Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24002 del 16/11/2011

Cassazione civile sez. III, 16/11/2011, (ud. 04/10/2011, dep. 16/11/2011), n.24002

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9249/2009 proposto da:

COMUNE ROMA (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore On.le

A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL

TEMPIO DI GIOVE 21, presso lo studio dell’avvocato PATRIARCA PIER

LUDOVICO, che lo rappresenta e difende giusta delegain atti;

– ricorrente –

contro

M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo studio dell’avvocato BOZZI

Giuseppe, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

AZIENDA USL ROMA (OMISSIS) (OMISSIS) in persona del Direttore

Generale,

Dott.ssa F.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

FILIPPO MEDA 35, presso lo studio dell’avvocato FALLERINI MARIA, che

la rappresenta e difende giusta comparsa di costituzione;

– controricorrenti –

e contro

B.G., EREDI C.S. COLLETTIVAMENTE ED

IMPERSONALMENTE, CA.RO., P.V., MINISTERO

SALUTE, C.S., REGIONE LAZIO, CI.GI.;

– intimati –

sul ricorso 9566/2009 proposto da:

B.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA L. CARO 62, presso lo studio dell’avvocato CICCOTTI SIMONE,

che lo rappresenta e difende giusta .delega in atti;

– ricorrenti –

contro

COMUNE ROMA (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore On.le

A.G.e.d.i.R.V.D.T.

D.G.2.p.l.s.d.P.P.L.

c.l.r.e.d.g.d.i.a.

MI.GI. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso 10 studio dell’avvocato BOZZI

GIUSEPPE, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrenti –

contro

CI.GI., REGIONE LAZIO, CA.RO., P.

V., C.S.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2671/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/06/2008, R.G.N. 8170-8293-8315-8328-8399/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/10/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI CARLEO;

udito l’Avvocato PIER LUDOVICO PATRIARCA;

udito l’Avvocato GIUSEPPE BOZZI;

udito l’Avvocato SIMONE CICCOTTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha chiesto il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata in data 2 maggio 1992 M.G. esponeva che, nella sua qualità di vicedirettore sanitario di una casa di cura e di direttore del servizio di pronto intervento cittadino operante nell’ambito della predetta struttura negli ultimi mesi del 1988 e nei primi mesi del 1989, era stato contrastato, nello svolgimento della sua attività, dal coordinatore sanitario P. V. e dal coordinatore amministrativo Ca.Ro..

Aggiungeva che nel marzo 1989 il P.l.a.i.i.u.

“.n.c.i. C. si era reso responsabile della destinazione al servizio di pronto intervento cittadino di due dipendenti C.S. e Ci.Gi.; che era stato leso nel suo onore a causa della destituzione dalle funzioni direttive assegnategli previa soppressione dei relativi posti che erano stati però immediatamente ricostituiti ed assegnati al altri.

Ciò premesso, conveniva in giudizio i signori P., Ca., C., Ci., B.G., quale Presidente dell’USL RM (OMISSIS), nonchè il Ministero della Salute, la Regione Lazio, il Comune di Roma e l’USL RM (OMISSIS) al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede.

Si costituivano i convenuti sollevando, alcuni di essi, questioni preliminari. Il Tribunale di Roma, decidendo sulle questioni preliminari, con sentenza depositata il 25 marzo 2002 rigettava le eccezioni di carenza di giurisdizione, di nullità dell’atto introduttivo e di inammissibilità della domanda, provvedendo per il prosieguo con separata ordinanza. In esito al giudizio, con sentenza depositata in data 8 settembre 2005, il Tribunale dichiarava la legittimazione passiva di tutti i convenuti, accertava la responsabilità solidale dei convenuti P., Ca., C., Ci. ed ASL RM (OMISSIS) “per gli atti illeciti commissivi commessi nei confronti dell’attore”, li condannava al risarcimento dei danni non patrimoniali e morali da determinarsi in separata sede; accertava la responsabilità solidale dei convenuti B., Ministero della salute, Regione Lazio e Comune di Roma “per gli atti omissivi commessi nei confronti dell’attore” e li condannava al risarcimento del danno economico-patrimoniale da determinarsi in separata sede.

