ritenuto di dovere formulare ragioni di censura, sicchè deve ritenersi che, alla luce dei suddetti parametri di riferimento, sia stata rispettata la previsione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3).

Priva di rilevanza, come detto, è la questione della mancata indicazione dell’affermazione, formulata in premessa dal giudice di appello, attesa la non rilevanza della medesima ai fini del decidere. 2. Sui motivi di ricorso

2.1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 2, lett. b).

In particolare, la ricorrente censura la sentenza per avere ritenuto che, con riferimento ai compensi erogati in favore di un legale per l’attività processuale dallo stesso svolta in favore della contribuente, l’anno di competenza per la deduzione del costo doveva essere considerato quello in cui la prestazione era stata eseguita, piuttosto che quello in cui le stesse erano state ultimate, non assumendo rilievo il completamento dell’iter giudiziario.

Con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non avere considerato che i pagamenti delle prestazioni ricevute dal legale per l’attività processuale non riguardavano attività conclusive delle diverse fasi del processo.

I motivi possono essere esaminati unitamente, in quanto attengono alla questione della corretta imputazione dei costi per le spese legali dovute al difensore per l’attività processuale dallo stesso svolta.

Anche in questo caso, va tenuto conto dell’eccezione della controricorrente di inammissibilità dei motivi in esame.

In primo luogo, la controricorrente eccepisce l’inammissibilità del primo motivo di ricorso per non avere indicato quali fossero le reali posizioni delle parti sulla questione in esame, non risultando esuastive le trascrizioni dei motivi di appello e delle eccezioni nonchè dell’appello incidentale della contribuente, quale fosse il contenuto della pronuncia censurata e di quella di primo grado, e, infine, per non avere compiutamente riportato il contenuto della decisione del giudice del gravame, formulando un motivo di ricorso non specifico e non riferibile alla sentenza di appello.

L’eccezione è infondata.

Nel motivo di ricorso in esame è chiaramente delineata la questione in relazione alla quale si prospetta la ragione di censura in esame: il rinvio ai punti 4 e 5 del ricorso consentono di verificare che, da un lato, le ragioni di appello proposte dalla ricorrente riguardavano la corretta interpretazione e applicazione, al caso di specie, della previsione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, per la quale la deducibilità dei costi per prestazioni di servizi devono essere valutate in ragione del momento della ultimazione delle stesse, mentre, secondo la linea difensiva della contribuente, occorreva fare riferimento al momento dell’esecuzione; è stato poi riprodotto interamente il passaggio motivazionale della sentenza impugnata che, sul punto, aveva ritenuto che occorreva fare riferimento al momento in cui le prestazioni erano state eseguite nell’anno in esame, non necessitando, al fine della competenza, il completamento di un iter giudiziario che a volte si prolunga per un decennio.

Con il motivo di ricorso, pertanto, si è censurata la sentenza per vizio di violazione di legge, per avere ritenuto, in contrasto con quanto previsto dal citato art. 75, che i costi relativi a prestazioni di servizi sono di competenza dell’esercizio in cui le stesse sono eseguite, sicchè il quadro complessivo sopra delineato induce a ritenere infondata l’eccezione in esame, avendo parte ricorrente, con il presente motivo, compiutamente delineato e definito le ragioni di contestazione nei suoi profili fondanti.

Anche l’eccezione relativa all’inammissibilità del secondo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.

In primo luogo, lo stesso fa riferimento alla violazione dell’art. 366 bis c.p.c., non applicabile alla presente fattispecie, tenuto conto della previsione di cui alla L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5, e della data di pubblicazione della sentenza impugnata (21 aprile 2011), successiva all’entrata in vigore della legge in esame, abrogativa dell’art. 366-bis c.p.c..

In ogni caso, con il motivo in esame è stato chiaramente precisato qual era il passaggio motivazionale della pronuncia oggetto di censura e la ragione di doglianza, relativa alla mancata considerazione degli elementi, prospettati in sede di appello, da cui potere evincere che le prestazioni professionali non era relative ad alcuna attività conclusiva del difensore.

Passando, quindi, ad esaminare i motivi in esame, il primo è fondato, con conseguente assorbimento del secondo.

Come detto, la pronuncia censurata ha ritenuto che la deducibilità dei costi per le prestazioni processuali rese dal difensore doveva essere valutata in ragione del momento dell’esecuzione delle stesse, non essendo necessario attendere il completamento di un iter giudiziario, ed a tal proposito ha rimandato alla relazione ministeriale relativa all’art. 75 con la quale era stato chiarito, appunto, che i corrispettivi delle prestazioni si consideravano eseguite alla data in cui le prestazioni era state eseguite, non a quella di ultimazione.

