Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23988 del 12/10/2017


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Cassazione civile, sez. II, 12/10/2017, (ud. 16/05/2017, dep.12/10/2017),  n. 23988

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5015/2013 proposto da:

S.B., (OMISSIS), C.A. CTLNNA52L42C511B,

elettivamente domiciliate in ROMA, VIA G. DE’ VECCHIO PIERALICE 5,

presso lo studio dell’avvocato GIULIA SERRAO CIRIACO, che le

rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

M.M., M.U., M.G.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA E TAZZOLI 6, presso lo studio

dell’avvocato LUIGI CONDEMI MORABITO, rappresentati e difesi

dall’avvocato ANTONIO ROMANO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1333/2011 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 28/12/2011;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16/05/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

Fatto

RILEVATO

che le sig.re S.B. e C.A. hanno proposto ricorso, sulla scorta di due mezzi di gravame, avverso la sentenza della corte d’appello di Catanzaro, che, riformando la sentenza del Tribunale di Lamezia Terme, ha rigettato la domanda di demolizione, per violazione delle distanze legali tra costruzioni, da loro proposta avverso la confinante proprietaria B.V. (alla quale, nel corso del giudizio di merito, sono succeduti gli eredi M.M., U. e G.), con riguardo ad alcuni manufatti posti in prossimità del confine (pollai, canili, pozzi neri);

che la corte di Catanzaro ha ritenuto che le suddette opere non potessero, in difetto di specificazioni sul punto, ritenersi vere e proprie costruzioni e che, quindi, non si applicassero alle stesse le norme sulle distanze tra gli edifici;

che, con riguardo alla diversa domanda di eliminazione della veduta, costituita dal terrazzo prospiciente la proprietà attorea, la corte accertava come essa fosse posta ad una distanza di mt. 1,20 dal confine anzichè quella regolare di mt. 1,50; tuttavia riteneva sufficiente, al fine di soddisfare la pretesa degli attori, la sua regolarizzazione mediante arretramento del parapetto di cm 30;

che infine, con riguardo alla domanda di rivendica di una porzione di terreno che le attrici assumevano occupata dalla convenuta in seguito alla realizzazione del muro di confine, la corte distrettuale correggeva la statuizione del primo giudice, riducendo da 1.000 a 100 metri quadri, in conformità al risultanze peritali, l’area di terreno che, avendo formato oggetto di sconfinamento da parte dei convenuti, questi ultimi dovevano rilasciare;

che i sigg. M.M., U. e G. hanno depositato controricorso;

che per l’adunanza di Camera di consiglio ex art. 180 bis c.p.c., comma 1, del 16.5.17, in cui la causa è stata decisa, solo le ricorrenti hanno depositato una memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che con il primo motivo di ricorso si denuncia il vizio di contraddittoria, omessa od insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5 (qui applicabile nel testo anteriore alle modifica recata dal D.L. n. 83 del 2012) in cui la corte sarebbe incorsa affermando, da un lato, che i convenuti dovevano rilasciare una striscia di terreno larga dai due metri ai due metri e mezzo e, dall’altro, che i manufatti in contestazione (pollai, canili, pozzi neri) non dovevano essere demoliti e che la veduta dal terrazzo doveva essere arretrata di soli cm. 30;

che, secondo l’argomentazione di ricorrenti, la conseguenza di tali contraddittorie statuizioni sarebbe, per un verso, che le opere situate a ridosso del muro di cinta risulterebbero ora sulla proprietà attorea e, per altro verso, che la terrazza, per la quale era stato disposto un arretramento del parapetto di 30 centimetri, sconfinerebbe nella proprietà degli attori per una profondità dai 230 ai 280 centimetri, cosicchè se ne sarebbe dovuto ordinare la demolizione;

che con il secondo motivo si denuncia la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, per la violazione dell’art. 111 Cost., comma 6 e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, derivante dal contrasto tra motivazione e dispositivo;

che i due mezzi di ricorso si risolvono in un’unica censura, con la quale le ricorrenti sostanzialmente lamentano l’incoerenza tra l’accertamento del confine operato dalla corte territoriale e la mancata adozione dei provvedimenti di condanna alla demolizione dei manufatti (pollai, canili, pozzi neri) e della terrazza realizzati dalla sig.ra B. sull’area che, alla stregua dell’accertamento giudiziale del confine, era risultata essere di proprietà S. – C.;

che, quanto ai manufatti, il Collegio rileva che la corte territoriale ha escluso (con statuizione non specificamente censurata dai ricorrenti) che gli stessi potessero considerarsi costruzioni, sostanzialmente qualificandoli come beni mobili; cosicchè correttamente la stessa non ne ha ordinato la rimozione, in quanto gli attori non avevano esercitato un’ azione personale tendente alla rimozione dei medesimi a titolo di risarcimento del danno (da occupazione senza titolo) in forma specifica, bensì un’azione reale tendente al rispetto delle distanze, che si fondava sul presupposto, escluso dalla sentenza, che tali manufatti fossero qualificabili come costruzioni;

che, quanto alla terrazza, la censura va giudicata inammissibile perchè formulata senza il rispetto dell’onere di autosufficienza; a pagina 8 della sentenza, infatti, si afferma che “il CTU ha evidenziato che la distanza tra la terrazza della B. ed il confine è di metri 1,20”, senza alcun riferimento alla presenza in loco di un muro; i ricorrenti lamentano che la misurazione del c.t.u. nominato in primo grado, geometra Co., sarebbe stata effettuata con riferimento al suddetto muro e non con riferimento al confine accertato dallo stesso consulente (pag. 11, penultimo capoverso, del ricorso), ma non trascrivono il pertinente stralcio della relazione peritale nè indicano l’esatta ubicazione di tale stralcio all’interno di tale relazione, cosicchè in definitiva, non mettono questa Corte in condizione di verificare il loro assunto che la suddetta misurazione sarebbe stata effettuata con riferimento ad un muro se non procedendo ad un complessivo riesame delle risultanze peritali, palesemente inammissibile in sede di legittimità;

che quindi, in definitiva, il ricorso va rigettato in relazione ad entrambi i motivi in cui esso si articola;

che le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza;

che deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater e D.Lgs. n. 546 del 1992.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna le ricorrenti a rifondere ai contro ricorrenti le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.500, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, D.Lgs. n. 546 del 1992, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2017

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