Avverso tale decisione proponevano appello il Ca., l’Usl Roma (OMISSIS), il B. (quest’ultimo proponeva appello anche avverso la sentenza non definitiva), il Ministero della Salute, il Comune di Roma. Dopo la riunione delle diverse impugnazioni, si costituivano in giudizio il M. che chiedeva il rigetto dei gravami, la Regione Lazio che proponeva appello incidentale avverso la sentenza definitiva, il P. che proponeva appello incidentale avverso entrambe le sentenze. In esito al giudizio, la Corte di Appello di Roma con sentenza n. 2671/08 depositata in data 23 giugno 2008 dichiarava cessata la materia del contendere tra il M. ed il Ministero della salute e l’Azienda Usl Roma (OMISSIS); dichiarava improcedibile l’appello del Comune di Roma; dichiarava inammissibili gli appelli incidentali tardivi proposti dalla Regione Lazio e dal P.; rigettava gli appelli proposti avverso la sentenza non definitiva; in parziale riforma della sentenza definitiva, condannava in via solidale B., Ca., P., C., Ci., la Regione Lazio ed il Comune di Roma al risarcimento dei danni derivati al M. da accertarsi e quantificarsi in separata sede, escludendo ogni eventuale accertamento contenuto nella sentenza impugnata.

Avverso la detta sentenza ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in un cinque motivi ed illustrato da memoria B. G., cui resistono con controricorso il Comune di Roma ed il M., dando vita al procedimento contrassegnato dal RGN 9566/09;

ha proposto altresì ricorso articolato in due motivi ed illustrato da memoria il Comune di Roma, cui resistono con controricorso il M. e l’Azienda sanitaria USL Roma (OMISSIS), dando vita al procedimento RGN 9249/09.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, deve rilevarsi che nella medesima udienza sono stati fissati il giudizio recante il n. 9249/09 R.G. ed il giudizio recante il n. 9566/09 R.G., relativi, il primo, al ricorso proposto dal Comune di Roma il secondo al ricorso proposto da B.G., entrambi avverso la medesima sentenza della Corte di Appello di Roma, contrassegnata dal n. 2671/08 depositata in data 23 giugno 2008.

Ciò posto, ritenuto che la riunione dei procedimenti relativi alla stessa causa può essere disposta d’ufficio anche nel corso del giudizio di legittimità, atteso che essa risponde alle stesse esigenze di ordine pubblico processuale (inammissibilità di duplicità di giudicati) in base alle quali la litispendenza può essere dichiarata in ogni stato e grado del processo e, quindi, anche in cassazione (Cass. n. 10653/99, n. 7966/06, n. 3130/07, Sez. Un. 982/79), è stata disposta dal Collegio la riunione dei due suindicati giudizi.

Passando all’esame del ricorso, proposto dal B., deve rilevarsi che con la prima doglianza, per violazione e falsa applicazione dell’art. 164 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente ha lamentato che la Corte territoriale avrebbe sbagliato nel rigettare l’eccezione di nullità della citazione per violazione del disposto dell’art. 164 c.p.c., n. 4, sull’assunto – questa, la motivazione dei giudici di appello – che le ragioni poste a fondamento della domanda attrice dovevano ritenersi sufficientemente esplicitate, posto che il B. si era difeso nel merito sollevando la questione solo in sede di comparsa conclusionale. Al contrario, i giudici di seconde cure – questa, la conclusione del ricorrente – avrebbero dovuto rilevare comunque la nullità della citazione.

La censura è con tutta evidenza infondata. A riguardo, torna opportuno rilevare che, fnorma dell’art. 164, comma 4, la citazione è nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel n. 3 dell’art. 163, ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al n. 4 dello stesso articolo.

Per effetto di tale disposizione, quindi, l’attore deve determinare chiaramente nella domanda (ma le prescrizioni si estendono anche alla domanda riconvenzionale ex art. 167, comma 2) non solo il petitum immediato, inteso come provvedimento giurisdizionale richiesto, ma anche il petitum mediato, quale bene della vita di cui si domanda il riconoscimento, nonchè il fatto costitutivo dell’azione, dal quale cioè è derivata la pretesa lesione del diritto. Ciò, a pena la nullità dell’atto in caso di mancanza o incertezza assoluta del petitum sia in senso formale che sostanziale o di mancanza della causa petendi. Con riferimento a quest’ultimo elemento, la nullità sussiste, pertanto, solo in caso di mancanza di ogni indicazione delle ragioni della controversia perchè, soltanto in tale ipotesi, l’omissione viene a tradursi in una circostanza che nel medesimo tempo impedisce al giudice di pronunciarsi sulla domanda ed impedisce alla parte, contro cui è rivolta la domanda, di apprestare la minima attività difensiva.