A tal proposito, va osservato che secondo l’orientamento di questa Suprema Corte (Cass. civ. Sez. V, 11 agosto 2016, n. 16969) “In materia di prestazioni professionali vige la regola della post numerazione (artt. 2225 e 2233 c.c.), secondo la quale il diritto al compenso pattuito si matura una volta posta in essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il risultato a cui la prestazione è diretta (regola mitigata da un duplice ordine di diritti del professionista: quello all’anticipo delle spese occorrenti all’esecuzione dell’opera e quello all’acconto, da determinarsi secondo gli usi sul compenso da percepire una volta portato a termine l’incarico – Cass. 10 novembre 2006, n. 24046). La prestazione difensiva ha così carattere unitario e ciò importa che gli onorari di avvocato debbano essere liquidati in base alla tariffa vigente nel momento in cui la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale, unitarietà che va rapportata ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio, e quindi al momento della pronunzia che chiude ciascun grado (fra le tante Cass. 3 agosto 2007, n. 17059).

Ne consegue, pertanto, che il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale.

La pronuncia censurata, pertanto, è viziata per violazione di legge per avere ritenuto che le spese legali devono essere considerate di competenza nell’anno in cui le prestazioni sono state eseguite, cioè in relazione al singolo atto, dovendosi, invece, fare riferimento al momento in cui le stesse sono state ultimate, in rapporto ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio e, quindi, al momento della pronunzia che chiude ciascun grado.

L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento del secondo motivo, prospettato per insufficiente motivazione della pronuncia sulla questione in esame.

Con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 55,66 e art. 75, comma 1, in combinato disposto dell’art. 2423 c.c. e all’art. 2423 bis c.c., n. 4, in quanto la CTR avrebbe ritenuto erroneamente che, avendo la società acquisito certezza delle sopravvenienze passive e dei ricavi nell’anno 2002, non aveva rilevanza la circostanza che tale certezza era maturata in data antecedente all’approvazione del bilancio.

Va disattesa, anche in questo caso, l’eccezione di inammissibilità del motivo prospettata dalla controricorrente, posto che lo stesso risulta avere sufficientemente illustrato il passaggio motivazionale della pronuncia oggetto di censura, le posizioni delle parti e le ragioni di censura prospettate, riproducendo i passaggi fondamentali delle proprie ragioni di doglianza rispetto alla pronuncia del giudice di primo grado, e sintetizzando la diversa linea difensiva assunta dalla contribuente, non incorrendo, in tal modo neanche nella ritenuta carenza di autosufficienza del motivo. Nè può ritenersi che il motivo risulti contraddittorio ovvero impreciso in ordine al momento della conoscenza delle sopravvenienze attive e passive, in quanto lo stesso, dopo avere illustrato le diverse e rispettive posizioni delle parti, chiaramente segnala il vizio di violazione di legge sulla questione di fondo da esaminare, cioè la corretta applicazione della previsione in cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, in relazione alle previsioni codicistiche di redazione del bilancio, tenuto conto che dalla stessa pronuncia oggetto di censura si dà per dato certo che il momento della conoscenza della esistenza delle sopravvenienze passive e attive è comunque avvenuta in data anteriore a quella di approvazione del bilancio, ed è in relazione a questa specifica ratio decidendi che viene proposto il motivo di ricorso in esame.

Correttamente, peraltro, il motivo di ricorso in esame è stato proposto avverso distinti capi della pronuncia (relativi al rilievo n. 3 e 13) in quanto unica è stata, sul punto, la decisione.

Passando, quindi, ad esaminare il motivo di ricorso in esame, lo stesso è fondato.

La pronuncia censurata ha ritenuto che, ai fini della individuazione dell’anno di competenza delle sopravvenienze attive e passive doveva farsi riferimento al momento in cui la contribuente aveva raggiunto certezza della loro esistenza o quantificazione, non rilevando che tale momento si era formato in data anteriore alla data di approvazione del bilancio.

Questa Suprema Corte (Cass. civ. Sez. V, 13 dicembre 2017, n. 29865) ha affermato che in tema di imposte sui redditi d’impresa, i costi sostenuti dopo la chiusura dell’esercizio contabile di riferimento, ma incidenti sul ricavo netto determinato dalle operazioni dell’anno già definito, costituiscono elementi di rettifica del bilancio dell’anno precedente, sicchè concorrono a formare il reddito d’impresa ed incidono legittimamente in flessione sullo stesso tutte le volte in cui siano divenuti noti, in quanto certi e precisi nell’ammontare, prima della delibera di approvazione del risultato d’esercizio (Cass. n. 10903 del 2015; Cass. n. 3484 del 2014).