Ciò premesso, appare di ovvia evidenza che le ragioni del rigetto dell’eccezione di nullità, da parte del giudice del merito, si sono fondate sul rilievo che nel caso di specie il convenuto era stato in grado di difendersi nel merito e che tale circostanza non solo confortava l’ipotesi che le ragioni poste a fondamento della domanda attrice fossero sufficientemente chiare e comprensibili così da non impedire al convenuto l’esercizio del proprio diritto di difesa ma costituiva altresì la prova certa dell’insussistenza del vizio di nullità dedotto dal B.. Ne deriva l’infondatezza della censura.

Passando all’esame della successiva doglianza, la stessa è stata articolata dal ricorrente sotto il profilo della violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., artt. 2043 e 2697 c.c., e si fonda sulla considerazione che la Corte territoriale avrebbe innanzitutto omesso di pronunciarsi su una ragione di censura formulata nell’appello ritenendola inammissibile per violazione dell’art. 342 c.p.c.; inoltre, avrebbe violato gli artt. 2043 e 2697 c.c., perchè aveva dichiarato inammissibile il motivo di gravame “onerando la parte convenuta della prova dell’insussistenza dell’addebito contestato dal primo Giudice in assenza di qualsivoglia prova”.

Il primo profilo di doglianza è infondato. Ed invero, al fine di integrare gli estremi dell’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c., occorre che si sia completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile in riferimento al caso concreto, mancando qualsiasi statuizione su un capo della domanda, su un’eccezione di parte ovvero su un motivo di impugnazione Ciò non si verifica, naturalmente, quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere, comporti il rigetto di tale pretesa oppure, come nel caso di specie, una declaratoria di inammissibilità del motivo di impugnazione proposto. E ciò, anche se mancasse sul punto, il che non si è verificato nella vicenda de qua, una specifica argomentazione.

Quanto al secondo profilo, va osservato che la censura non è in correlazione con le ragioni della decisione, in quanto la Corte territoriale non ha affatto affermato il principio, secondo cui incombesse al convenuto l’onere di provare l’insussistenza dell’addebito contestato dal primo giudice. Ed invero, premesso che il giudice di primo grado aveva fondato la propria decisione sulla considerazione che la delibera adottata dall’Usl RM (OMISSIS), di cui era presidente il B., fosse stata strumentalmente preordinata per danneggiare il M., come poteva desumersi dalla “manovra rivolta alla soppressione del posto conferito all’attore M. ed al suo successivo ripristino in favore di altra persona”, ciò premesso, il motivo di appello proposto dal B. – così, in sintesi, la ratio decidendi – avrebbe dovuto essere diretto a confutare specificamente la fondatezza di tale argomentazione, posta dal Tribunale a fondamento della propria decisione. Al contrario, il motivo di impugnazione riguardava la presunta ” carenza di esposizione della condotta pretesamente violativa e dell’obbligo giuridico di condotta ritenuto violato”, previo utilizzo di un argomento generico che non si contrapponeva alle considerazioni del giudice di primo grado. Da ciò l’inammissibilità della censura proposta nell’atto di impugnazione.

Ciò posto, appare evidente come anche la censura proposta nel ricorso per cassazione, basata sulla asserita violazione degli artt. 2043 e 2697 c.c., eluda a sua volta il punto nodale della pronunzia e non sia correlata con la ratio decidendi della decisione impugnata fondata sul difetto di specificità della censura proposta avverso la sentenza di primo grado. Ed è appena il caso di osservare che le ragioni di gravame, per risultare idonee a contrastare la motivazione della sentenza, devono correlarsi con la stessa, in modo che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata risultino contrapposte quelle dell’impugnante, volte ad incrinare il fondamento logico- giuridico delle prime. Ne consegue l’inammissibilità del profilo di censura in questione.

Passando all’esame della terza doglianza, fondata sull’asserita violazione dell’art. 306 c.p.c., va osservato che la censura può riassumersi nella tesi, secondo cui nei confronti del B., presidente dell’azienda sanitaria” la condanna del Tribunale doveva essere annullata quale effetto estensivo della rinuncia agli atti nei confronti della USL ROMA (OMISSIS)”.

La doglianza è infondata. Ed invero, premesso che le posizioni processuali del Brenca e dell’Usl RM (OMISSIS) erano assolutamente diverse – del resto il primo, a differenza dell’azienda sanitaria, aveva impugnato, non solo, la sentenza definitiva ma anche quella non definitiva -, appare opportuno evidenziare che, come risulta dalla sentenza della Corte di merito, l’attore aveva espressamente rinunciato, anche nelle conclusioni definitive, alle domande avanzate in primo grado nei confronti della Az. Unità sanitaria locale Roma (OMISSIS) e del Ministero della salute motivando la sua rinuncia con la considerazione che essi erano stati “a suo tempo evocati in giudizio a ragione della allora notoria incertezza sull’ente responsabile delle passività delle c.d. Unità sanitarie locali”.

Come risulta evidente, la rinuncia – alla domanda e non agli atti – fu accompagnata dal riconoscimento esplicito della infondatezza dell’azione intrapresa e tale ammissione, con cui l’attore provvide a chiarire le ragioni per cui non intendeva insistere nella domanda, fu rivolta solo nei confronti dell’Azienda sanitaria e del Ministero, non anche nei confronti del B., perchè l’incertezza sull’ente responsabile delle passività delle c.d. Unità sanitarie locali era una situazione che con tutta evidenza non lo riguardava. Ne deriva che l’estinzione della pretesa di diritto sostanziale non si riflesse sul B. nè poteva estendersi anche nei suoi confronti, onde la manifesta infondatezza della censura in esame.

Quanto al quarto motivo di impugnazione, per insufficienza della motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la doglianza si fonda sulla considerazione che la Corte non avrebbe reso conto con adeguata motivazione delle ragioni per le quali la delibera adottata sarebbe illegittima.

La censura è inammissibile. Ed invero, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, applicabile alle sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006, la censura di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, oltre a richiedere sia l’indicazione del fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione sia l’indicazione delle ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione (Cass. ord. n. 16002/2007, n. 4309/2008 e n. 4311/2008). Ove manchi il momento di sintesi, come è avvenuto nella specie, il motivo di impugnazione deve essere dichiarato inammissibile.

Resta da esaminare l’ultimo motivo di impugnazione, per violazione e falsa applicazione dell’art. 2055 c.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Con tale motivo, il ricorrente lamenta l’erroneità della sentenza impugnata in quanto, a suo avviso, allorquando non sia ancora accertata nè la sussistenza di un danno nè l’efficienza causale dei comportamenti censurati, non potrebbe emettersi pronuncia sulla sussistenza di concorso causale in ordine alla produzione del danno e dunque sulla solidarietà dei convenuti.

Anche quest’ultima censura è infondata. A riguardo, torna opportuno precisare che, così come questa Corte ha già avuto modo di affermare in numerose decisioni, “ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 278 cod. proc. civ., non è sufficiente accertare l’illegittimità della condotta, ma occorre anche accertarne, sia pure con modalità sommaria e valutazione probabilistica, la portata dannosa, senza la quale il diritto al risarcimento, di cui si chiede anticipatamente la tutela, non può essere configurato; nel caso di condanna generica, infatti, ciò che viene rinviato al separato giudizio è soltanto l’accertamento in concreto del danno nella sua determinazione quantitativa, mentre l’esistenza del fatto illecito e della sua potenzialità dannosa devono essere accertati nel giudizio relativo all'”an debeatur” e di essi va data la prova sia pure sommaria e generica, in quanto costituiscono il presupposto per la pronuncia di condanna generica (tra le altre, Cass. n. 1631/09, 25638/010).

Ciò posto, se è vero che ciò che viene rinviato al separato giudizio è soltanto l’accertamento in concreto del danno nella sua determinazione quantitativa (ma questa Corte ha anche affermato che nulla impedisce che il giudice possa accertare con la condanna generica anche l’effettivo avveramento del danno, lasciando impregiudicate le sole questioni relative alla sua liquidazione:

così Cass. n. 3357/09, nn. 495/2000, 3634/80, 2420/76), appare di ovvia evidenza l’infondatezza della doglianza in esame. Ed invero, ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 278 cod. proc. civ., qualora venga accertato un fatto potenzialmente produttivo di danno, il giudice può e deve accertare altresì se esso sia conseguenza di diverse azioni di più soggetti responsabili, anche tra loro indipendenti ed anche ove costituiscano violazione di norme diverse, ai fini della responsabilità solidale di cui all’art. 2055 c.c., fermo restando che nel successivo giudizio instaurato per la liquidazione possa essere poi negato il fondamento della domanda risarcitoria e della responsabilità solidale dei più coautori previo accertamento del fatto che il danno non si sia in concreto verificato.