Pertanto, la pronuncia in esame è in contrasto con il suddetto principio, avendo ritenuto irrilevante la circostanza, dalla stessa accertata, che la certezza della esistenza delle sopravvenienze attive e passive si era verificata in data anteriore all’approvazione del bilancio relativo all’anno 2001.

Con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, non avendo precisato sulla base di quali elementi di prova si è ritenuto di addivenire alla considerazione finale che i compensi liquidati all’ex amministratore, per le prestazioni dallo stesso svolte in favore della contribuente, dovevano essere qualificati di lavoro autonomo, piuttosto che di lavoro dipendente.

Il motivo è inammissibile.

Va premesso che il presente motivo è stato proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), sostenendo il vizio di motivazione della sentenza per non avere sufficientemente indicato quali erano gli elementi di prova, prodotti nel giudizio, nonchè le ragioni sulla cui base aveva ritenuto di pervenire alla conclusione che, nella fattispecie, il compenso erogato era relativo ad attività di lavoro autonomo svolte dall’ex amministratore, piuttosto che a prestazioni riconducibili alla attività dallo stesso svolta quale amministratore.

Va osservato, a tal proposito, che il giudice del gravame ha ritenuto che i compensi liquidati all’ex amministratore dovevano essere qualificati come prestazione di lavoro autonomo e, pertanto, non rilevava il momento in cui gli stessi erano stati erogati.

Sul punto, va precisato che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Cass. civ. Sez. V, 25 febbraio 2015, n. 3758) “In tema d’imposte sul reddito d’impresa, i compensi spettanti all’ex-amministratore di una società di capitali per il periodo successivo alla cessazione della carica, in virtù del patto di non concorrenza, sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti in virtù del principio di cassa ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 62 (ora 95), in deroga al generale principio di competenza, trattandosi di somme corrisposte in dipendenza della cessazione del rapporto in virtù di un patto autonomo, ma pur sempre ad esso funzionalmente collegato, come confermato dall’art. 16 (ora 17) per i redditi di lavoro dipendenti, a cui sono assimilati gli emolumenti degli amministratori”.

Tuttavia, l’applicazione del suddetto orientamento giurisprudenziale postula che sia stata correttamente inquadrata la natura del compenso, non potendosi escludere, secondo la tesi della contribuente, che sia stato corrisposto un compenso all’ex amministratore per una attività che non aveva riguardo alla precedente attività svolta, ma aveva natura del tutto autonoma.

Nella proposizione del presente motivo parte ricorrente si limita a prospettare l’insufficiente motivazione, senza, tuttavia, indicare gli elementi decisivi e rilevanti ai fini della decisione, non tenuti in considerazione dal giudice del gravame, che avrebbero potuto condurre a qualificare la prestazione resa dall’ex amministratore quale attività compiuta in dipendenza della cessazione del rapporto in virtù di un patto autonomo, ma pur sempre ad esso funzionalmente collegato, sì da ricondurla, secondo il principio affermato da questa Corte e sopra indicato, nell’ambito del criterio di deducibilità per cassa.

In questo contesto, non è possibile procedere ad una riqualificazione del motivo di ricorso in termini di violazione di legge, nel senso di una non corretta applicazione delle previsioni normative di riferimento in tema di imputazione della prestazione ricevuta secondo il principio di cassa o di competenza.

Va, precisato, invero, che, secondo questa Corte (Cass., Sez. U., 24 luglio 2013, n. 17931) “Nel giudizio per cassazione – che ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1 – il ricorso deve essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi”.

La Corte, in particolare, ha precisato che, il superamento di un approccio più rigoroso e formalistico nella valutazione del rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso postula, comunque, “una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui al citato art. 360”.

Con riferimento alla fattispecie in esame, non è possibile procedere ad una riqualificazione del presente motivo di ricorso in termini di violazione di legge, avendo parte ricorrente, come visto, prospettato unicamente, quale ragione di doglianza, la questione dell’accertamento in fatto della effettiva attività svolta dall’ex amministratore, avendo ritenuto che la sentenza non ha sufficientemente motivato sul punto, non anche, invece, una non corretta sussunzione della fattispecie concreta nell’ambito delle previsioni normative di riferimento relative alla riconducibilità della stessa alla regola dell’imputazione secondo il principio di cassa o di competenza.

3. Conclusioni

Per quanto sopra esposto, vanno accolti il primo e terzo motivo di ricorso, assorbito il secondo, inammissibile il quarto, con cassazione della sentenza e rinvio alla Commissione tributaria regionale, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il primo e terzo motivo di ricorso, assorbito il secondo, inammissibile il quarto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.

Così deciso in Roma, il 26 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019

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