Alla stregua di tutte le superiori considerazioni, il ricorso proposto dal B., siccome infondato, deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

Passando all’esame del ricorso, proposto dal Comune di Roma, deve rilevarsi che con il primo motivo di doglianza, articolato sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 166, 171, 347 e 348 c.p.c., nel testo previgente alla L. n. 353 del 1990, il ricorrente ha lamentato l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha dichiarato l’improcedibilità dell’appello proposto da esso Comune, avendo trascurato che l’impugnazione riguardava un giudizio introdotto in primo grado con atti di citazione notificati in data 28, 29, 30 aprile, 2 e 13 maggio 1992, con la conseguenza che, applicandosi la normativa precedente alla L. n. 353 del 1990, entrata in vigore a decorrere dal 30 aprile 1995, la tardiva costituzione dell’appellante (di soli 2 giorni rispetto al termine di cui all’art. 165 c.p.c.), seguita dalla tempestiva costituzione di alcuno degli appellati, non comportava l’improcedibilità dell’appello.

La doglianza merita attenzione. Al riguardo, mette conto di prendere le mosse dalle modificazioni apportate alla L. n. 353 del 1990, art. 90, dal D.L. 9 agosto 1995, n. 347, art. 9, norma, la quale con disposizione di diritto transitorio ha definitivamente sottratto all’operatività della novella del 1990 i procedimenti pendenti alla data del 30 aprile 1995, prevedendo per essi la persistente applicabilità del vecchio rito, (sul punto cfr. anche Cass. n. 11301/07, n. 16347/04). Ne consegue che, essendo stata la causa in questione introdotta in primo grado con la notificazione della citazione avvenuta tra l’aprile ed il maggio 1992, al fine di valutare la regolarità della costituzione in appello andava fatto riferimento alla precedente formulazione dell’art. 347 c.p.c., mentre, al fine di valutare se ricorressero o meno i presupposti per l’improcedibilità dell’appello, andava fatto riferimento alla precedente formulazione dell’art. 348. Ora, se l”art. 347 novellato dalla L. n. 353 del 1990, art. 53, nel prevedere che la costituzione in appello avvenga secondo le forme ed i termini previsti per il procedimento innanzi al Tribunale, senza subire mutamenti sostanziali salvo l’adeguamento testuale della norma alla soppressione della figura del pretore, il successivo art. 348, sostituito dalla citata L. n. 353 del 1990, art. 54, nel disporre che, se l’appellante non si costituisce in termini, l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio, subisce una modifica radicale perchè la norma precedente disponeva, invece, che l’appello fosse dichiarato improcedibile soltanto dopo che l’appellante, non costituitosi fino alla prima udienza davanti all’istruttore, non fosse comparso neppure alla successiva udienza. Con conseguente possibilità per l’appellante di invocare a proprio favore l’applicabilità dell’art. 171, comma 2, in caso di tempestiva costituzione dell’appellato, così come si è verificato nel caso di specie in cui gli appellati, il M. e la Asl Roma (OMISSIS), si sono costituiti nei termini nel procedimento instaurato con l’appello proposto dal Comune.

Ne consegue che in applicazione di questo principio la censura formulata merita di essere accolta, ritenendosi in essa assorbito il secondo motivo di impugnazione, fondato sulla dedotta nullità del procedimento di secondo grado per violazione dell’art. 2907 c.c. e art. 112 c.p.c..

Con l’ulteriore conseguenza che, occorrendo un rinnovato esame da condursi nell’osservanza del principio richiamato, la causa nei limiti di cui al ricorso accolto, va rinviata alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce il giudizio recante il n. 9249/09 R.G. ed il giudizio recante il n. 9566/09 R.G., accoglie il primo motivo di ricorso proposto dal Comune di Roma, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata, in relazione, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità; rigetta il ricorso proposto dal B., che condanna alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida, in favore di ciascuno dei controricorrenti, in Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2011

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